Carlo Ratti è tranquillo. Solo che se giri l’occhio è già da un’altra parte. Parla con uno scienziato specializzato in analisi dei dati alle Corderie (la sede principale della Biennale Architettura, che dirige e che apre il 10 maggio). Poi svanisce e riappare nei Giardini a pranzo, chessò, con Diane von Furstenberg, che ha fatto graziose bandiere piazzate come percorso centrale dei Giardini (altra storica sede della Biennale, con i padiglioni nazionali); e poi con Sylvia Lavin, che ha piazzato un sofisticatissimo meccanismo di intelligenza pura dentro il dismesso bookshop disegnato da James Stirling anni fa. Un microsecondo dopo lo segnalano nell’ufficio di produzione della manifestazione a vedere come domare l’incredibile bordello di gente e cose cha ha addensato dentro uno spazio enorme ma che è riuscito a pompare come mai.
Ratti è magro-magro, alto, con la faccia abbronzata dalla sciata che ha fatto a Zermatt, Svizzera, ieri. Perché ha fatto pure quella. Nel weekend scorso era anche a Madrid, poi è tornato. La botta epidermica evidenza occhi vispissimi dietro gli occhiali, leggerissimi. Ratti è indubbiamente una rockstar, 100%. Superstar dell’MIT dove ha fondato e fatto crescere Senseable City Lab, dove lavora costantemente: già anni fa studiavano dati per capire come intervenire a sbrogliare i casini delle città, intervenendo con ricettori di informazioni generati da umani, veicoli di vario tipo, infrastrutture. Anticipando insomma come viviamo (perché questo è servito a costruire piste ciclabili, zone senza traffico, ecc) e vivremo.
Poi ha iniziato di conseguenza a fare piani appunto urbanistici e a costruire, specie insieme al compianto Italo Rota, altra stella rock’n’roll dal pensiero formidabile scomparso lo scorso anno. «Dài, facciamo veloce che dopo devo ripartire per Parigi», taglia brutale Ratti. Il “carbon footprint” di Carlo è soltanto giustificato dal volano di intelligenze che è riuscito ad assemblare e comprimere in questa rumba che ha chiamato Intelli-gens. Naturale, Collettiva, Artificiale.
«La Biennale apre con una straordinaria installazione dedicata a dove siamo, Venezia. Con una simulazione del crescere dell’acqua e dispositivi di condizionamento per riprodurre l’aumentare della temperatura del pianeta. Subito dopo si trova un grande lavoro, frutto di una delle collaborazioni inedite che abbiamo voluto mettere in piedi. Per capire come evolverà la popolazione nei prossimi decenni mi è venuto in mente di incrociare le competenze di un grande biologo specializzato in microbi e batteri come Roberto Kolter; due studiosi di spazi e della loro antropologia, cioè Beatriz Colomina e Mark Wigley; una superstar del design come Patricia Urquiola e un fisico come Geoffrey West». Olè.
A quanto pare, è venuto fuori che cresceremo come popolazione fino al 2060, poi ci sarà un crollo nel numero degli umani, mentre i microbi e i batteri – che già sono ovunque – prolifereranno e si moltiplicheranno a manetta, finalmente liberi. Non male. Mi riprendo da questa prospettiva anche felice (se vogliamo) e capisco che l’adattamento è il tema centrale dell’esposizione di quest’anno. Non la vittoria degli umani (come nell’anime L’attacco dei giganti), ma la loro sopravvivenza nel migliore dei mondi rimasti dentro un panorama destinato – come sappiamo – a diventare se non ostile, perlomeno inedito.
Le possibili azioni (o “agencies”) sono accatastate comunque dentro il percorso, che è quasi difficile da percorrere per noi, tante sono le cose. Spesso troneggiano come strani tepee, capanne di tronchi molto imponenti, strutture tondeggianti o tende abbozzate. «Questa non è una Biennale che presenta centinaia di modellini e foto di materia costruita, ma di materiale per costruire, di future possibilità a partire dalla base».
Per questo c’è stupore ovunque, incluse mattonelle circolari fatte di merda o una casetta leggera con tanto di finestre che in realtà fa la forma iniziale di un abito da portare sulla Luna (nella sezione a questo dedicata che che chiude la mostra, Out). «Si è cercato di ripensare il costruire come spazio comune tra umani, animali, piante e umanoidi, con lo scopo di preservare e ospitare tutte le forme di vita, in modo da stabilire nuove relazioni etiche e di convivenza dentro gli spazi esistenti. Una strategia per la resilienza e la co-esistenza».
Finito di pronunciare la lettera “a”, il direttore si è già smaterializzato. Lo vedo in prospettiva mezzo chilometro dopo: sta discutendo su come migliorare l’azione dei pazzeschi robottini con forme umane che sono dei portenti a sollevare mattoni e, in generale, cose. Ratti va venduto a Marvel o DC come nuovo supereoe. «Immagino un’architettura che vada oltre gli architetti, che vada oltre il “design”, che inviti realmente nella progettazione. Come si vede nella presentazione di un intervento alle Vele, o alla Vela che rimane, di Napoli, che abbiamo fatto con la collaborazione tra abitanti e l’uso dell’AI».
Una specie di 64 Bars ma allargato, 365 all’anno. Altro salto spazio-temporale. Giusto in fondo all’Arsenale incontriamo Jean-Michel Jarre (vestito in Stone Island traslucido, incredibile) che mette a punto la versione 5D del suo album Oxygène, uscito nel 1976. Tornerà in Italia quest’anno con due date, trionfi annunciati: il 3 luglio in Piazza San Marco, proprio a Venezia; e poi il 5 luglio, a Pompei.
Insomma, Carlo Ratti ha assemblato con umiltà (che è la sua caratterista principale, in realtà). Questa megaband suonerà come coro mai sentito per sei mesi, fino a novembre 2025. Parla di noi, di come dobbiamo affrontare ciò che sta accadendo, delle prospettive e soluzioni che dobbiamo e dovremo utilizzare per adattarci, non più vincere. È una partita difficile. Qui troverete – non a caso si chiama Arsenale – alcune delle armi e rifugi che ci potranno servire. Ratti ha fatto, sfrecciando, un lavoro estremamente necessario.