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Carlo Lucarelli: «Visto che esiste il fascismo, ha senso essere antifascisti»

Il maestro del noir italiano, ospite del Mystfest di Cattolica, ci ha raccontato le origini dell'amore per il giallo, l'incontro con Dario Argento e perché è spaventato dal clima di intolleranza verso i migranti

Carlo Lucarelli conosce l’Italia e la racconta, attraverso i romanzi noir, i saggi, le sceneggiature e programmi televisivi e radiofonici diventati di culto, come Blu Notte o Dee Giallo, nei quali ha esaminato e ripercorso con minuzia di particolari casi criminali emblematici. E poi le storie più intricate degli ultimi anni perché, non contento, si è occupato di mafia, del delitto Pasolini, della strage di Piazza Fontana e di una infinità di altre vicende, riuscendo sempre a porre l’attenzione sulle contraddizioni e i mali profondi del nostro Paese e più in generale dell’animo umano. Il tutto con uno stile unico, “alla Lucarelli”, un marchio di fabbrica premiato dal pubblico con numeri importanti e una stima che gli ha permesso di toccare qualsiasi argomento senza risultare divisivo. Più unico che raro. Eppure, dopo avere tanto frequentato il male in ogni sua manifestazione, c’è qualcosa che oggi lo turba più del lato oscuro di certe vicende misteriose. Si tratta del clima di intolleranza che si respira non appena nell’opinione pubblica viene sollevata una questione che riguarda i “non italiani”, i migranti o gli stranieri. Anche perché, dopo essersi innamorato di sua moglie di origini eritree, da lei ha avuto due deliziose gemelline che mentre lo intervisto si tuffano in piscina e ogni tanto assaltano “il babbo” con calorosissimi abbracci. Insieme formano una famiglia mista e quando gli chiedo se in Italia avverta spirare un vento diverso rispetto al passato mi risponde più serio che mai: «Sì, infatti sono preoccupato».

L’intervista che segue si è svolta durante il MystFest, il festival internazionale del mistero di Cattolica, in quello che è considerato il “quartier generale” dei giallisti che ogni anno affollano la riviera, l’Hotel Madison.

Se guardiamo alla tua carriera, difficilmente troviamo un flop, sia parlando di libri che di televisione. Ti sei mai sentito il Re Mida del noir?
No, ci mancherebbe. Ma in parte è vero, cioè mi è capitato di fare delle cose in momenti in cui quel modo lì mancava o si stava sviluppando. Ho iniziato a scrivere romanzi noir nel 1990 e spesso mi considerano il precursore del genere. Non è così. Mi sono trovato all’interno di un movimento che stava nascendo e che utilizzava un modo di raccontare la realtà attraverso la sua metà oscura. Evidentemente c’era un buco e noi lo abbiamo riempito. Ero uno dei tanti, se vuoi sono stato più fortunato, visto che sono diventato più noto di altri. Ero solamente al momento giusto nel posto giusto.

Quando è nata la tua voglia di indagare in storie misteriose?
Sono cresciuto con Belfagor ovvero Il fantasma del Louvre e sceneggiati televisivi del genere, che hanno educato la mia generazione alla paura. Ci hanno fatto capire che era bello sentire quel tipo di emozione. Vedere una cosa che ti spaventa ma che non viene spiegata subito. Intanto leggevo romanzi, che mi passava mia madre, e quelli che più mi piacevano raccontavano la metà oscura delle cose: da Raymond Chandler a Giorgio Scerbanenco. E la mia adolescenza si è svolta tra gli anni ’70 e ’80, quindi in un’Italia piena di vicende inspiegabili. Ho attraversato l’epoca dei grandi misteri italiani. Un giorno, in particolare, ho visto un film di Damiano Damiani che si chiama Io ho paura, che metteva in scena i meccanismi di quei misteri. Mi sono appassionato, scoprendo che esistono storie che sembrano tratte da un romanzo e invece sono vere.

La tecnologia ha tolto un po’ di mistero alla ricostruzione di certi avvenimenti?
La tecnologia ha cambiato il mondo, ma non può eliminare il giallo. Per esempio, il caso di Giorgiana Masi che viene uccisa a Roma e per tanto tempo ci siamo chiesti chi le abbia sparato, dipende dal fatto che non avevamo a disposizione immagini. E poi c’è il G8 di Genova con la morte di Carlo Giuliani, dove tutto è stato ripreso. Qual è il problema? Che la tecnologia va interpretata. Quindi, su questi due casi oggi scriveremmo comunque un noir, in cui però le immagini sono state manipolate, il cellulare si è rotto o è sparito un file. Per cui c’è sempre spazio per il giallo.

Il MystFest ha celebrato Andrea G. Pinketts, che incarnava il giallista da romanzo con tutti i suoi eccessi. Tu invece sembri una persona molto controllata e senza vizi.
Ho una vita noiosa, è vero. Pinketts incarnava il giallista perché lo voleva. Ma non è che se scrivi romanzi gialli sei tormentato e se sei tormentato bevi. Pinketts si è divertito un sacco a fare Pinketts. E beveva. Ma si può vivere facendo tante altre cose. È uno stereotipo quello del giallista maledetto. Si può anche essere irregolari senza per questo avere vizi. Per esempio, la gente mi immagina a casa a scrivere, ma sono quasi sempre in giro. A me piace bere senza essere un bevitore, apprezzo ogni tanto il fumo del sigaro. Insomma, preferisco la degustazione.

Cosa ti fa più arrabbiare?
Molti dicono la stupidità. Però va definita, perché vuol dire un sacco di robe diverse. A me dà fastidio la superficialità nell’etichettare immediatamente qualcuno o qualcosa con una serie di stereotipi. Il mio mestiere è proprio di andare a sollevare le contraddizioni. Il cattivo non è mai tutto cattivo, il buono non è mai tutto buono. Quando vedo queste semplificazioni, in particolare sui social, mi fanno rabbia. È quello il vero limite, perché se ti fermi a quello sarà sempre un giudizio sbagliato.

Tutta colpa dei social?
No, anche dei social. Però tutto il male che si dice sui social si poteva dire del telefono o della macchina da scrivere. È vero che i social ti permettono in due battute di dire qualcosa, ma la differenza è come la dici. Di sicuro ha sdoganato questa superficialità.

Hai mai avuto degli haters?
Di solito no. Ho sempre avuto un certo consenso anche nelle trasmissioni più particolari che ho condotto. Difficile che mi abbiano tacciato di essere fazioso o di parte. Qualche volta mi è capitato di prendere posizione in maniera più diretta e mi aspettavo le minacce violente come “devi morire” o “devi essere violentato”. Invece mi è capitato chi mi ha scritto qualcosa del tipo “parli bene tu che hai l’attico e il Rolex”. Io no, gli ho risposto, spiegami qual è il problema. Con quei pochi ho dialogato. Non so se erano meglio loro o sono stato fortunato io. La minaccia di morte non mi è mai stata rivolta. Nemmeno quando sono stato nominato da Salvini. Immaginavo che mi sarebbe arrivata addosso una massa di insulti e invece no. Poi sai cosa ho notato? Che aveva scritto l’hashtag #Luccarelli con due C. Evidentemente si sono rivolti a un altro.

A questo punto arriva al tavolo una delle sue figlie in lacrime, la quale espone la diatriba in corso con la sorella che a quanto pare non le farebbe utilizzare i braccioli in piscina. Lui la consola amorevolmente, poi la invita a farsi coraggio. Passano alcuni minuti e si presenta la gemella, che brandendo i braccioli li nasconde sulla sedia a lato del padre. Lui con altrettanta cura le consiglia un chiarimento e poi torna all’intervista. Prima di andarsene, però, la piccola ci tiene a farmi sapere che anche lei non è da meno. “Anch’io ho due paure: Annabelle e Momo (la bambola assassina e un fenomeno virale che sta terrorizzando gli utenti Whatsapp)”.

Hai due figlie adorabili, nate dall’unione con tua moglie che è di origini eritree. Pensi che l’Italia, però, negli ultimi tempi sia diventata meno tollerante nei confronti di chi viene da altri paesi e persino verso il colore della pelle?
Sì e ovviamente non mi piace. Vivo questo periodo con una certa preoccupazione. Con determinati discorsi pubblici mi sembra di essere tornati indietro a livelli molto bassi. Vivo con fastidio il clima che si respira perché siamo quella che tecnicamente si può definire una famiglia mista. E sto attento al fatto che qualcuno possa dire qualcosa di spiacevole alle mie figlie o che per la strada si rivolgano a mia moglie dicendole: “Tornatene a casa tua”. Tutto senza sapere che in realtà è cittadina americana, la sua casa sarebbe Los Angeles, ha vissuto a Milano per tantissimo tempo e da anni vive a Morbano (Bologna). Questi discorsi sommari mi mettono apprensione. “Sei venuta con il barcone?” In realtà no. Però alla fine sono rincuorato dalle mie figlie, perché quando mi parlano di un compagno di scuola, che magari è africano, prima riportano come dettagli i vestiti, poi i riccioli o chi è la mamma. Il colore della pelle non arrivano mai a dirmelo. E questo mi fa ben sperare, perché sono i bambini come loro il futuro.

Carlo Lucarelli con la moglie e le due figlie

Ho visto che sono già interessate a temi paurosi. Ti hanno mai ispirato una storia?
No, ma perché ho un problema con i bambini rispetto al noir. Non sono mai riuscito a inserirli, neanche in Blu Notte o nei miei libri. Non riesco a immaginarli in un contesto negativo. Ma prima o poi lo farò, visto che negli ultimi anni vivo una condizione particolare. A casa ho lo studio su tre rampe di scale. Io sono di sopra a sbudellare persone, poi a un certo punto sento: “Babboooo” e scendo a giocare con loro. Poi torno su di nuovo ad ammazzare gente. I bambini, comunque, hanno un punto di vista interessantissimo e forse tra qualche tempo, quando avrò metabolizzato il loro modo di interpretare certe storie, mi ci dedicherò davvero.

C’è un libro di un altro autore che avresti sempre voluto scrivere?
Ovviamente tanti, forse tutti quelli che mi sono piaciuti. Ma se dovessi sceglierne solo uno, direi La notte dei generali di Hans Hellmut Kirst. È la storia tipica che avrei pensato io. Il serial killer in mezzo alla guerra, una struttura cronologica che attraversa vari momenti. E lo cito apposta perché non è nel pantheon della letteratura, come l’Ulisse di Joyce o Guerra e pace di Tolstoj. Troppo facile. Di solito se chiedi del classico preferito le persone dicono sempre i soliti titoli, se invece sottolinei il loro classico, saltano fuori libri piccini ma che considerano fondamentali.

Se potessi reincarnarti in un cattivo, quale sceglieresti?
Su due piedi mi vengono in mente quei cattivi dei supereroi che spaccano tutto. Però, pensandoci un po’ di più, non è facile. Anche perché io di solito tengo per i buoni. Una volta ho sognato di essere l’ispettore Ginko e per non far scappare Diabolik gli sparavo in testa. Dei miei cattivi no, perché mi stanno simpatici come i buoni. Allora, ecco che le mie figlie mi hanno ispirato: mi piacerebbe reincarnarmi in Slender Man, perché fa paura ai bambini. Sarebbe una buona occasione per raccontargli delle storie belle.

Quando hai collaborato con Dario Argento, chi dei due ha fatto più paura all’altro?
Lui, senza dubbio. Ci siamo incrociati anni fa al Noir in Festival di Courmayeur. Poi, qualche tempo dopo ero a casa con una febbre bestiale e mi arriva una chiama: “Sono Dario Argento”. Pensavo di delirare a causa della temperatura alta. Stava girando Non ho sonno e voleva incentrarlo sull’indagine, quindi mi chiese di dargli una mano. È venuto da me, in un albergo vicino a Mordano. Una sera siamo andati a vedere al cinema di Imola Il mistero di Sleepy Hollow. Ogni tanto qualcuno in sala si girava e diceva furtivo: “Ma è Dario Argento? C’è Dario Argento! È proprio Dario Argento…”. Insomma, alla fine era diventata lui l’attrazione».

In una vecchia intervista avevi ammesso che sotto la doccia cantavi l’Internazionale di Franco Fortini. Ancora oggi?
Era vero, ma non me la ricordo più bene. Alla stessa domanda, ora risponderei Bella ciao.

Viviamo un’epoca in cui le ideologie sembrano scomparse. Ma essere di sinistra ha ancora un senso?
Io penso alla sinistra come a una serie di valori, dalla solidarietà alla giustizia sociale e tanti altri. Ma se parlassi con una persona di destra, credo citerebbe valori simili ma presi da un altro punto di vista. Non è solo il valore in sé, ma come lo organizzi tu. Mi sembra che sia ancora attuale essere di sinistra. Visto che esiste il fascismo, ha senso essere antifascisti. Non inteso come partigiani che sparano a persone con la divisa nera. No, ma in opposizione al punto di vista con il quale vengono interpretati certi valori. A me sembra che alla sinistra, più che i valori, manchi una organizzazione. Un contenitore per metterli in fila e fare un po’ di ordine.

Valori come quelli messi in discussione nella vicenda Sea Watch. Come interpreti la contrapposizione fra il capitano Matteo Salvini e la capitana Carola Rackete?
La propaganda ci è andata a nozze. In questa vicenda c’è una contrapposizione totale. Da una parte Salvini, che è un uomo vestito in un certo modo e parla con un determinato linguaggio, dall’altro una ragazza giovanissima, con i rasta, che viene da tutto un altro mondo. Se gli americani avessero dovuto girare una storia del genere al cinema l’avrebbero fatta proprio così, con gli stessi personaggi. E quindi capisco che gli haters ci abbiano sguazzato. Ma è una situazione che non si sarebbe dovuta verificare e si poteva risolvere diversamente. Mentre si dibatteva dei 42 migranti a bordo della Sea Watch, a Lampedusa ne sono sbarcati 200 per i fatti loro. Infatti, fermarsi a questa micro-battaglia tra simboli è una sciocchezza totale, pura propaganda, il modo ideale per non risolvere un problema. Ora la domanda sarebbe: e allora come si risolve? Gli “odiatori” rispondono: portali a casa tua. Non è questo il discorso. Dovremmo metterci lì e discuterne tutti insieme.

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