Branciaroli e Orsini, il ruggito dei giganti: «Il teatro di oggi è al 90% amatoriale» | Rolling Stone Italia
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Branciaroli e Orsini, il ruggito dei giganti: «Il teatro di oggi è al 90% amatoriale»

Fino al 30 gennaio sono al Piccolo Teatro Grassi di Milano con uno spettacolo sull’amicizia. Ma fuori dalla scena non fanno sconti: «I critici? Dovrebbero chiedere a noi la patente per scrivere»

Branciaroli e Orsini, il ruggito dei giganti: «Il teatro di oggi è al 90% amatoriale»

Umberto Orsini e Franco Branciaroli in scena in ‘Pour un oui ou pour un non’

Foto: Studio Amati Bacciardi

Non chiamateli “mattatori” o “mostri sacri”, a meno che non vogliate rischiare le loro invettive (le abbiamo prese noi per voi, provocandoli sul tema). Sono infatti degli intellettuali, senza se e senza ma, come nella migliore tradizione del teatro europeo. Con buona pace di chi ancora in Italia si ostina a considerare gli artisti – parliamo di quelli con riconosciute qualità – degli arlecchini “che ci fanno tanto divertire”. La citazione è di un premier, non proprio del primo che passa. Anche perché, quando ci siamo trovati davanti Umberto Orsini e Franco Branciaroli, con i loro 88 e 75 anni, non è un’esagerazione sostenere che ci siamo trovati di fronte il teatro italiano.

Li abbiamo incontrati cogliendo l’occasione della loro permanenza fino al 30 gennaio al Piccolo Teatro Grassi di Milano con l’opera Pour un oui ou pour un non di Nathalie Sarraute con la regia di Pier Luigi Pizzi, che di anni ne ha 92 e una carriera altrettanto eccezionale. Ma mentre sulla scena portano uno spettacolo basato sui non detti, sulle intonazioni e le ambiguità che possono creare malintesi e guastare un’amicizia, quando rispondono alle nostre domande non lasciano scampo ai fraintendimenti. Come quando tuonano all’unisono: «Chi sono i critici oggi? Siamo noi che dovremmo chiedere la patente a loro per scrivere». O quando Branciaroli, senza fare nomi «sennò si scatena l’inferno», lancia una bordata su tutta la scena teatrale contemporanea: «Per il 90% il teatro di oggi è amatoriale, anche su palcoscenici di prim’ordine». E Orsini, che nel mentre annuisce, aggiunge il carico da novanta: «È un successo continuo. Hanno tutti successo. Per questo noi stiamo cercando finalmente un clamoroso insuccesso». Sarà molto difficile, e infatti Branciaroli, sornione, lo ha rintuzzato: «Non ce la faremo mai…».

Per ora ho letto solo recensioni entusiastiche al vostro spettacolo. È un buon segno?
Franco Branciaroli: Quando succede si dovrebbe immediatamente fermare lo spettacolo! Comunque agli elogi reagisco bene, non li mando certo affanculo… Le critiche invece mi toccano. Perché in realtà riguardano solo te. Le leggi solo tu. E a smaltirle ci vuole un po’ di tempo.
Umberto Orsini: Nella mia vita ricordo più i commenti negativi che quelli positivi. Li ho impressi nella mente. Ma dipende anche da chi arrivano. Una volta c’erano Quadri, Cordelli o Raboni, e se parlavano male del tuo lavoro ti mettevano in ansia per tutta la stagione. Ma anche oggi, reagirei più volentieri a dei commenti negativi.

Avete citato alcuni dei critici più noti e influenti del passato. Ma oggi esiste ancora la critica?
FB: Ecco, oggi il punto è questo, cioè l’infamia del critico. Chi è oggi questo signore? È uno che prima di chiedere la patente a me dovremmo essere noi a chiederla a lui. Scrivono perché un direttore dà loro un permesso, ma chi dice che sono degni di farlo? Dopo questa affermazione fino alla morte mi attirerò le loro critiche negative. Ma è anche la cosa più divertente, alla fine.
UO: Le critiche buone che ci riguardano non le legge nessuno, quelle negative le leggono tutti i colleghi. Una stroncatura la sanno tutti, la lode sperticata fingono di non averla vista.
FB: D’altronde l’uomo di successo è morto. Cosa c’è dopo il successo? Non c’è più niente. Quindi meglio non averlo mai, così sei sempre vivo. I più grandi geni sono stati stroncati. Persino Proust è stato stroncato, lo sanno tutti, no? Tutte le vicende delle persone degne di essere nominate artisti sono state stroncate e poi rivalutate. Solo colui che è stroncato è degno di nota. In chi è sempre adulato c’è qualcosa che non va. Ma soprattutto ai critici di oggi manca la patente, sono giornalisti di quarta, i meno importanti e pagati del giornale, tranne rarissimi casi.

In una precedente intervista, alla domanda “Chi è oggi Branciaroli” ha risposto: “Ogni settimana sono qualcuno di diverso”. Allora vi chiedo: chi sono oggi Branciaroli e Orsini?
UO: Sono un vecchio signore, che se facesse un’altra professione sarebbe nei giardinetti con il bastone, il cagnolino e qualche nipote. Invece mi trovo ancora, grazie al mestiere che faccio, su un palco a saltare tra una sedia e un divano.
FB: Lo devo ancora scoprire, non è ancora finito il giorno. Lo saprò verso sera chi sono davvero oggi. Ma in fondo credo che non lo saprai mai chi sei, anche quando muori. Anzi, pericolosissimo è quando stai per morire e credi di saperlo. Terribile! Non è vero, non sappiamo niente e non lo sapremo mai.

Che reazioni avete quando vi chiamano “mattatori”?
UO: Oddio, è una definizione che viene da Gassman…
FB: È veramente una cazzata invereconda! Non lo sono mai stato. Basta che gridi un po’ o che hai una certa perentorietà e nel periodo giovanile ti bollano così e te lo tieni a vita. Anche da vecchio, se parli flebilmente ma ogni tanto alzi il volume, dicono: “Ecco il mattatore”. A dirlo sono i soliti stronzi, un po’ poveracci.

Fare l’attore è una esigenza umana?
FB: Chi l’ha detto questo?

Sempre lei…
FB: Ma davvero? Dev’essere stato un momento di scemenza…
UO: Forse eri ubriaco…

Ve la traduco così. In una partecipazione televisiva Marlon Brando disse, in sintesi, al suo intervistatore: “Tutti recitiamo una parte, anche tu che mi stai intervistando”.
FB: Sono cazzate anche queste. Recitare è una tecnica. Come dipingere. Tutti scarabocchiamo, non dipingiamo. L’attore vero usa una certa tecnica per interpretare i testi scritti da altri. Questo fa l’attore occidentale, quello di Bali si muove ed emette dei suoni, ma è un altro discorso. Per farlo ci vuole una preparazione. Se ci provi tu fai ridere i polli, però ti dicono che intervistandomi stai recitando… ma per piacere! Purtroppo, circola ancora la famosa battuta di Orson Welles: “L’Italia conta oltre 50 milioni di attori. I peggiori stanno sul palcoscenico”. È una provocazione, ma non è vera. Puoi trovare uno divertente al bar, poi gli chiedi: “Mi fai Edipo?”, e improvvisamente non riuscirà a farlo.
UO: Potrebbe fare il cinema, magari…
FB: Il cinema sì, perché lì fa tutto il regista. Ti trovi in un primo piano dove pensi di andare a mangiare tranquillamente e poi il doppiatore ti fa dire “come soffro”…

Umberto Orsini e Franco Branciaroli col regista Pier Luigi Pizzi. Foto: Studio Amati Bacciardi

Nel ’68 Branciaroli si iscriveva alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, mentre Orsini era già al cinema con Visconti. Quanto è cambiato il vostro mondo da quell’epoca a oggi?
UO: Intanto c’era Visconti e oggi uno come lui non c’è più. Ho avuto la fortuna di vivere in un’epoca con Fellini, Antonioni e tanti altri, con i quali ho avuto incroci artistici. Oggi manca quel tipo di regista lì. Ora tutti guardano in camera e non gli attori, non dirigono più umanamente. Ho fatto cose recentemente e mi sono adattato a questo sistema, non so se sia meglio o peggio, ma è molto diverso.
FB: È proprio in quegli anni lì che è cominciato l’oggi. Le cose più importanti artisticamente sono state fatte tutte prima del ’68. Dopo quell’anno è roba epigonale. Il ’68 è l’inizio di come siamo messi oggi, cioè non bene, ma cominciò lì. Lui ha avuto fortuna massima, si è goduto la grande Roma, mentre io ho acchiappato qualcosina, la coda di pesce fino al ’75. Poi la trasformazione del teatro e del cinema in arte amatoriale è stata inesorabile.

Addirittura, in arte amatoriale?
FB: Per il 90% il teatro di oggi è amatoriale e lo vedi anche su palcoscenici di prim’ordine. Tutto ciò è sfociato in quello che in politica è stato definito “uno vale uno”. Non faccio nomi per non scatenare l’inferno. Ma oggi vedi tranquillamente una giovane che fa l’attrice, la regista e l’autrice di se stessa come fosse come bere un bicchiere d’acqua. All’epoca, invece, dovevi avere almeno cinquant’anni ed essere una star dal talento eccezionale per potertelo permettere. E poi fallivano lo stesso. Ci hanno provato diversi grandi artisti, come Laurence Olivier, che poi è stato sperculato. C’era una severità di giudizio che rendeva la vita molto più divertente. Ora non ti diverti più, perché se chiunque si alza al mattino e può dirsi Strehler che gusto c’è? E tutto cominciò nel ’68.

Anche il pubblico è molto cambiato. È quasi impossibile, alla fine di qualsiasi spettacolo, sentire delle critiche, delle proteste o addirittura dei fischi.
UO: Hai ragione, il pubblico ormai accetta tutto. È un successo continuo. Hanno tutti successo. Recentemente con questo spettacolo stiamo cercando un clamoroso insuccesso. Anche perché parliamo con i colleghi e non gli puoi chiedere com’è andata, tanto hanno tutti successo.
FB: Non ce la faremo mai ad avere un insuccesso…
UO: Non per merito nostro, anche per colpa del pubblico. Però devo sottolineare un aspetto di questi ultimi due anni di pandemia: il pubblico che viene a teatro oggi sfida qualcosa. Non è facile stare con la mascherina per ore, bisogna avere determinazione, come andare in libreria invece di leggere online. Questo tipo di pubblico forse è un po’ più scremato.

Una sorta di selezione naturale, avvenuta anche dopo un lungo tempo di teatri chiusi. Manca un vero ruolo sociale del teatro nel nostro Paese?
UO: «Non ce l’ha mai avuto, in Italia. Non è fondamentale. In altri Paesi sì. A Parigi se ci fosse in scena uno spettacolo come il nostro ne discuterebbero tutti e nei primi giorni vorrebbero vederlo per parlarne, per un’esigenza di scambio culturale. Da noi invece è marginale. Non ho mai visto un intellettuale importante a teatro, o uno scrittore che venga in camerino a suggerire delle commedie. Lo stesso Alberto Arbasino si era fermato ai tempi di Adami e parlava sempre del Galileo brechtiano di Strehler, che era di trent’anni prima che lui morisse. Ma erano solo ghiribizzi. Andava a Londra e New York e recensiva commedie che in Italia erano già state date da due anni, non era informato. Intanto a Roma, prima del ’68, in via Veneto si poteva passare una serata con Mario Pannunzio, Franca Valeri, Vittorio Caprioli, Patroni Griffi, Francesco Rosi… oggi quella socialità tra artisti è sparita.
FB: Dove siamo ora ce l’ha avuto sociale (il Piccolo Teatro Grassi, nda), perché hanno tentato di costruire ciò che in Italia non c’era, cioè il teatro pubblico. Poi è naufragato, perché non è una nazione teatrale di prosa, la nostra tradizione è nella lirica. La prosa non è qualche farsa… metti quella napoletana. La prosa è appannaggio di grandi Paesi protestanti europei, e non è un caso dove il teatro è importante come la letteratura.

Il grande attore è anche un intellettuale?
FB: Ma certo. Invece in televisione, che è lo specchio dell’Italia, mettiamo che si parli di droga, allora vedi al tavolo lo scrittore, lo psicologo, il filosofo, ma mai un attore. In Italia l’attore è reputato una specie di arlecchino, un povero disgraziato. Non che stimi la Germania, però in quel Paese l’attore ha la dignità di un filosofo o del più grande scrittore tedesco. Basta leggere Thomas Bernhard, benché poi li prenda per il culo. Da noi gli attori sono dei paria, una classe inferiore.
UO: Basta ricordare quello che disse il premier Giuseppe Conte durante la prima pandemia: “Meno male che ci fanno divertire”…
FB: Esattamente, è questa l’idea che ha un politico e di quel livello nel nostro Paese. Come lo definiva Grassi: “Il teatro digestivo”. Mangi, vai a teatro e dev’essere una specie di amaro, ma se va oltre a questo ti rompe già le palle e ti rovina la digestione.

Da intellettuali, come valutate l’attuale situazione politica dell’Italia?
FB: Per me la politica sta peggio del teatro. Penso che il futuro politico sia soltanto di servizio. In Italia ci sono quattro milioni di disabili. Ogni disabile ha almeno una persona al fianco, a volte anche due, quindi sono in totale dagli otto ai dieci milioni di persone. Come i vecchi o molto vecchi, che sono quasi disabili. Questa massa non è ancora organizzata in partito, ma il giorno che si organizzerà formerà un partito che metterà in ginocchio ogni formazione politica. Il futuro sarà così, con associazioni di servizio. La politica non c’è più ed è giusto che non sia altro che una manifestazione di economia e scienza. Perché non c’è altro. Quando si lamentano che l’Europa è soltanto fondata sul danaro, ma perché è l’unico valore rimasto. Quali altri ce ne sarebbero? Senza farmi ridere, per cortesia… per avere dei valori devi contare su un’etica assoluta, sennò è un valore relativo. L’unico che conta è il danaro oggi e quindi è fondata sull’unico valore che conta.
UO: Concordo, mi sembra una visione molto giusta. La politica è talmente ondivaga anche in Europa, come per esempio i Verdi in altri Paesi. Non sono un partito di opinione, si riconoscono in quello che loro ritengono un disagio. In cose pratiche e concrete. Una volta che il cittadino fa un gruppo diventa un partito, anche se poi è gente che si ribella per cose pratiche. Il M5s ha preso il 32% basandosi su queste cose.

Il famoso intento “apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno” non è andato a buon fine…
UO: Hanno preso voti da un elettorato che è talmente liquido che passa da una formazione all’altra nel giro di pochissimo tempo. Sono abbastanza vecchio per ricordarmi il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Già dopo la guerra c’era questa tendenza contro i partiti. Ora spopolano personaggi come la Di Donato o Paragone, che non avrebbero nessuna notorietà per i loro meriti per essere chiamati nei talk show. E non cambierebbero mai idea per nessuna ragione al mondo, visto che vengono chiamati per quello. È inutile scaldarsi. Hanno capito il loro ruolo.

È contro la mediocrità che osservate intorno a voi che avete deciso di unire le forze?
UO: Sì, per unire le forze. Ci conoscevamo da tempo, già prima della pandemia volevamo fare qualcosa insieme. Tutto sommato, quando fai una compagnia l’importante è distribuire gli spettacoli, avere le piazze. Di solito le compagnie stanno un mese e mezzo e non di più. Noi insieme riusciamo a fare anche più di sei mesi, quasi un anno. È una strategia per non farci dire dei “no”, visto che nessuno a noi due insieme potrebbe dirceli in faccia.
FB: Orsini è l’unico partner che potesse darmi uno stimolo. Devi anche andare su certe affinità, sennò dopo tre giorni ci si prende a cazzotti. La recitazione è qualcosa di delicato, che può mettere in moto frustrazioni e narcisismo. Ce ne sono tanti altri con i quali non lo farei mai. Quindi, queste imprese si fanno con persone intelligenti e non tutti gli attori italiani sono intelligenti.

Quindi, il vostro messaggio per il pubblico è di tornare a criticarvi?
UO: Intanto chiariamo che un brutto spettacolo è nocivo al teatro o alla voglia di andare a teatro come niente al mondo. Se vedi un brutto film o leggi un brutto libro è diverso, torni al cinema o cambi scrittore. A teatro no, puoi anche non tornarci per mesi o anni. Per cui scegliete bene gli spettacoli, con una buona compagnia e che sia di eccellenza. L’altro giorno ho incrociato una mamma che portava suo figlio di 14 anni alla nostra opera. Il ragazzo era entusiasta. Andrà ancora a teatro, speriamo solo che il secondo che andrà a vedere non sia una cagata…
FB: Il mio messaggio per il pubblico è questo: anche se viene fatto male, scegliete sempre il teatro basato sui testi. Non si possono eliminare. Il teatro di oggi è tutto contro i testi, oppure se li scrivono da soli che è ancora peggio. È come la letteratura, guarda la classifica dei romanzi di oggi, puoi buttarli via tutti. Allora cosa leggi? I grandi libri del passato. Anche se poi sono interpretati male, almeno le parole che escono dalle bocche di quegli attori vengono da grandi intelligenze.

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