Edoardo Nesi: «Dopo la pandemia ci sarà un mondo da rifare» | Rolling Stone Italia
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Edoardo Nesi: «Dopo la pandemia ci sarà un mondo da rifare»

A metà tra reportage e autobiografia, 'Economia sentimentale' ripercorre i mesi del lockdown e racconta le storie di economisti, imprenditori e freelance. L'obiettivo? Trovare una via d'uscita dalla crisi


Edoardo Nesi: «Dopo la pandemia ci sarà un mondo da rifare»

Edoardo Nesi

Foto: Leonardo Cendamo/Getty Images

«In questi giorni sospesi l’economia mi appare sempre più una scienza viva e umanissima, certamente la più adatta di tutte le discipline a raccontare la sostanza delle nostre vite e il fervore dei nostri sogni e la miseria delle nostre paure, una stupefacente generatrice di storie e di speranze, lontana anni luce dal gelo tagliente dei numeri coi quali si usa raccontarla». Nasce da questa convinzione Economia sentimentale, il nuovo libro di Edoardo Nesi: non un romanzo, non un saggio, ma piuttosto uno scritto dove l’autobiografia s’intreccia col reportage, e l’emotività del flusso di coscienza con un’analisi a più voci di quest’epoca di pandemia. Le voci sono quelle di imprenditori, economisti, finanzieri, luminari della sostenibilità, industriali, freelance, commercianti, che lo scrittore pratese interpella e alle quali chiede pareri. E in mezzo a tutte la sua, quella dello stesso Nesi, Premio Strega 2011 con Storia della mia gente (Bompiani), traduttore (Infinite Jest di David Foster Wallace), ex politico, ex imprenditore tessile lui stesso, per 15 anni a capo dell’azienda di famiglia venduta nel 2004, sotto la pressione di una globalizzazione sempre più sregolata e opprimente. In Economia sentimentale (La Nave di Teseo), partendo dalle sue esperienze personali, dal legame con un padre che non c’è più, dalla rabbia e dalla preoccupazione che con l’emergenza sanitaria hanno travolto tutti noi, Nesi evidenzia gli squilibri e le disuguaglianze sociali causati dal turbocapitalismo neoliberista e senza scrupoli e dal dogma della crescita infinita. E attraverso il confronto con i suoi intervistati va alla ricerca di una via di uscita, di una ricetta che possa rendere l’“andrà tutto bene” gridato dai balconi nella primavera passata qualcosa di più di uno slogan vuoto. Lo guida la nostalgia di un tempo perduto, in un libro che sembra quasi un manifesto politico. «Non lo è, ma di sicuro mi piacerebbe che i politici lo leggessero», dice lui.

È per questo che lo hai scritto?
L’ho scritto perché, sebbene abbia vissuto una quarantena abbastanza serena, con mia moglie, i miei figli e in una casa abbastanza grande con giardino, mi sono trovato come tutti di fronte ai peggiori fantasmi e ho cominciato a chiedermi come l’Italia avrebbe fatto a sopravvivere economicamente. Non è successo quando Conte ci ha chiusi in casa, ma quando ha chiuso le aziende, i posti di lavoro: quello è stato il momento più difficile, in cui ho sentito che qualcosa di davvero terribile stava per accadere. E lì ho capito che non era possibile cavarsela raccontando una storia mia, ho pensato fosse più importante, ma anche più umile e rispettoso, chiedere, andare a cercare dei frammenti di verità in altre persone, piuttosto che mettermi a pontificare io. Così è nato questo libro che considero un po’ un reportage dell’anima, scritto con in testa il new journalism di Norman Mailer, Hunter Stockton Thompson, Tom Wolfe, Joan Didion, della nostra Fallaci, gente che narrava il mondo anche parlando di sé.

Ti sei confrontato con Enrico Giovannini, economista, oggi responsabile di Futura Network e portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), con Livia Firth, fondatrice dell’agenzia di consulenza Eco-Age, con il finanziere e scrittore Guido Brera, co-sceneggiatore della serie tv I diavoli e autore dell’omonimo libro, con svariati imprenditori, con una freelance che fa il vino, col tuo macellaio. Che idea ti sei fatto?
Ho trovato più ottimismo di quanto mi sarei immaginato. Ma al tempo stesso ho capito che non si può più parlare della società come di una sorte di monolite, che bisogna parlare di tutti i frammenti che la compongono, quella società. Perché le sorti del Paese non sono più unificabili, la pandemia ci può unificare nel costringerci a casa, ma il modo in cui a essa si reagisce e si sopravvive ci divide. Basti pensare a quel che è successo alle aziende che sono state chiuse e a quelle rimaste aperte. Senza contare che anche tra le seconde si è posto un problema, perché se apri mentre i negozi sono chiusi, a chi vendi? Esiste una differenza sostanziale di destini e di prospettive ed è molto più sfaccettata di quanto pensassi.

Nel libro mancano gli operai, gli impiegati, i dipendenti: è stata una scelta, non coinvolgerli nel tuo racconto?
Più che altro, dopo aver parlato con alcuni rappresentanti di quelle categorie, mi sono reso conto che avevano una visione protetta dalla promessa che avrebbero ricevuto la cassa integrazione e da provvedimenti del governo come lo stop ai licenziamenti. Una visione che, quindi, almeno nella fase iniziale della pandemia trattata nel libro (marzo-agosto 2020, nda), è stata messa meno in crisi di quella degli imprenditori. Per una volta mi è sembrato fossero figure più garantite degli imprenditori e dei liberi professionisti, ai quali la pandemia ha fatto fin da subito intravedere la possibile morte di un mondo.

Diciamo che il destino dei lavoratori dipendenti è inevitabilmente legato a quello degli imprenditori. Bisogna vedere come andrà quando non ci sarà più il blocco dei licenziamenti.
Me lo sono chiesto anch’io e tutt’ora me lo chiedo. Nel libro una possibile risposta la dà Guido Brera: probabilmente si renderà necessario il reddito di cittadinanza universale. Purtroppo, aggiungo io.

Perché purtroppo?
Perché vorrei vivere in un mondo dove non servono strumenti come quello. Il mondo in cui ho vissuto per una parte della mia vita, in cui la gente faceva impresa godendo del proprio lavoro e così facendo creava lavoro anche per altri. Le generazioni dopo la mia sono state e sono più svantaggiate, c’è poco da fare, e mi dispiace.

Una delle cose che mi pare ti abbia colpito di più è stata la definizione di alcune attività, tra cui quelle culturali, come “non necessarie”. “Come si fa a vivere senza il non-necessario e il non-cruciale e il non-indispensabile?”, ti domandi.
Sì, perché nonostante abbia venduto la mia azienda ormai 16 anni fa, continuo a considerarmi vicino all’imprenditoria tessile e ho tanti amici che ancora provano a portarla avanti. E sentire definire non essenziale un’industria che dà lavoro a centinaia di migliaia di lavoratori mi ha fatto saltare sulla sedia. Senza contare che noi siamo l’Italia, siamo sempre stati i più bravi a produrre quello che non voglio chiamare superfluo, ma che semmai è ciò che dà più gusto e senso alla vita. Lì ci ho visto una mancanza di rispetto, oltre che di intelligenza politica. Perché i produttori di imballaggi sì e i lanifici no? Non è che non ti contagi se lavori in un’azienda considerata essenziale.

In tutto ciò c’è lo sguardo di un genitore, ma anche di un figlio che ha perso il padre da poco. C’è la nostalgia di un’epoca in cui ci si poteva sentire padroni del proprio futuro. C’è la tua appartenenza a una borghesia mangiata, così scrivi, da “un sistema economico e finanziario insensato e corrotto”, nel quale “non c’è più bisogno di operai capaci di creare, ma di schiavi alla catena”. C’è spazio per un mea culpa, da qualche parte, nella tua generazione?
Domanda impegnativa. Certo che c’è, quello spazio. Certo che è stata anche colpa nostra, certo che siamo stati fermi a lasciare che il mondo venisse governato da teorie che ci avrebbero tolto il futuro. Poi, però, ti devi anche dire che tutto è infinitamente più complicato di come sembra, che ogni processo economico ha sue ragioni profonde, e che chi ne rimane vittima come ne è rimasta vittima la mia generazione, per esempio, un po’ ha colpa, ma almeno ha il diritto di provare nostalgia per un prima che era meglio e che non c’è più.

Come ricordi quel prima?
Ricordo le persone che dal Sud si trasferivano a Prato, la mia città, in cerca di lavoro. Persone che non avevano praticamente niente e che non appena arrivavano trovavano un lavoro e non molto dopo iniziavano a poter pensare di comprarsi una casa, una macchina. Ecco, vedere il benessere collettivo crescerti attorno era una sensazione straordinaria. L’idea che sì, c’erano le ingiustizie, però c’era anche un modo di rimediare a quelle ingiustizie attraverso il lavoro, la fatica, l’impegno. Per quanto riguarda la mia famiglia, poi, tutto questo aveva anche a che fare con il tipo di azienda che avevamo, perché lavorare nel tessile significa lavorare per gli stilisti e allora succedeva che vendevi un tessuto a Ralph Lauren o ad Armani, poi andavi a New York o a Londra, passavi da uno dei loro negozi e vedevi la camicia fatta con il tuo cotone, il cappotto fatto con la tua lana. Ti sentivi parte di una catena di eccellenze famosa in tutto il mondo, di quel discorso antico e ormai finito del Made in Italy. E tutto partiva dai tessuti che si facevano a Prato, magari presi a mano da operai del Sud, che invece che essere vittime del lavoro erano persone che volevano lavorare anche di più di quel che facevano, e spesso erano anche creatori: quanti nuovi tessuti sono nati per l’intuizione di un operaio e approdati sulle passerelle di una casa di moda!

Almeno in parte l’ascensore sociale funzionava…
Già, lo vedevi all’opera. E per me è questo il progresso.

O forse era. Adesso cos’è?
Nel libro me lo faccio dire dall’economista Enrico Giovannini, lui parla di uno sviluppo sostenibile inscindibilmente coniugato al progresso sociale e raggiungibile attraverso la politica. E sostenibile non è una parola vuota, non è mera ossessione per il verde: oggi c’è un mondo intero da rifare, si pensi a tutte le caldaie da sostituire in tutti i palazzi d’Italia, alle auto elettriche da sostituire a quelle che abbiamo, agli edifici da restaurare con certe caratteristiche. C’è tutto un lavoro di ricostruzione da avviare che potrebbe provocare una nuova espansione economica.

In Economia sentimentale, però, fai riferimento al saggio The Rise and Fall of American Growth di Robert J. Gordon, del 2016. E non è una lettura che ti ha reso così ottimista, mi sembra.
È una lettura che mi ha colpito. Perché quando ero piccolo io, come tanti bambini cresciuti alla fine degli anni ’60, volevo fare l’astronauta. L’immagine di Armstrong sulla luna aveva trasmesso a tutti una fede nel progresso tecnologico che ci faceva sognare. Però nel 1973 arrivò l’austerity e per un problema di approvvigionamento del petrolio – almeno così ci dicevano – a una certa ora si spegnevano i lampioni, chiudevano i bar, e la domenica non si poteva usare l’auto. Questo fece pensare a molti che il progresso fosse finito, cosa che mi disturbò parecchio. E Gordon questa cosa la analizza benissimo dicendo che la crescita economica nata dalle grandi invenzioni – l’elettricità, il sistema fognario, il telegrafo, il telefono, la tv, l’aria condizionata… – si è fermata alla fine degli anni 70. Il che significa che quell’enorme crescita economica che ha fatto sì che mia nonna, da bambina che andava a scuola in calesse, si fosse trasformata in una signora che negli anni 80 andava in giro sulla Mercedes di mio padre, non è più possibile. I cellulari e Internet ovviamente hanno cambiato il mondo, ma non creano posti di lavoro come le invenzioni di una volta. In sostanza siamo in decadenza, afferma Gordon. Ed è terribile.

Se si parla dei mostri creati dalla rivoluzione digitale io vedo una grande assente, la politica. Tu ci sei stato in politica, prima con Renzi, poi con Monti, poi nel Gruppo Misto: al di là di questo percorso e di ciò che se ne può pensare, che idea ti sei fatto del nostro Parlamento?
La mia esperienza in Parlamento è stata fallimentare, un grave errore, non mi è riuscito di influire su nulla. Non che mi facessi chissà quali illusioni, sono contento di aver votato alcune leggi, come quella sulle unioni civili, però insomma… Detto questo, credo ancora nella necessità di un sogno, di una visione, e di qualcuno che possa traghettarla nella realtà, quella visione. E credo nell’economia sentimentale, perché parlare di economia è necessario, ma non si può farlo senza pensare alla ricaduta che l’economia ha sulle persone e, quindi, alla dimensione in cui l’economia diventa sentimento, speranza. E attenzione: la speranza di poter guadagnare abbastanza per poter stare bene materialmente e di vedere quel guadagno crescere nel tempo per poter realizzare qualche altro piccolo sogno materiale non è una cosa negativa, tutt’altro.

Cosa intendi?
Poter accendere un mutuo significa anche potersi permettere una promessa per il futuro.

Oggi per moltissimi giovani accendere un mutuo è impossibile, c’è un enorme problema di precarietà, di compensi iniqui.
Hai ragione: come si fa a pianificare se non si hanno una certezza di reddito e delle garanzie? Per questo nel libro scrivo che di Fantozzi s’è riso tutti, ma ci si scorda sempre che aveva la macchina, la casa e un lavoro sicuro, il ragionier Ugo, mentre i nostri figli tutto questo lo possono solo sognare. Ma vale anche per i freelance, che ammiro da sempre per il coraggio e la tenacia con cui lavorano senza legarsi a nessuno: le persone non puoi pagarle così poco se tu, come imprenditore, hai il vantaggio di non doverle assumere come dipendenti; qui c’è una distanza che va colmata, altrimenti salta il Paese.

Chiuderei parlando di musica, visto che in Economia sentimentale citi David Bowie, Bruce Springsteen, Billy Joel…
La musica in questo periodo mi sta aiutando tantissimo. Prima della pandemia mi ero fatto mettere a posto il mio vecchio amplificatore, l’impianto con le casse, e mi sono rimesso a sentire i miei vecchi vinili, oltre a ricomprarne alcuni.

Tipo?
Live Rust di Neil Young. E alcune edizioni speciali di Led Zeppelin, Guns N’ Roses, Springsteen, Tom Waits, Blue Öyster Cult, Sigur Rós, Battisti. È impressionante quanto faccia bene sedersi ad ascoltare un disco dall’inizio alla fine senza fare altro, senza saltare da una canzone all’altra, non usando la musica come sottofondo da sentire mentre si fa altro, ma come unica compagna di un momento da trascorrere con se stessi. Mi è capitato persino di commuovermi.

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