«A Los Angeles ci sono due mezzi di trasporto: l’auto e l’ambulanza», Fran Lebowitz. «Non sono contrario a Los Angeles, non potrei vivere qui perché non mi piace un posto dove devo guidare ovunque… e non mi piace il sole», Woody Allen. «L’ultimo posto in cui vorrei vivere è Los Angeles. Ho la sensazione che si debba guidare molto, mi sembra un posto molto alienante. Lo trovo molto luminoso, e trovo il sole monotono», Chloë Sevigny. Il concetto è chiaro, soprattutto per i newyorkesi, ed è evidente anche dai film ambientati nella città degli angeli: qui ci si muove solo in macchina. Il lungo mare di Santa Monica e quello di Malibù, Rodeo Drive e poco più. È una città vastissima, non “camminabile” come una europea e nemmeno come New York (meglio, Manhattan) o San Francisco. Un’altra cosa la caratterizza: la destinazione è quasi sempre un ristorante o un hotel.
D’accordo, forse ho esagerato. I luoghi di interesse sono molti, come la Hollyhock House realizzata da Frank Lloyd Wright, la Schindler House (la lista di case di pregio architettonico è lunga), oppure il Getty Museum, l’osservatorio Griffith e ovviamente la Hollywood sign. A questi vanno però aggiunti obbligatoriamente alberghi e ristoranti. Il Roosevelt Hotel con la sua piscina decorata da David Hockney, lo sfarzoso Beverly Hills Hotel o il Bel-Air, fino a qualcosa dal respiro d’antan, come la Sunset Tower o lo Chateau Marmont.
Per i ristoranti/diner vale lo stesso discorso, luoghi di culto più accessibili in termini di prezzi rispetto alle strutture ricettive, frequentati in alcuni casi – ammettiamolo – più per l’ambiente che per il cibo. Ristoranti aperti circa cento anni fa, quando Hollywood era nata da poco e ancora si chiamava Hollywoodland. Locali nati per sfamare proprio chi stava costruendo l’industria del cinema, in particolare attori e registi che oltre a mangiare spargevano un po’ della loro fama qua e là rendendo celebri a loro volta quei tavoli. Molti di questi non hanno retto alla prova del tempo e sono stati stroncati dalle crisi economiche, le nuove mode, gli scandali o semplicemente dalla mala gestione. Altri sono ancora in attività.
Come Canter’s, un deli inaugurato nel 1931, il quale, nonostante la presenza periodica dei VIP, non eccelle oggi per cucina e ambiente e che, se non decide di darsi una sistemata, forse farebbe meglio ad abbassare la saracinesca. Discorso ben diverso invece per il Formosa Cafe, ristorante cinese aperto nel 1925 da un ex pugile, Jimmy Bernstein, e frequentato da personaggi come Clark Gable, Frank Sinatra e Ava Gardner. Neon verde corsivo fuori e interni rosso scintillanti, il Formosa è una tappa imprescindibile e intrigante, non a caso lo vediamo più volte nel film L.A. Confidential. Ma il campione di questa categoria è Musso & Frank Grill, la cui insegna infatti recita: Since 1919, oldest in Hollywood.
Foto: Niccolò Sandroni
Ad aprire furono due immigrati, un francese, Firmin “Frank” Toulet, e un italiano, Joseph Musso. Il menu era d’ispirazione europea, non solo a causa della proprietà, ma anche perché, al tempo, molti losangelini erano europei, arrivati in California in cerca di fortuna. In seguito è diventato ancora più “italiano” quando la coppia Toulet-Musso ha venduto a Joseph Carissimi e John Mosso (con la “o” questa volta, attenzione). Sono loro che hanno dato al ristorante l’aspetto che sfoggia ancora oggi, tra luccicanti booth in pelle rossa, inconfondibili giacche del personale (anch’esse rosse) e l’installazione della prima cabina telefonica pubblica di Hollywood (davanti alla quale, molti anni dopo, un giovane e sconosciuto Johnny Depp avrebbe passato giornate intere in attesa di una chiamata del suo agente). Va inoltre aggiunta una certa politica di riservatezza nei confronti della clientela, la quale ha distinto fin da subito Musso & Frank rispetto ad altri ristoranti aperti nello stesso periodo, come Ciro’s o Chasen’s. Nonostante la presenza delle regine del gossip Hedda Hopper e Louella Parsons, le star potevano trovare un’atmosfera intima, rilassata e per alcuni addirittura casalinga.
Foto: Niccolò Sandroni
Come si fa a ottenere questa considerazione e longevità in una città dove tutto è effimero e nemmeno chi ha il proprio nome su di una stella incastonata nella Walk of Fame viene ricordato? Rimanendo fedeli a se stessi e diventando così sinonimo di tradizione, come ebbe modo di dire Keith Richards. Qualche modifica al menu, un ampliamento, aria condizionata, ma niente stravolgimenti nella propria essenza. Così si sopravvive per oltre cent’anni.
Il focus principale è sempre stata l’atmosfera. Luci basse, foto non consentite (difficile di questi tempi), camerieri riservati e a cui, anzi, non interessa proprio se sei il protagonista dell’ultimo film campione d’incassi, se ti chiami Mario Rossi, Bob Dylan o Raymond Chandler. Già, quest’ultimo aspetto è il rovescio della medaglia che le celebrità devono accettare una volta varcata la porta. Ne sanno qualcosa Charlton Heston e Jason Robards, che si sono visti rimbalzare in mancanza di tavoli. Oppure Steve McQueen, un regular assoluto del locale che, rigorosamente al bancone, ordinava sempre Löwenbräu. Una sera, dopo qualche birra di troppo, decise di voler fare a cazzotti con il primo che capitava: a raccogliere la sfida fu nientemeno che Charles Bukowski. Prima dello scontro, McQueen venne buttato fuori, Daspo di un mese. Il giorno dopo si presentò imbarazzato, scusandosi e chiedendo di essere riammesso.
Gli interni di Musso & Frank Grill. Foto: Niccolò Sandroni
Anthony Bourdain descrive così questo storico locale: «Ci sono solo una manciata di ristoranti nel mondo in cui puoi entrare e pensare immediatamente: “Sono a casa”. Musso & Frank è uno di loro». Come lui, molti altri hanno confermato di sentirsi qui allo stesso modo. È una sensazione che si avverte solo se si è una celebrità? A me, che non sono una celebrità, non è capitato (la prima volta). Non che ne abbia avute di negative, anzi, mi sono innamorato di Musso & Frank fin da quando l’ho visto in Mad Men, Ocean’s Eleven e soprattutto nella scena iniziale di C’era una volta a… Hollywood. Più che a casa mia però ho avuto l’impressione di essere a casa di qualcun altro, ospite di una star del cinema. Una della Golden Age, come Humphrey Bogart o Joan Crawford. Poi, quest’estate, in una seconda visita, mi sono dovuto ricredere sul fatto di non sentirmi a casa.
Gli interni di Musso & Frank Grill. Foto: Niccolò Sandroni
Una volta accomodato al tavolo, si avvicina un responsabile di sala per chiedere l’ordine e lo fa parlando in italiano. Rimango sorpreso, ma dopo poco rimango ancora di più incredulo perché Alessio – questo il suo nome – è addirittura della mia stessa città natale e per un periodo siamo stati anche vicini di casa. Eppure non ci siamo mai incontrati. In quel momento ho condiviso quello che dicevano Bourdain, Richards e altri: in un certo senso anche io ero a casa. Alessio mi consiglia di iniziare con i sedani ripieni di Roquefort e specifica: «Un morso, un sorso di Martini», procedura fondamentale.
I sedani ripieni di Roquefort di Musso & Frank Grill. Foto: Niccolò Sandroni
Ovviamente sul tavolo ci sono già pane fresco e burro, a cui è difficile resistere. Il tutto è uno spettacolo visivo, con piatti e burro fregiati dal bellissimo font dell’insegna. Anni fa avevo mangiato filetto e patatine fritte (mi piace andare sul sicuro), questa volta provo i medaglioni di manzo in salsa bernese con asparagi, un piatto che è sul menu dagli anni Venti.
Pane e burro da Musso & Frank Grill. Foto: Niccolò Sandroni
Dopodiché arriva il pollo arrosto con aglio, che Alessio mi assicura essere simile al “nostro” aglione della Val di Chiana. Non mi pento della scelta e per fortuna l’aglio, seppur in grande quantità, era delicato e non è stato fonte di problemi digestivi. A conclusione, una fetta di cheesecake, che mi spiega essere di J.M. Rosen’s, bakery di San Francisco, che deve la sua fortuna, oltre alla bontà, al fatto che Frank Sinatra ne andava ghiotto, tanto da “imporla” nel menu di Musso & Frank.
Il pollo di Musso & Frank Grill. Foto: Niccolò Sandroni
La cheesecake di Musso & Frank Grill. Foto: Niccolò Sandroni
Il critico gastronomico Jonathan Gold ha fornito un’altra interpretazione molto giusta su Musso & Frank: «È il più L.A. di tutti i ristoranti di L.A.… Sei seduto nel luogo in cui William Faulkner ha fatto saltare il suo fegato». Il punto è proprio questo. Mentirei se vi dicessi che la mia passione (come molti) per questo posto è dovuta alla cucina (comunque di tutto rispetto), se vi dicessi che è dovuta ai Martini (che sono davvero un portento), ai cremosi whiskey sour o alla cheesecake di Sinatra.
Il motivo principale per cui sono andato (e continuerò a farlo) è ovviamente l’atmosfera – un misto di noir, rock e vecchia Hollywood – che si avverte nitidamente e viene sprigionata con assoluta naturalezza. Forse il mio giudizio è corrotto dai film qui ambientati, dalla illustre clientela e dalle tante storie, ma sono comunque certo che visitare Los Angeles senza finire da Musso & Frank significhi non vedere il monumento più rappresentativo di questa città. Con buona pace di tutti gli altri.
