In Québec, la cucina dei nativi vuole farci cambiare idea sul cibo | Rolling Stone Italia
un piatto, un cucchiaio

In Québec, la cucina dei nativi vuole farci cambiare idea sul cibo

Siamo andati in viaggio attraverso le voci, i piatti e i ricordi di un popolo oppresso dal colonialismo per tornare al punto di partenza di tutti: il nutrimento come legame primordiale con la Terra

Québec

Gaspesie, Québec

Foto: Silvia Clo Di Gregorio

Se dovessi scegliere un piccolo gesto che racconti la rivoluzione alimentare silenziosa in Canada, sarebbe assaggiare il tè del Labrador, raccolto a mano sulle coste nord-orientali del Québec, dal sapore erbaceo e speziato e dall’odore balsamico. Non si tratta “solo” di una bevanda, ma di un elisir anti-age naturale: calma l’ansia, aiuta a dormire, stimola il collagene e rigenera il fegato (dicono). Ogni sorso è cura, presenza e attenzione, un modo semplice per riconnettersi con ciò che nutre davvero e con la comunità che lo custodisce.

I nativi, che rappresentano appena il 5% della popolazione canadese, sono forse tra i pochi a mostrare questa via: riappropriarsi delle terre, degli ingredienti utilizzati dagli antenati e recuperare le tecniche e le ricette tradizionali.

Nel libro Moon of the Crusted Snow (2018), lo scrittore Waubgeshig Rice inserisce questo concetto in un racconto: in un mondo post apocalittico, dove il collasso sociale è avvenuto, cosa succede alla piccola comunità Anishinaabe del Nord del Canada? Isolati a causa del blackout e con difficoltà di comunicazione, i protagonisti sono indigeni che tornano alle tecniche di pesca, caccia e approvvigionamento tradizionale.

Questo legame tra cibo, memoria e identità è stato al centro anche dell’incontro sulla sovranità alimentare indigena al Native Canadian Centre di Toronto. Un concetto bellissimo, che può sembrare naif ma che è tremendamente politico e attuale: la difesa e autonomia delle risorse e delle pratiche alimentari protegge la biodiversità e rispetta la natura. E cosa possiamo imparare dal loro rapporto con il cibo? Che il nutrimento è prima di tutto celebrazione, comunità e memoria.

Come ospite dell’incontro, oltre allo scrittore Rice, c’era anche la chef Tawnya Brant, finalista della decima stagione di Top Chef Canada e creatrice di One Dish One Spoon, un docu-cooking show sul cibo e sulla cultura indigena. Il titolo del programma, che tradotto sarebbe Un piatto, un cucchiaio, si riferisce a un concetto diffuso tra le popolazioni indigene della regione dei Grandi Laghi, in particolare gli Haudenosaunee e gli Anishinaabe, che prevede la condivisione pacifica della terra. Se il “piatto” rappresenta la terra e le sue risorse, il “cucchiaio” è la stessa fonte di condivisione. Non si prendono più risorse del necessario, vige l’obbligo di garantire che ci siano sempre le stesse possibilità per le generazioni future.

Anche perché il cibo, per gli indigeni, è una cura. Non solo per lo stomaco, ma anche per la comunità, e tutto questo crea un concetto di benessere collettivo abbastanza commuovente, a parere di chi scrive. Qui il ritorno alla terra non è romanticismo green, ma resistenza. È la rivoluzione più silenziosa e potente del Canada, e le donne sono protagoniste di questo movimento.

È difficile fermare una madre indigena se si mette in testa di fare qualcosa, racconta Tawnia. Lei fa quello che ama, ha scelto il cibo come nutrimento della comunità perché, racconta, «food is part of us, food is our system». A qualcuno sembrerà un trend, ma «chi inizia a scoprire l’arte e la pratica del foraging, ovvero della raccolta spontanea, non ha più voglia di acquistare il cibo nei supermercati». Un approccio che, in ottica ispirazionale, molte persone in Canada stanno riscoprendo. Oltre a essere, naturalmente, parte della cultura indigena.

Nel 2019, nella Tyendinaga Mohawk Territory, un gruppo di donne ha “rematriato”, termine che sostituisce rimpatriato, e non si tratta solo di restituire, ma di riconsegnare alla Madre Terra 300 varietà di semi antichi. Il progetto è stato documentato da Shelby Lisk, fotografa e giornalista Kanyen’kehá:ka originaria di Kenhtè:ke, il Territorio Mohawk di Tyendinaga.

Lo scrittore Waub raconta che l’arrivo dei colonizzatori, oltre ad aver causato un genocidio dei popoli indigeni, ha strappato le comunità dalle proprie terre e così dal proprio nutrimento. Imponendo un regime oppressivo e patriarcale, anche nel sistema alimentare con sfruttamento intensivo della terra dominato da cibi raffinati e processati. Diciamolo: chi ha bisogno di merendine piene di conservanti quando la natura offre piccoli tesori da scoprire?

Nonostante queste imposizioni culinarie, gli indigeni, in un esempio di transilienza, hanno generato nuove ricette anche con ingredienti degli oppressori. Tawnia alla conferenza ha cucinato gli Indian Cookies, e oltre alla ricetta di questi gustosi biscotti racconta le difficili sfide che hanno dovuto affrontare le donne indigene obbligate a vivere in un mondo dominato da uomini bianchi. La stessa cosa accade con il bannock, che le nonne indigene chiamavano “oppressor food” e ora è diventato un cibo tradizionale: un semplice pane al forno o fritto, senza lievito, perfetto sia dolce, con cannella e zucchero o marmellata di wild berries, servito anche salato come accompagnamento al bisonte o al salmone.

Tawnia ha imparato a cucinare tutte queste ricette grazie a sua nonna, sopravvissuta al collegio Mohawk Institute, un istituto che strappava i bambini alle famiglie, imponendo la cristianità, la cultura bianca canadese, e reprimendo quella indigena, punendo chi si opponeva o scappava. Molti morti sono legati a questi istituti, molti bambini non sono più tornati.

«Farina bianca, zucchero bianco, strutto bianco e sale bianco ci sono stati imposti e sono diventati anche alimenti di sopravvivenza, attraverso la guerra, la fame, lo sfollamento, la rimozione e le scuole residenziali. Quando i nostri raccolti sono stati bruciati, i nostri nonni hanno fatto ciò che era necessario per sopravvivere. Chi avrebbe mai pensato che un morbido pasticcino al gusto di noce moscata uscito dal forno di mia madre fosse una testimonianza della resilienza delle donne Haudenosaunee di fronte al genocidio?»

Ma non solo cibo di riappropriazione: la cultura e il nutrimento indigeno ha ingredienti e tecniche di raccolta strabilianti e decisamente nuovi per i nostri palati. Raccogliere il wild rice, ovvero il riso-non-riso selvatico Anishinaabe, chiamato manoomin, nella regione dei Grandi Laghi è un’esperienza unica. Una tradizione comunitaria che richiede metodi specifici e rispettosi sia nella raccolta che nella preparazione. Il wild rice può sembrare simile al riso nero integrale, ma al palato ha una consistenza più gommosa e un sapore di terra oltre a essere una ricca fonte di proteine e magnesio.

Tra gli ingredienti più sorprendenti c’è la felce, o meglio, la sua giovane spirale verde chiamata fiddlehead. Cresce lungo i fiumi del Canada orientale, spuntando come un piccolo ricciolo di violino nei primi giorni di primavera. È un alimento che segna la rinascita: per le comunità Wəlastəkwewiyik, Mi’kmaq e Passamaquoddy, raccoglierla significa celebrare il ritorno della vita dopo i lunghi mesi d’inverno.

Le donne indigene la raccolgono da secoli con estrema attenzione, mai tutta, mai troppo presto e grazie al sapore fresco e minerale, a metà tra asparago e spinacio, viene utilizzate in moltissime ricette. Negli anni Ottanta, questo vegetale divenne l’oggetto di una curiosa contesa identitaria tra il Vermont e il New Brunswick: lo Stato americano propose infatti di dichiararla “verdura ufficiale di Stato”, suscitando l’ira del vicino di casa, lo Stato canadese, che la considerava parte del proprio patrimonio naturale e culturale.

Ne nacque una disputa che i giornali ribattezzarono Fiddlehead war. Di fatto, la rivalità non era tanto su chi “possedesse” la felce, ma su chi potesse rivendicarla come simbolo identitario: un gesto che ricordava che la terra, i fiumi e i germogli non appartengono a confini politici. Perché come ci insegnano i nativi, la felce non appartiene a nessuno, se non alla terra.

Nonostante le oltre 630 comunità con diverse lingue, usanze e culture, gli indigeni hanno sempre costruito alleanze e scambi in armonia tra di loro, e soprattutto con la terra. Ogni seme restituito è un atto politico, mostrando il rispetto per la natura, la rinuncia al superfluo e la condivisione delle risorse in modo equo. Può sembrare un’utopia, forse un sogno comunista, ma per gli indigeni non lo è mai stato: da millenni vivono così. Ogni piatto indigeno è un gesto di memoria. E forse, anche una ricetta per guarire dal nostro modo di vivere.

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