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In Brasile c’è chi fa il tiramisù al tofu, e si chiama Alberto Landgraf

Viene dall'Italia, dal Giappone e dalla Germania. La sua terra ora è Rio de Janeiro, dove guida il ristorante Oteque. Ci siamo fatti raccontare di come si fa a tenere tutto insieme, non solo a tavola
Alberto Landgraf Eden Roc

Foto: press

Le prime due cose che noto quando incontro lo chef Alberto Landgraf sono un paio di comodi Ugg ai suoi piedi e un intenso profumo di caffè che lo accompagna. Nato in Brasile, figlio di madre giapponese e padre tedesco, con nonna italiana, formatosi a Londra e Parigi. Insomma, c’è tutto il mondo in questa persona.

Alberto Landgraf è oggi un nome di spicco, accreditato a livello internazionale: nel 2015, a San Paolo, con Epice, la sua prima stella Michelin, nel 2018 invece, con il ristorante ora in attività, Oteque, a Rio de Janeiro, il secondo riconoscimento stellato (prima due, oggi una). Parte da lontano Landgraf, e per necessità arriva in cucina. Inizialmente studente di fisica, si trasferisce dal Brasile a Londra. La sua prima esperienza dietro ai fornelli è in un pub, per mantenersi agli studi, e come tutte le prime volte è stata cruciale. Dopodiché, una serie di avventure sempre più intense che lo hanno portato a lavorare sia in luoghi strutturati, come hotel, che in cucine turbolente, come quelle di Tom Aikens e Gordon Ramsay. Ma non è quel tipo di chef.

L’intervista si svolge all’Eden Roc di Ascona, eccellenza dell’hotellerie dove si è tenuta la prima tappa di S. Pellegrino Sapori Ticino, kermesse enogastronomica arrivata alla diciannovesima edizione. Quest’anno viene celebrata la cucina brasiliana con la partecipazione di sei rinomati chef del Paese sudamericano. Il primo di questi appuntamenti vede protagonista Alberto Landgraf e alcuni componenti della sua brigata di Oteque ospiti nella cucina di un altro collega stellato, Marco Campanella del ristorante La Brezza. Una cena che porta con sé grande curiosità per le tantissime idee che si incontrano a tavola, sulla sponda svizzera del Lago Maggiore. Rigore estetico, tecnica e sapori da tutto il mondo: fagioli e cavolo nero per il Brasile, shio kombu e shimeji per il Giappone, tartufo e melanzane per l’Italia, vino, invece, del Ticino. Il menu è una sintesi ponderata di ciò che caratterizza il suo autore, qui in trasferta: Cernia, alghe vinaigrette, caviale; Scampi fritti, maionese allo zafferano, mela verde; Indivia, nocciole, crema al tartufo, tartufo fresco; calamari, crema di verdure, shimeji (un tipo di fungo); un Dentice rosso di cui vi parlerò più avanti; Lombo di agnello, melanzane glassate, crema di anacardi, cipolle sottaceto, ravanelli freschi; Gelato allo yogurt, mela, yogurt disidratato. Il sorriso cordiale dello chef anticipa la mia prima domanda che, per rompere il ghiaccio, scelgo di farcire con un po’ di nostalgia.

Foto: press

Cosa cucinerebbe oggi Alberto Landgraf per il se stesso bambino?
Penso qualcosa di molto semplice, niente di complicato. Qualcosa della tradizione brasiliana che mia madre era solita cucinare, probabilmente pasta e fagioli.

In Italia, la cucina nippo-brasiliana – soprattutto temaki e uramaki con ingredienti tropicali – è una tendenza consolidata da anni. Cosa ne pensi di questo fenomeno?
Io credo, da chef, che a volte questi trend siano qualcosa che non capisci davvero: li trovi un po’ strani, ma se ci pensi bene ogni sorta di divulgazione e ogni sorta di marketing verso il mangiare cibo giapponese, mangiare cibo internazionale, orientato a portare le persone nei ristoranti, fa bene all’industria. Quindi da ristoratore devo pensare che, indipendentemente dal tipo di cibo, se le persone escono di casa per mangiare è un’ottima cosa.

Il team di sala e di cucina con Dany Stauffacher e Giacomo Bianchi dell’Eden Roc. Foto: press

L’attenzione data da reality show, serie TV e social media aiuta davvero i nuovi chef a emergere o si tratta solo di una moda passeggera?
Credo che non aiuti proprio gli chef a emergere. Fa crescere la consapevolezza del pubblico sulla nostra industria. Più se ne parla e meglio è per tutti quelli che ne fanno parte: per me, per i giornalisti, per i fornitori, per tutti coloro che sono coinvolti. Non credo che uno chef che esce da un reality show possa diventare un tre stelle Michelin, non credo che accadrà, ma credo che chi guarda da casa lo show, e non è mai stato in un ristorante stellato, potrebbe interessarsi nel voler andare. Credo che sia quindi più positivo per l’industria, che per i concorrenti.

Quale musica pensi che si abbini meglio all’esperienza di gustare uno dei tuoi piatti?
Il rock ’n’ roll!

Da italiano devo chiedertelo: come ti è venuta l’idea della tua reinterpretazione del tiramisù?
Era inverno e ho iniziato con savoiardi, caffè e una crema con nocciole brasiliane e tofu. Poi sopra anziché mettere polvere di cacao ho grattato delle nocciole brasiliane. Quindi era metà ricetta originale e metà creatività.

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Qual è, secondo te, l’ingrediente brasiliano più sottovalutato che meriterebbe di essere scoperto a livello internazionale?
La manioca, l’unico ingrediente mangiato in tutte le regioni del Brasile. Il Brasile è come l’Italia o la Francia: se viaggi tra le regioni, le persone mangiano diversamente, ma l’unico ingrediente che trovi ovunque è la manioca.

Il Brasile è caos e bellezza allo stesso tempo. In che modo questa dualità si esprime nei tuoi piatti?
Credo che tu debba isolare la bellezza, almeno per la mia cucina. Quando entro nel mio ristorante devo lasciare il caos fuori e lavorare con la bellezza e l’organizzazione altrimenti non puoi mandare avanti una cucina nel modo giusto. Anche se abbiamo il caos, cerco di non farlo interferire troppo con la mia cucina perché la cosa più importante per me è l’equilibrio, se metti il caos nell’equazione, lo perdi.

Calma ed equilibrio quindi. Ma hai lavorato anche in alcune delle cucine più intense al mondo. Quanto hanno influito nel diventare lo chef che sei oggi?
È un processo. Adesso ho 45 anni e credo che si debbano vedere entrambi i lati. Quando ho iniziato c’erano solo cucine molto intense, molto esplosive, e credevo fosse l’unico modo per lavorare. Ma dopo un po’ di tempo, specialmente visitando sempre di più il Giappone, ho iniziato a vedere un modo diverso di fare le cose, e farle molto bene. Quindi ho pensato di prendere il meglio di entrambi i mondi per creare il mio. Certo, non sarò mai capace di replicare quello che fanno in Giappone, ma non credo ci sia bisogno di impazzire come accadeva in Francia e in Inghilterra. Cerco di trovare un equilibrio tra questi metodi e creare il mio stile.

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Ricorro nuovamente alla nostalgia. Se tu potessi cucinare per qualcuno in particolare, anche del passato, chi sceglieresti?
Mia madre e mio padre, saranno sempre le persone più importanti nella mia vita.

Nelle sette portate che sono state servite, l’idea di cucina di Landgraf è venuta fuori man mano sempre di più. Due piatti in particolare mi hanno colpito e (forse) fatto conoscere meglio il professionista prima che l’uomo: i calamari su crema di verdure e shimeji, e il dentice rosso con cavolo nero, shio kombu, vin jaune e fagioli croccanti. Riesco a fermarlo di nuovo, prima che vada via, per un ultimo scambio di battute, con colpo di scena finale.

Quale tra i piatti di questa sera aggiungeresti al menu del tuo ristorante?
Sicuramente il piatto di pesce con i fagioli e il vin jaune, mi piace molto. Diciamo che porterei quasi tutto nel mio ristorante, ma in modo diverso. Da Oteque ho più tempo per le preparazioni, sono nel mio ambiente. Ho imparato da giovane che quando fai eventi fuori casa è come per il calcio: quando sei in trasferta giochi per pareggiare, quando giochi in casa giochi per vincere. In trasferta non cerco di fare piatti troppo pazzi perché non voglio complicare la cucina.

Foto: press

Guardo ancora i suoi Ugg e non resisto. Gli faccio i complimenti per il suo stile rilassato, forse espressione di quell’equilibrio di cui mi parlava poco prima, ma scopro che il motivo è tutt’altro.

La mia valigia è andata persa durante il viaggio dal Brasile…

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