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Il progetto Instagram che raccoglie le voci dal lockdown

"Downthere" è un progetto Instagram nato durante il lockdown, che raccoglie una serie di interviste per costruire una “mappa emozionale” di quello che stiamo vivendo in questo 2020.

ALBERTO PIZZOLI/AFP via Getty Images

Il lockdown ha fatto male un po’ a tutti. Ci dicevamo che dall’isolamento ne saremmo usciti migliori, ma nel mentre ci sentivamo – appunto – isolati dal resto del consesso civile. Da ciò sono nati innumerevoli tentativi di connettersi agli altri, che fosse tramite uno skyperitivo (orribile neologismo che poteva essere partorito e accettato solo in una situazione del genere) o tramite uno dei tentati progetti di streaming, dirette Instagram e simili. 

Uno dei più interessanti tra questi tentativi di connessione è Downthere, un progetto Instagram che raccoglie una serie di interviste a persone a vario titolo interessanti per costruire una “mappa emozionale” di quello che stiamo vivendo in questo 2020. Il progetto è farina de sacco di un gruppo di amici che lavorano a vario titolo nell’industria culturale e ad oggi ha raccolto oltre 80 interviste. Per saperne di più, abbiamo fatto qualche domanda a Federico Bernocchi, autore e conduttore radio e tv e uno dei curatori del progetto. 

 Ciao Federico. Com’è nato il progetto, da dove viene l’idea, a cosa vi siete ispirati?
Federico Bernocchi: Il progetto è nato quasi spontaneamente nei primissimi giorni di lockdown. Siamo in sei, lavoriamo in ambiti differenti – architettura, televisione, organizzazione di eventi live, radio, cinema e comunicazione  – e di colpo ci siamo trovati tutti chiusi in casa, a tentare di capire cosa stava succedendo. A quel punto ci siamo cercati e ci siamo trovati, nel senso che non ci conoscevamo personalmente, almeno non tutti. Abbiamo cominciato semplicemente parlando tra di noi e, prendendo spunto da un documentario di Chantal Ackerman intitolato Là-Bas, abbiamo capito che ci interessava raccontare quello che c’era laggiù, inteso sia come quello che vedevamo dalle nostre finestre di casa, che erano l’ultimo spiraglio che ci era rimasto per guardare il mondo. Per questo abbiamo cominciato a raccogliere brevi video di quello che le persone vedevano da casa loro, cioè le nostre città vuote. 

Però poi ci siamo accorti che ci interessava anche un “laggiù” metaforico: tutte le paure, le speranze, le riflessioni che ci siamo trovati a fare. Per questo abbiamo aperto un profilo Instagram e cominciato a fare una serie di interviste su uno dei tanti programmi di video conferenze con cui abbiamo preso confidenza in questo periodo.

 

Come scegliete le persone da intervistare?
Venendo da lavori differenti ognuno di noi aveva una lista pressoché infinta di persone che voleva intervistare. Si è partiti banalmente con gli amici o colleghi, siamo passati a persone che reputiamo interessanti o illuminanti, fino a quando avevamo talmente tante persone che abbiamo cominciato a lavorare per ambiti. Per cui abbiamo sentito giornalisti, musicisti, conduttori radiofonici, autori televisivi, architetti, medici, attori, artisti, stilisti, psichiatri, psicologi, scrittori, adolescenti, fumettisti, professori, registi. Abbiamo contattato persone non solo in Italia ma anche in Francia, Spagna, Stati Uniti, Australia, Inghilterra, Arabia Saudita, Lettonia, Svezia, Libano. In questi giorni, mentre apparentemente le acque da noi si fanno più calme, stiamo contattando persone che vivono in quei luoghi dove l’emergenza è ancora alta, come il Sudamerica o l’India.

Il progetto vuole essere una “mappatura emotiva” dell’emergenza: 80 interviste dopo, che forma ha questa mappa? Cos’è venuto fuori, ci sono degli aspetti ricorrenti? 
La cosa che ci ha colpito maggiormente è stata la velocità con cui alcune suggestioni, alcune immagini, si succedevano nelle parole dei nostri intervistati. Certo, ognuno le esprimeva in maniera personale ma c’era comunque un filo rosso che le univa. Quel filo rosso poi correva velocissimo, un po’ come quello delle mappe nei film di Indiana Jones, e si spostava in continuazione. 

Facendo degli esempi: all’inizio in tanti ci dicevano che il virus agiva come una livella, che ci rendeva tutti uguali. Questa fase è durata poco, fino a quando ci siamo accorti che non era così, ma che anzi il COVID-19 ha reso più evidenti le differenze sociali che ci sono facendoci vedere cose che prima forse per molti di noi erano invisibili. Un’altra cosa che ci ha colpito è come in tanti, tantissimi inizialmente parlassero del nostro canale uditivo. Parlavamo tutti del silenzio che avvolgeva le nostre città e delle ambulanze che passavano in continuazione, rompendo quella magia e spaventandoci a morte. Poi è stato il momento dell’analisi sulle nostre vite lavorative: chi poteva permettersi lo smart working, chi invece era costretto a vivere in strada tutti i giorni… Eravamo e siamo ancora in una centrifuga che gira a una velocità folle, da cui ogni tanto escono dei temi, delle discussioni che colpiscono tutti. 

Come si evolverà in futuro questo progetto? 
Downthere è un progetto in continua evoluzione perché per sua natura segue quello che accade a tutti noi, e come abbiamo visto le cose si succedono a una velocità folle. Noi stiamo continuando con le nostre interviste ma al tempo stesso stiamo anche tentando di organizzare tutto il materiale che abbiamo fino ad oggi raccolto. Lo scopo è quello di realizzare un film, un documentario, un’opera multimediale, una mostra che sia in grado di far venire fuori la pluralità delle voci che abbiamo sentito in questi tre mesi di tempo. E che non si fermi neanche qui, ma che prosegua con noi e il nostro lavoro. 

Sulla base di tutto questo lavoro: cosa ci ha insegnato il lockdown secondo voi? 
Immagino che abbia insegnato a ognuno di noi delle cose diverse e personali. Tentando di dare una risposta collettiva, il lockdown ci ha insegnato che logisticamente non eravamo pronti. Abbiamo sempre avuto fiducia che nella nostra parte di mondo una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere e invece da un momento all’altro ci siamo trovati alle 5 del mattino ad aggiornare il sito di un supermercato nella speranza di poter fare la spesa online. Abbiamo capito che una certa retorica del “Vicini anche se distanti sotto lo stesso cielo” è buona al limite per degli spot pubblicitari piuttosto irritanti. Abbiamo capito che quella “normalità” a cui speriamo di tornare come se nulla fosse nei primi giorni di marzo forse non era così normale. Ma abbiamo anche capito che l’unica cosa che ci può salvare in una situazione del genere è l’empatia, la capacità di immedesimarsi nelle persone che ci circondano, parlando con loro, provando a capire cosa provano, come stanno. Perché, banale dirlo, ma mentre noi eravamo chiusi in casa, laggiù c’era qualcuno. 

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