Il power dining a Milano è solo alla Torre Prada | Rolling Stone Italia
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Il power dining a Milano è solo alla Torre Prada

Di fianco alla Fondazione, in Viale Isarco, c'è uno dei segreti meglio custoditi della città. Che dialoga con lo skyline, il vecchio Four Seasons di New York, e con il sogno di ristorante che custodiamo tutti

Ristorante Torre

Foto: press

Durante il mio primo anno a Milano, ormai 16 rivoluzioni fa, ho abitato in corso Lodi. La zona non aveva particolari attrattive e l’ho poi salutata senza troppi rimpianti. Della Fondazione Prada ai tempi non c’era niente se non la notizia dell’acquisto del terreno e l’intenzione da parte del gruppo di costruire. Negli anni successivi invece sono tornato più volte nel quartiere per visitare il complesso che Prada aveva creato, progettato da Rem Koolhaas, comprensivo di un museo, dell’ultranoto Bar Luce firmato da Wes Anderson, del cinema Godard e della Torre, con alla sua sommità bar e ristorante. Avevo già avuto modo di conoscere il bar della Torre – che ha tutta un’altra missione rispetto al vicino bar Luce – ma non avevo avuto il piacere di provare il ristorante. Fino a oggi.

Ristorante Torre

Foto: press

Il miglior modo per iniziare una serata è senza dubbio un Martini. Sedersi nella terrazza per ammirare lo skyline milanese e l’altra celebre torre della città, la Velasca, oppure dentro, sui divanetti, vicino alle opere di Fontana, può sembrare la scelta più comoda, ma è anche la più scontata. Preferisco sedermi di fronte al bancone per tre semplici motivi: ha un fascino peculiare, quasi malinconico, come nel dipinto I nottambuli di Edward Hopper, puoi scambiare due parole con il barman e avere qualche tip interessante, ma soprattutto sei seduto su sgabelli importanti. Sì, gli sgabelli su cui ti fermi il tempo di un cocktail, distratto da ciò che hai intorno, hanno una storia speciale, come tutto in questo luogo.

Ristorante Torre

Foto: press

La Torre è nota per essere stata decorata con opere d’arte e arredi di pregio e che, questi ultimi, sono stati acquistati a un’asta dello storico ristorante Four Seasons di Manhattan, presso il Seagram Building, “l’edificio del millennio”, di recente apparso nella serie Black Rabbit. Il grattacielo, il ristorante – chiuso nel 2016 – e i relativi arredi, sono stati progettati da Ludwig Mies van der Rohe e Philip Johnson. Meno noto è che alcuni mobili vennero realizzati appositamente per il ristorante. In altre parole: non è un semplice sgabello, è un pezzo unico e magari proprio su quello sgabello ci si è seduto JFK o Andy Warhol prima di uno di quei celebri “power lunch” che si tenevano lì (non se se a voi interessano questo genere di connection, io ne vado pazzo). Il Martini, di cui avevo già avuto modo di parlare in passato, è addirittura più buono questa volta. Il merito non è dello sgabello, o delle opere di Jeff Koons alle mie spalle (tra cui quella del gin Gordon, oggetto di una causa verso l’artista) quanto per il fatto che è direct, cioè ghiacciato e senza garnish. Naked, come piace a me.

Four Seasons New York

L’originale Four Seasons di New York. Foto: Instagram

Four Seasons New York

L’originale Four Seasons di New York. Foto: Instagram

Four Seasons New York

L’originale Four Seasons di New York. Foto: Instagram

Andiamo a cena. Glacette, panche e boiserie che circondano il tavolo sono anch’esse native del Four Seasons. Le posate, rigorosamente in argento, e i bicchieri, sono stati realizzati seguendo fedelmente il servizio del celebre ristorante di Manhattan (gli originali non possono essere utilizzati per ovvie ragioni e sono invece custodi da Prada). Tazze e piatti sono invece fregiati Rosenthal e non Ginori che, come sappiamo, è parte del gruppo “rivale” Kering. L’esperienza è inevitabilmente legata a innumerevoli curiosità e non solo per quanto riguarda gli oggetti. Come con la carta dei vini, per esempio. Inizialmente scelta da Patrizio Bertelli e con sole 10 etichette – numero massimo, secondo il volere di Miuccia Prada stessa – oggi ne comprende circa 400. Allo stesso modo, il primo menu venne pensato proprio dai coniugi. Arredi, mise en place e qualche diktat (in parte superato) fanno capire quanto la proprietà sia stata partecipe, attenta nel definire l’identità di un mito che nasce dalle spoglie di uno passato.

Four Seasons New York

L’originale Four Seasons di New York. Foto: Instagram

Four Seasons New York

L’originale Four Seasons di New York. Foto: Instagram

Four Seasons New York

L’originale Four Seasons di New York. Foto: Instagram

Mangiamo. Delle volte le portate hanno un protagonista assoluto, come in un film con Tom Cruise. In questo senso è l’antipasto e il suo burro all’aglio orsino: colorato, estremamente gustoso. Altre invece presentano una coralità tra grandi star, come in un film di Steven Soderbergh. Così è infatti il piatto con fungo, fico, Pata Negra e burro allo sherry. Durante la cena si vede l’intenzione dello chef Lorenzo Lunghi di limitare gli sprechi: le foglie che accompagnano i fichi sono usate per ricavare un olio, il Pata Negra viene usato anche per ottenere un fondo. Si nota pure la Toscana, terra da cui proviene Lunghi. In particolare nel collare di dentice con mais, finferli, sottaceti maremmani e gamberi rossi. Ma di questo ci parlerà lui più tardi.

Ovviamente il cliente può scegliere tra il menu pensato dallo chef, sette portate, o la carta, meno impegnativa. Potendo, è consigliato tuffarsi nel primo, un’avventura sempre diversa perché ispirata da prodotti stagionali. A fine cena ho l’opportunità di scambiare due parole con il cuoco, da ora in poi non più chef perché, ci tiene a precisare con sincera umiltà, «io non sono uno chef, sono un cuoco, mi piace cucinare, mi diverto a stare davanti alla brace, come ho fatto questa sera». L’intenzione, vista l’ora tarda, era di fare solo poche domande e lasciarlo poi libero. Invece, la comune terra d’origine e una grande cordialità ci tengono a chiacchierare piacevolmente per più di mezz’ora.

Ristorante Torre Lorenzo Lunghi

Lorenzo Lunghi. Foto: press

Come gli ingredienti di un piatto, ogni elemento della Torre è pensato per raccontare qualcosa, niente è lasciato al caso. La mia attenzione si è concentrata sugli sgabelli, per Lorenzo Lunghi invece è l’argenteria. «Perché possiamo usarla nel concreto, a differenza di altre opere d’arte qui presenti. Così come le panche su cui sei seduto ora, la boiserie qui dietro o gli sgabelli del bar, tutto parte del vecchio Four Seasons di New York». Mentre parliamo, quasi in dialetto in quanto entrambi toscani, finiamo inevitabilmente per parlare di casa. Gli chiedo quindi quanto è importante nella sua cucina. «Prendiamo per esempio il collare di dentice. La salsa che hai sentito sopra, tutti i sottaceti, l’olio a base di salvia, il rosmarino, il mirto e altre erbe… sono tutte della Toscana e provengono da mie ricerche sul territorio. Ovviamente sono ingredienti che non possono essere in carta, hanno momenti particolari e si traducono infatti in un menu degustazione con meno vincoli, affiancato da una carta che nasce dalla stessa idea, ma dal carattere più “rassicurante”. Ciò che non cambia tuttavia è la nostra priorità, cioè le materie prime, la qualità. Concetti che sono sposati anche dalla proprietà». Sono tanti gli ingredienti stagionali che un cuoco attende con trepidazione, ma Lunghi è sicuro nella scelta di quello che aspetta maggiormente: «I piselli in primavera, la prima raccolta, i più buoni».

Ristorante Torre

Foto: press

Ogni domenica, come in una favola, scende dalla Torre bianca di Prada e torna dalla compagna e dalla figlia in Maremma. I suoi genitori, e le sue radici, sono invece nel Valdarno. Visto che pure Patrizio Bertelli è come me di Arezzo è inevitabile chiedere come si sono incontrati. «Tramite il mio vecchio chef, Fulvio Pierangelini, ai tempi in cui il signor Bertelli veniva a mangiare al Gambero Rosso. Ma è dopo che uno dei figli, Giulio, è venuto a cucinare con noi a Sankt Moritz che sono stato chiamato per visitare la Torre, ai tempi in lavorazione. Purtroppo in quel periodo lavoravo a Parigi, ma siamo rimasti in contatto e quando ci siamo incontrati di nuovo, tempo dopo, mi ha chiesto se volessi tornare in Italia e ho accettato. Da quel momento sono stato molto in contatto con l’altro figlio, Lorenzo, che in quel periodo si occupava di Marchesi».

Ristorante Torre

Foto: press

Una passione quella di Lunghi nata da un corso di cucina alle scuole medie. Poi, alcune esperienze giovanissimo a Rimini e Riccione. Il primo cambio di passo arriva nell’altra costa, con l’esperienza, nemmeno sedicenne, al Gambero Rosso. Quindi è il momento di andare all’estero, a Parigi, «la città più bella che esista», da Le Châteaubriand, Le Dauphin e Saturne. Quel periodo è a lui molto caro e quando mi parla del suo piatto preferito di questa sera, arriva a mettere la Toscana vicino alla Francia: «Oltre al collare di dentice direi il piatto con il porcino, dove c’è un burro montato che mi riporta ai miei sei anni parigini». Se ripensa ai tempi della gavetta ammette che «stare 16 ore in cucina era difficile, però allo stesso tempo c’era un credo diverso, una sensibilità maggiore nel vedere come si facevano le cose. Oggi è tutto cambiato». Infine scherziamo sulle eccentricità culinarie, tipiche di qualche decade fa, come il tris di primi servito nel tipico piatto a scomparti. Ricette che fanno sorridere, ma che potrebbero godere di una nuova dignità e che spesso riaffiorano durante le festività a casa. Come lo scorso Capodanno, quando mi confida di essersi cimentato in un revival anni ’80 con «cocktail di gamberi, pesce finto e penne scampi, panna e vodka».

Il 23 ottobre, in occasione del quarto appuntamento di “Torre&Friends”, Lorenzo Lunghi ospiterà per una cena a quattro mani il collega Riccardo La Perna, chef di Mi Shang Prada Rong Zhai a Shanghai, ristorante nato da una collaborazione con il regista Wong Kar Wai. Gli chiedo come sarà l’incontro tra due realtà così peculiari e se può anticiparmi qualcosa, ma è bravo a mantenere un certo mistero, limitandosi a dire che non sarà un mix tra esperienza italiana e orientale.

Ristorante Prada Shanghai

Il Ristorante Prada a Shanghai. Foto: press

Uscendo prendo l’ascensore panoramico, set di molte foto su Instagram, dove si sente il vocione di Godard tratto da Histoire(s) du Cinéma. Questa volta preferisco non ascoltarlo e nemmeno fare foto. Penso invece agli innumerevoli dettagli e alle curiosità che hanno scandito ogni minuto di questa cena, caratteristiche che potrebbero inserire la Torre tra le pagine del romanzo American Psycho, menzione accompagnata da un’accurata descrizione di Patrick Bateman sulle qualità della cucina, dell’arte e del design presenti; elementi così ben studiati da rendere questo nome l’unica scelta per il vero “power dining” a Milano.