Il nuovo libro di Gabriele Micalizzi ci fa andare "In guerra" con lui | Rolling Stone Italia
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Il nuovo libro di Gabriele Micalizzi ci fa andare “In guerra” con lui

Il fotoreporter sopravvissuto a un razzo dell’Isis ha scritto un libro insieme al giornalista Moreno Pisto in cui racconta la sua vita, dalle case popolari di Cascina Gobba alla guerra in Siria

Il nuovo libro di Gabriele Micalizzi ci fa andare “In guerra” con lui

È stato colpito dall’esplosione di un Rpg nel febbraio del 2019. A un anno esatto di distanza, Gabriele Micalizzi è tornato dove ha sempre sognato di essere: In guerra. L’unica differenza? Che nel frattempo, per celebrare la prima di sette vite (come i gatti) sacrificata sull’altare della Fotografia – con la lettera maiuscola non a caso – è in uscita il libro omonimo per celebrare “l’esistenza e le battaglie del fotoreporter sopravvissuto a un razzo dell’Isis” come da sottotitolo. Un volume a quattro mani, realizzato in collaborazione con il giornalista Moreno Pisto, l’amico che poco prima del ferimento gli aveva fatto gli auguri di compleanno dedicandogli una poesia con questa introduzione: “Ti ho sognato morto”.  Raramente il detto popolare ha avuto così ragione nel portare fortuna.

Micalizzi, milanese, 35 anni, non è un fotografo qualsiasi. È forse il più talentuoso e, sicuramente, temerario tra i colleghi italiani in circolazione. Fra i pochissimi rimasti, anche tra gli stranieri, pronti a schivare pallottole e bombe alla ricerca dello scatto perfetto. Non tanto a livello tecnico, quanto per impatto emotivo. Le sue foto, infatti, non riportano rassicuranti paesaggi o soggetti in posa ma urlano la disperazione dei protagonisti – loro malgrado – dei fronti di conflitto più caldi in giro per il mondo. In particolare, in Medio Oriente. Là ha documentato scene davvero incredibili: “Era buio. Avevo acceso il flash. E ogni lampo era una foto pazzesca, un’immagine di disperazione o di atrocità o di dolore o di pazzia. O di tutte queste cose insieme in un colpo solo”.

E persino quando si è applicato alla moda, alla musica (miglior campagna europea lo scorso anno con Tedua per Nike) o ai magazine (qui la copertina per Rolling Stone con Morgan), dai suoi scatti emerge una strana inquietudine, come se da un momento all’altro dovesse accadere qualcosa. Uno stato d’animo, evidentemente, che si porta dietro dalle esperienze “in guerra”, appunto: “A questo serve la fotografia: a provocare un’emozione, una riflessione. A testimoniare. Il resto sono cazzate, sono tutte cazzate”.

Foto di Gabriele Micalizzi

Eppure, dal libro edito da Cairo Editore, si potrà riscontrare come quel turbamento non è dovuto solamente al mestiere di inviato “in vicende belliche” come lo definisce il dizionario perché, come ripete spesso “vado alla ricerca del caos, perché il caos me lo porto dentro”. È vero che dalle case popolari milanesi di Cascina Gobba – che mette a confronto, con ironia, alle macerie che gli è capitato di attraversare in Libia, Siria o Iraq – è arrivato a vincere Master of Photography su Sky, ma attraversando la strada più impervia.

Dal benessere degli anni ’90, la sua famiglia ha conosciuto anche le ristrettezze economiche dopo i problemi di salute del padre. Da quel momento sono iniziate le prime battaglie. Tre bocciature a scuola, le risse, i graffiti (illegali), la scoperta della magia della camera oscura; le fughe, in Australia dove dormiva su un furgone e in Nuova Zelanda con il lavoro di tatuatore, il ritorno in Italia per farsi le ossa con la cronaca nera ma senza un soldo in tasca. E ancora, l’incontro con un visionario del fotogiornalismo come Alex Majoli che lo ha incluso a Cesura, lo studio di Pianello Valtidone, e dal quale ha rubato tutti i trucchi del mestiere e, in particolare, lo ha portato per la prima volta al fronte; fino alle due figlie avute a soli 26 anni e un amico-fratello, Andy Rocchelli, morto pochi giorni dopo averlo abbracciato all’aeroporto. Era diretto in Ucraina per proseguire quella che entrambi condividevano come una missione: essere fotoreporter.

In questo libro c’è tutto Micalizzi. A chi lo conosce personalmente, sembrerà di averlo davanti mentre fuma con frenesia una sigaretta via l’altra mentre racconta una a vita spesa a rincorrere la storia, mentre chi non lo conosce avrà voglia di farlo. Perché quell’aria da duro, neanche poi tanto in fondo, nasconde un cuore d’oro. Di chi è pronto a tutto per raggiungere i propri sogni, ma senza dover calpestare il prossimo. Anzi, semmai coinvolgendolo nelle proprie scorribande.

Foto di Gabriele Micalizzi

Non ci risparmia niente la coppia Pisto-Micalizzi con In guerra. E tra i momenti più impressionanti, c’è la descrizione dettagliata di quel giorno in cui il razzo Rpg sparato dai militanti dell’Isis a Baghuz ha rischiato seriamente di ucciderlo. Una rievocazione che, nonostante conosciamo il lieto fine, mette ancora i brividi. È in quel momento che Micalizzi ha dimostrato, seppure negli istanti più difficili, di non abbandonare mai per un istante il motto che condivide con i compagni di Cesura: “Never give up”.

Va be’, è il mio momento, muoio così, alla fine dai non ho avuto una brutta vita, sono morto facendo quello che amo e basta. Mi dispiace per Ester e per le mie bimbe ma alla fine la mia vita l’ho fatta, è andata. Ester, Tecla e Guenda le avevo preparate al fatto che potesse succedere. Io stesso mi ero preparato a questo. Ho letto il Bushido, l’Hagakure, libri che ti insegnano l’autodisciplina della retta via, dove capisci che il samurai quando piove non cerca riparo perché sa che le gocce lo raggiungeranno e l’unica cosa che può fare è accettare che si bagnerà. In questo momento, il samurai sono io”. 

In quei minuti interminabili, con il braccio sinistro spappolato, la mano destra monca che non gli permette neppure di fumarsi l’ultima “paglia”, un occhio che “fa flosh” aperto come un uovo alla coque, il corpo formicolante accasciato sulle macerie di una torretta dove è stato colpito mentre documenta l’offensiva occidentale contro l’ultima sacca di irriducibili dell’Isis, Gabriele crede di vedere il suo ultimo cielo e si convince che anche lui, come l’amico-fratello Andy, diventerà un corpo e un volto che qualcuno dovrà riconoscere.

L’epilogo sarà diverso. Grazie al caschetto e al giubbotto antiproiettile, alla macchina fotografica che ha attutito le schegge sul volto, ai militari inglesi che lo hanno soccorso, il tutto supportato dal detto popolare evocato da Moreno Pisto per il suo compleanno e, forse, anche per quella sua strana abitudine che ha permesso alla ruota della fortuna di girare dalla parte giusta: “Ho sempre raccolto le carte da gioco da terra. L’ho sempre fatto, sin da ragazzo. Da quando vado in guerra, poi, ne trovo molte di più. Perché in guerra si gioca di brutto a carte. E più ci fai caso, più ne trovi. Più le cerchi, più ne vedi”.

Foto di Gabriele Micalizzi

Il presagio poco prima della partenza quando, mentre sta discutendo di lavoro, tra i divanetti di un locale di Milano ne scorge una particolare. “È un jolly. Trovare un jolly mi colpisce. Capita di rado. È ancora più raro trovare un jolly come questo, bello, disegnato a figura intera, non solo di faccia. Sorrido e lo metto nel portafoglio, dentro un sacchettino tipo porta batteria, di quelli morbidi, trasparenti, con la cerniera a pressione. Questo sacchettino è il mio talismano: era tra gli effetti personali di Andy tornati indietro dall’Ucraina”.

È così che, una volta dimesso dall’ospedale e ricevuti settimane dopo i suoi effetti personali in Italia, si accorge di un dettaglio: “Quando ho messo la mano nella tasca interna del bomber, per svuotarlo dei documenti e di tutti gli scontrini, ho sentito una bustina di plastica. L’ho tirata fuori e ho sorriso scuotendo la testa: morbida, trasparente, con la cerniera a pressione. Il mio talismano. Il sacchettino tornato indietro dall’Ucraina che era di Andy. E, dentro, la carta con il joker.  Era bucata anche la carta. Aveva contribuito anche lei a fermare la scheggia che mi avrebbe ammazzato”.

Un libro intenso, difficile da dosare, che si legge tutto d’un fiato e che tiene incollati alla lettura dalla prima all’ultima pagina. Sia per le descrizioni dello strazio che accompagna inevitabilmente ogni guerra, che per l’atteggiamento con cui lo affronta Micalizzi: “Mi scriverò Die Hard su una mano e RPG proof sull’altra, a prova di RPG”.  Ma alla copertina andrebbe applicata una avvertenza: “Ogni riferimento a persone o a fatti sono realmente accaduti”. Perché lo spirito che applica alle battaglie, personali o collettive, supportato dalla scrittura in presa diretta a ritmo martellante, sembra portarci a un certo punto nella fiction. Invece è tutto vero. Tutto vissuto. Tutto tremendamente drammatico.

E proprio a causa di esperienze del genere, il fotoreporter sembra trasformarsi piano piano in quel samurai invocato quando era in fin di vita. È così che, un po’ come se quello che avrete tra le mani fosse il suo personale Bushido, prendono forma le conseguenti norme di disciplina militari e morali. Dalla premessa: “La guerra si porta dietro anche speranze, ma solo alla fine, e solo per chi rimane vivo” si arriva alla caustica conclusione: “La morte è proprio una rottura di palle”.