Valeria Margherita Mosca potreste conoscerla anche voi. Ha un grande seguito social, è fondatrice di Wooding Wild Food Lab dalle parti di Milano, ed è un’antropologa culturale specializzata in etnobotanica e wildlife conservation and partnership studies. Valeria Margherita Mosca in sostanza è una ricercatrice che indaga il rapporto tra essere umano e ambiente. E ha qualcosa da dirci sul foraging, cioè su quella pratica, andata piuttosto in tendenza negli ultimi anni, che incoraggia l’inserimento nella dieta di piante spontanee, non coltivate (figuratevi un bosco, ma si sa, pure ai margini delle strade si fa funzionare).
Mosca non vuole far sconti alla nozione, perché non basta pensare di raccogliere due ciuffi verdi nel prato dietro casa (se si è così fortunati da averlo) per gridare alla: Natura! Anzi: «ci sono un sacco di ristoranti o persone che usano il termine naturale in maniera impropria, il che che finisce per fare male all’ambiente e creare disinformazione. È triste, ma alcuni se ne approfittano, lo usano come se fosse un marchio, una certificazione».
Ma non vi preoccupate: non servirà scriverci un saggio filosofico alla moda di Giacomo Leopardi – i più traumatizzati tra noi si ricorderanno il Dialogo della Natura e di un islandese, tratto dalle Operette morali. «Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere»… sarà tutto più semplice di così. Mosca incontra il pubblico tutti i giorni sui social, dove condivide momenti di vita e divulgazione e parla diffusamente della sua esperienza quale discendente del popolo Sami (ci arriveremo), in un linguaggio che non ha nulla a che vedere con l’italiano colto di inizio Ottocento. E non solo.
Lo farà anche oggi ad Happennino Festival («racconta della sinergia con l’ambiente, per me è fondamentale che si attivino narrazioni di questo tipo»), che da otto anni si tiene a settembre nelle aree interne tra Pesaro e Urbino e che proprio su quella “internità” pone il suo fuoco: quella della terra, degli autoctoni, di chi va, torna, arriva. Che si tratti di donne e uomini, specie vegetali e oltre. Per chi ci sarà e si vuole preparare, ma anche per chi non potrà e già sa, letteralmente, che cosa si perderà, ecco a voi una chiacchierata con Valeria Margherita Mosca. In cui parliamo di tradizione vissuta e tradizione sfruttata, di erbe, di cultura, e di idee per un futuro più ecosistemico, per tutti. Non c’è di che.
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Hai un titolo lavorativo molto lungo. Come facciamo a riassumerlo?
Dicendo che mi occupo di promuovere un rapporto uomo-ambiente positivo. Il mio lavoro si concentra sulla coesistenza tra umano e selvaggio, o se vogliamo sul selvatico. Ora ne siamo molto distaccati, non c’è un grande equilibrio: basti pensare che tutto quello che è fuori di noi lo chiamiamo “natura”, tirandocene fuori. Fino a qualche tempo fa, il nostro rapporto con gli ecosistemi era più chiaro. Per esempio, l’essere umano curava la foresta e in cambio prendeva quello che gli serviva per vivere. Dobbiamo imparare a riscoprire questo rapporto, e ci sono passi molto concreti che si possono fare.
Prima di tutto, però: come siamo arrivate fin qui, io e te?
In effetti la mia storia parte da lontano. Mia madre è di origine Sami, io sono cresciuta con mia nonna, anche lei Sami. I Sami sono un popolo nomade di stampo animistico e sciamanico, vivono in rapporto mutualistico con la natura, in simbiosi e adorazione di essa, seguendo le renne, dalla penisola di Kola in Russia fino alla Norvegia (territorio non riconosciuto ufficialmente a livello politico, ma denominato dei Sami Sapmi, e diviso tra Russia, Finlandia, Svezia e Norvegia, nda). Quindi sia questa cosa ha fatto parte della mia educazione, sia la mia indole è sempre stata quella di una bambina che gioca ed esplora nella natura. E poi c’era anche questa componente un po’ magica. Poi ho integrato nel mio lavoro gli stessi valori che mi sono stati insegnati.
Qual è stata la tua esperienza del mondo, provenendo da questo background?
Sono nata e cresciuta in Italia, dove solo poche persone conoscono la storia dei Sami. Quindi non sono stata discriminata né nulla, semplicemente, quando lo dicevo non capivano. La storia dei miei nonni e bisnonni, invece, lì sì che si parla di sofferenza ed emarginazione. Dentro di me permangono queste tracce, sono emozioni che ho fatto mie, quelle di persone che amo e che ho amato. La colonizzazione ha sempre strascichi pesanti. Diciamo che per fortuna mi è capitato di raccogliere solo il bello.

Foto: press
Per esempio?
I popoli come i Sami sono abituati a vivere a contatto con la natura, le loro conoscenze empiriche trovato consonanza nella letteratura scientifica, quando si tratta di piante e animali. Ma, dato che la stessa esistenza dei Sami è messa in dubbio dalla politica, anche il loro sapere lo è. Siamo stati sterilizzati, uccisi, segregati, cancellati. Lo scorso agosto è successa una cosa storica: per la prima volta la Finlandia ha riconosciuto nel popolo Sami e nelle sue conoscenza uno strumento fondamentale per affrontare il cambiamento climatico. Hanno aperto un ente statale, il Consiglio del clima, interamente gestito dai Sami.
Una Sami in Italia: come mai?
Nel 1927, la Svezia ha cominciato a perseguitare i Sami rinchiudendoli in campi di concentramento informali, diciamo. Tante donne sono state sterilizzate, il popolo in generale veniva usato per testare le medicine. Tanti Sami scappavano, andavano in un posto dove avrebbero potuto vivere di quello che sapevano fare, tenere le bestie. Così finivano o in Canada o nelle Alpi. I miei nonni sono arrivati in alpeggio in Italia, nonna era la ventunesima di ventuno fratelli. Aveva una sorta di vergogna a parlare delle sue origini, aveva paura, erano stati poveri. Mia zia invece, sua sorella, che era più grande, raccontava le cose con orgoglio. Ho imparato quasi tutto da lei.
Arriviamo proprio a questi insegnamenti…
Li applico tutti i giorni. Per questo, insieme ad altri colleghi, ho fondato Wooding Wild Food Lab, un laboratorio dove ci occupiamo di studiare, raccogliere, catalogare, analizzare e sperimentare con vegetali selvatici o parti di essi. Vogliamo spostare l’attenzione sulle necessità reciproche di uomo e ambiente partendo dalla scienza. Perciò ci occupiamo di divulgazione, editoria, comunicazione pop, facciamo formazione per adulti e giovanissimi e giriamo documentari. Abbiamo collaborato con diverse università in tutto il mondo nel corso di questi anni. Lo studio porta alla conoscenza, e la conoscenza porta al cambiamento, perché in quel momento si attiva un circolo virtuoso. Dove vogliamo conoscere sempre di più e rispettare sempre di più. Con un esempio pratico, abbiamo sviluppato un metodo di foraging alternativo, che chiamiamo conservativo.
Conservativo al posto di…?
Al posto di quello, che possiamo definire tradizionale, che viene di solito insegnato e divulgato. Il foraging tradizionale è quello che vuole rendere tutti raccoglitori, e che si focalizza solo su erbe e piante della tradizione. Nei fatti, quindi, va a raccogliere le stesse piante ogni volta, e questo fa sì che l’ambiente non riesca a rigenerarle abbastanza in fretta. Così, nel bisogno umano e pure trendy di “riconnettersi con la tradizione”, si finisce per creare un danno all’ecosistema. Rischia di non essere un disciplina sostenibile. Il foraging negli ultimi anni è andato di moda, ma per questo motivo è diventato una pratica controversa.
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Però “conservare” sembra il contrario di “raccogliere”.
È vero, ma in realtà è un termine che sta a indicare la modalità ambientale che si instaura tra uomo e natura, di cooperazione. E poi, conservazione parla di quello che vogliamo fare con la nostra pratica: proteggere l’ecosistema, non depauperarlo. Per farlo insegniamo a raccogliere le specie infestanti, infestanti e aliene. Quelle che sono presenti a causa di un intervento umano, di un’azione esterna che le ha portate lì da altri areali geografici. Succede spesso con piante asiatiche usate a scopi ornamentali, e che possono sfuggire dai giardini e dalle colture. Hanno ciclo di fioritura diversi e altre caratteristiche che le possono rendere dannose per un ecosistema che non appartiene loro. Producono tanti semi, si riproducono velocemente, non sono riconosciute dalla fauna locale e quindi non vengono predate… alcune emettono sostanze che risultano di fatto pesticidi per le altre piante. Sono queste che dobbiamo raccogliere, così da riequilibrare l’ecosistema e recuperare il nostro ruolo collaborativo. E poi, sono quasi tutte edibili.
C’è quindi anche una parte di cucina in quello che fai? Per insegnare come consumarle?
Non ho strettamente una formazione in cucina, ma durante l’università ho arrotondato lavorando in alcuni ristoranti. Ti cito Giancarlo Morelli e il Pomiroeu perché per me è come un secondo padre. Poi sì certo, io raccolgo tanto e uso gli ingredienti selvatici per la cura del corpo. Ho un’alimentazione soprattutto vegetale e ogni giorno mangio qualcosa di selvatico. Anche perché mi sento un po’ selvatica anche io. Ah, e poi con Wooding abbiamo il primo catering biogenerativo al mondo, Eat Your Habitat, dove tutto è cucinato con specie invasive e parte dell’attività torna all’ambiente nella forma in donazione economica. E poi facciamo consulenza agli chef che vogliono davvero approfondire il tema in maniera seria, mappando il territorio e lavorando con le specie giuste.
Valeria Margherita Mosca è una ragazza selvatica?
Assolutamente sì, come lo è mia madre e come lo era mia nonna. È un modo di vedere le cose, e di vivere spontaneamente. Ci sentiamo libere nell’ambiente naturale e nei nostri corpi. Per esempio, quando mi trovo in situazioni ambientali più estreme mi sento a casa, mi sento che posso star bene. Sento un legame potente, è una sensazione immensa. Anche solo parlarne mi fa commuovere.








