Il bordello bello della Biennale Arte, e lo spazio da riprendersi | Rolling Stone Italia
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Il bordello bello della Biennale Arte, e lo spazio da riprendersi

L’umanità sbarcata in questi giorni a Venezia è lo specchio (contemporaneo, variegato, cool) di quello che si vede nei padiglioni. Gonzo-cronache filosofico-esistenziali dall’attesissima esposizione, tra installazioni e cicchetti

Il bordello bello della Biennale Arte, e lo spazio da riprendersi

Il Padiglione Italia firmato da Gian Maria Tosatti e curato da Eugenio Viola alla Biennale Arte 2022

Ci sono tutti, proprio tutti, tutto il mondo che aveva fame di ricominciare, quanta fame, più fame d’arte che di cicchetti. L’amico della Biennale aveva ragione, già mesi fa mi diceva guarda che c’è agitazione, guarda che ad aprile sarà un bordello. Eccolo, il bordello. Ed è un bordello bello, il bordello di un’umanità giusta come dev’esserlo oggi, variopinta nell’abbigliarsi e nel presentarsi, globale ma in senso No Logo, fluida come si dice adesso. Manca (o ancora arranca) la massa di turisti da maschere-patacca e selfie al ponte dei Sospiri, ci sono ma non intoppano e non intuppano, non troppo almeno, pochini gli americani, i russi figuriamoci, i cinesi paiono tornati nell’era del pangolino bianco e quindi ancora con le mascherine ciao ciao. La Venezia della Biennale Arte è tutta della e per l’umanità della Biennale e dei suoi colori coloratissimi.

È coloratissimo anche l’Arsenale, e il Padiglione Centrale dei Gardini, ipersaturi in tutti i sensi, tante donne, tanti artisti etnici (si permetta la parola), è giusto, è bello, e per una volta pare normale (si permetta pure questa), parla all’oggi e dell’oggi senza forzature, senza quote, è così e basta, è così l’arte di adesso. È la Biennale, detto da osservatore più appassionato che esperto, delle cose che si provano a fare, e a volte quando si prova viene meglio. Il Padiglione Italia, per la prima volta, è firmato da un artista solo, Gian Maria Tosatti, ed è un racconto del post-industriale, della dismissione (Ermanno Rea è tra le fonti) molto estetico, un po’ ronconiano alla Infinities, anche molto politico. Fabbriche vuote, case sbaraccate, la natura che s’affaccia alla fine sulla catastrofe. Storia della notte e destino delle comete – questo il titolo/concept dell’installazione, il curatore è Eugenio Viola – è il tentativo, o almeno così sembra, d’interrompere finalmente la tradizione del Padiglione nostrano tutto lottizzato, politico in altro senso: è una prova, ed è la prova che forse funziona meglio così.

Una foto dal Padiglione Centrale dei Giardini

Con l’altra amica veneziana si diceva che, forse ancora inconsciamente, viviamo tutti la fase del togliere, del fare spazio, del non riempire sempre ogni pertugio rimasto vuoto. Ne scrivevo di recente a proposito dei contenuti, sempre come si dice oggi, a cui non riesco (non riusciamo) più a star dietro, nonostante il lavoro, nonostante la passione. Siamo sovrastimolati, vittime dello scroll continuo, dobbiamo imparare a levare e forse è quello che vogliamo, anche se non ce lo siamo ancora detti.

E allora, verrebbe da dire, la Biennale non è l’esempio migliore di quel togliere, di quel fare spazio. Questa Biennale che, dicevo, è così satura di roba, di pezzi uno accanto all’altro, spesso uno più interessante dell’altro, come diavolo si fa a trattenere tutto? Invece, anche qui, ci sono disseminati indizi che diventano prove. Al Padiglione Italia si entra uno alla volta ogni venti secondi esatti, cronometrati all’ingresso. L’idea è che si possa vivere l’esperienza il più possibile in solitaria, che si possa togliere le persone (dallo spazio) per riappropriasi (dello spazio). Il Padiglione francese, con dentro tanto cinema e tanta politica, si apre con una pista da ballo vuota, ogni tanto passano due ballerini, ma sembra un bar dimenticato, più all’italiana che alla parigina (e infatti l’ispirazione primaria è Ballando ballando del nostro adorato Scola).

C’è tanto discorso sul corpo e sul suo posto, sullo spazio che occupava e che occupa (il femminile, il black, il sesso: tra le mie preferitissime Belkis Ayón, cubana morta giovanissima, in apertura all’Arsenale). E ci sono i corpi che, ironicamente, lo spazio lo rioccupano. Lunghissime code fuori dai padiglioni, e a guardarle viene da pensare che sia un’installazione a tema pandemia (non ancora) passata, una peffòmmanz su di noi incolonnati fuori dal panettiere. Invece è solo che ci sono tutti, proprio tutti, a riempire lo spazio possibile per svuotarlo, o almeno ripensarlo.

Il Padiglione francese alla Biennale 2022

Alla Fondazione Prada, tra i luoghi-satellite della Biennale e dei suoi influencer di pregio, apre la notevolissima Human Brains, dove il corpo è presentissimo e insieme scompare per davvero, resta solo la testa, anzi proprio il cervello, da (ri)studiare in un allestimento monumentale che è il labirinto della mente stessa. A Palazzo Grassi invece la meravigliosa sudafricana Marlene Dumas che è tutta corpi disturbanti e perturbanti, in spazi che sono vuotissimi e riempitissimi, e anche lì la giusta lettura identitaria e politica (la sala dei ritratti di omosessuali celebri, Oscar, Marcel, Tennesseee, Pedro: nudi con i brividi, noialtri che guardiamo).

Ci si affolla agli aperitivi, alle vernici, il virus sembra un ricordo, o vogliamo che così sia. C’è l’artista afro tutta giallo fluo e il burocrate nostrano in abito Boggi, l’influencer prezzolata da chissà quale marchio e l’artista vero dibattutissimo nella sua personale scelta di Sophie: Kiefer o Kapoor? Si sentono cose come: «Passate domani dal padiglione di San Marino, c’è anche la sfilata di Elisabetta Franchi!». Tanti gli omaggi all’Ucraina in guerra, i catering coi fiori gialli e blu, «lì vendono dei pezzi e il ricavato va agli ucraini, ma davvero, c’è anche il notaio».

Come tutti gli anni, a Venezia incontri molti più milanesi di quelli che vedi abitualmente in città, l’amico del liceo, quell’altro con cui avevi fatto un lavoro che ancora ricordi, lasciamo tutti per due-tre giorni la saturissima Milano per arrivare in questo bordello bello, saturo ma in modo sano. Pienissimo e però anche vuotissimo, giri l’angolo e sei a Castello, non c’è nessuno, lo spazio è vuoto, è tuo, facciamoci un altro spritz, bianco ché a quest’ora è meglio.