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Gonzo

Venezia, cronache dalla vita che (non) riparte

Andare nella città svuotata dai turisti (tranne i tamarroveneti del weekend) e trovarci la nuova Biennale, e le mostre, e le persone. Tutto sta tornando normale per davvero o questa non è la normalità?

Venezia, cronache dalla vita che (non) riparte

Foto: Miguel Medina/AFP via Getty Images

Sono andato a Venezia per vedere se si può davvero smart-lavorare da ovunque, e ho trovato il mondo che riapriva. Il mondo, vabbè: la bolla dell’arte, delle vernici, degli appuntamenti per pochi che però cambiano le cose, così si dice. Questo pezzo dovrebbe essere titolato «Bisogna ripartire dalla cultura», o altre belle simili parole. No, però sì: dopo un anno (soprattutto mentale) di stop a e di qualsiasi cosa, è giusto che sia una Biennale a dare il segno della ripartenza (ir)reale.

Andiamo con ordine. «Vieni in settimana, il sabato e la domenica arrivano i peggio veneti a sbevazzare», mi dice l’amica veneziana. (Lo confermerò io stesso qualche giorno dopo: il sabato piomba davvero in città l’orda di vicentini e trevigiani con lo zainetto colmo di panini prosciutto e fontina nel domopak e abbigliamento tecnico Decathlon; e quelli dei miserabili addii al celibato/nubilato.) Arrivo il mercoledì e non c’è nessuno, piazza San Marco vuota, quelle robe bellissime e struggenti che si vedono nelle foto delle gallery Covid e che fanno effettivamente impressione – ma, scrive un’altra amica su Facebook, non facevano più impressione le navi da crociera dietro Palazzo Ducale?

Io però mica lo sapevo – cioè, l’avevo rimosso – che erano i giorni dell’apertura della Biennale, con l’Architettura bloccata l’anno scorso dal solito antipaticissimo virus; e, a rimorchio, di tutte le nuove grandi mostre dentro i palazzi e le punte, con consueto codazzo di addetti-ai-lavori e imbucati, esperti e influencer, ministri e scribacchini. Come me, che allora mi ficco di qua e di là, anche solo per poter urlare al marito a casa: perché non ci sei! Qui c’è l’arte! C’è la vita!

In effetti c’è, e forse pure troppa. Dopo un anno di smart-working però vero, fisso al mac senza muovermi, ormai la normalità era quella e adesso di colpo troppe cose, troppi stimoli, troppe persone. Il corpo che soffre è – profezia o culo? – il grande tema che scorre sotto pelle. How Will We Live Together?, titola la bella Biennale degli architetti che pensano anche alla (ri)costruzione dei corpi, appunto. Ai Giardini i corpi che abitano il pianeta e i suoi confini e, soprattutto, le città che hanno mostrato la loro fragilità soprattutto umana, in un anno in cui tutto ciò che univa i suoi abitanti (li chiamano eventi, o week) è rimasto chiuso; all’Arsenale i corpi da ripensare in chiave anche urbanistica, per così dire, i corpi-cyborg che ironicamente diventeremo se non lo siamo già diventati (divertenti gli aggeggi per dormire pochissimo e performare – pardon – di più), i corpi che devono riabituarsi a vivere con gli altri e quelli che hanno finito per bastarsi: oramai il co-housing è con noi stessi, in noi stessi.

Foto: Marco Secchi/Unsplash

Alla Punta della Dogana pure l’adorato Bruce Nauman riflette sul corpo, il suo di ieri (fine ’60) contrapposto (nel senso della figura greco-classica) a quello ottantenne di oggi, in magnifici video a tutta parete, spiritose invenzioni 3D, giochini per esplorare il suo atelier ed esorcizzare la claustrofobia d’artista (e la nostra). E alla Fondazione Prada Peter Fischli – artista-curatore svizzero dunque come tutti gli svizzeri capace, essendo niente o troppe cose insieme, di dirci quel che siamo noi – s’interroga sul grande corpo della pittura e sulla sua eterna crisi, in una splendida collezione di opere (Stop Painting) che distrugge per costruire.

Anche il mio corpo è distrutto, è stato fermo troppo, e adesso venti chilometri al giorno tra calli e campielli, incroci un tipo che conosci e ti manda a vedere un’altra apertura ancora, non perderti Palazzo Grimani, è bellissimo! (lo è davvero), e poi scrolli Instagram e uh, ma c’è qui pure quest’altra amica!, vediamo anche lei!, vieni alla Giudecca!, mi scrive, alla Giudecca?!, mi dico, ma allora questa è proprio un’avventura!, e via con un altro vernissage in un altro posto pieno di artisti, editori, designer, madonna quanta gente!, madonna ma si potrà?, madonna ma allora è vero che là fuori c’è l’arte!, c’è la vita!, quante cose ci siamo persi!

La vita riparte nella città forse più simbolo-pandemia di tutte. «I cinesi e gli americani non ci sono, e va anche bene, ma il fatto è che quelli davvero scomparsi siamo noi veneziani», dicono i veneziani stessi, «saremo rimasti sì e no in cinquantamila» (brividi), «ci hanno chiuso pure i panettieri sotto casa perché non c’erano i turisti». Nessuno li rivuole più e tutti li vogliono, nel frattempo pure i local si godono questa fase di passaggio in cui ancora trovi posto al ristorante senza prenotare, in cui non fai a pugni sui ponti – anche i tamarroveneti del weekend sono meno dei tizi delle crociere, per fortuna.

La vita riparte con le sue storie possibili solo a Venezia, il principe che ha affittato un palazzo davanti alla Salute, e l’altro ricchissimo che vuole trasferirsi per sempre qui «per imparare a vivere», e le pierre che progettano matrimoni per quando si potrà, eccetera. Tutte cose che accadono solo da queste parti, e alla fine ti dici che sì, la vita qua riparte, ma questa mica è la vita vera.

La vita vera è, adesso, di nuovo a Milano, fuori piove, nulla mi farà alzare dal seggiolino svedese su cui ho posato il culo per gli ultimi quindici mesi (vacanze escluse, ok), che bella la vita vera o non vera che riparte, che bello il corpo che torna a respirare, ma quanto è più facile e più comoda la nostra nuova normalità, sento già che, alla prossima vernice, mi mancherà moltissimo.

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