Il TuttoRoma: il castello di Garbatellaworld | Rolling Stone Italia
Gonzo

Il TuttoRoma: il castello di Garbatellaworld

Il quartiere della Garbatella è un parco a tema della romanità primigenia: escapismo, disinvolto senso del tempo, slanci del cuore ed elevato fabbisogno di grassi saturi

Il Teatro Palladium di Roma, situato in piazza Bartolomeo Romano

Il castello di Garbatellaworld

Foto Giovanni De Stefano

Grazie all’impegno continuo di tutti — istituzioni e residenti, classe politica e gente di passaggio — Roma continua a scivolare in una voragine infernale le cui pareti sono lubrificate da ettolitri di sugo all’amatriciana col parmigiano. Il fatto è che se Milano è orgogliosa del suo bosco verticale, Roma non sembra meno soddisfatta della sua selva oscura orizzontale. Perfino i pedoni, tra gli ultimi romani depositari di un certo retroterra umano, sono ormai passivo-aggressivi come se, al posto delle Nike Vapormax, avessero altrettante Porsche Cayenne. Si sono evoluti così bene che, in caso di contestazioni del loro stile di attraversamento stradale, hanno imparato a farti il segno di stare muto, con le dita sulle labbra, incazzati col mondo tipo calciatori facinorosi di serie D, perennemente in lite con entrambe le tifoserie: la propria e l’avversaria. Nel febbraio 2019 Roma è un’unica, immensa distesa di pavé sdentato, i cui sampietrini hanno smesso di credere, com’è stato per secoli, che l’unione, o anche solo l’adiacenza, possano fare la forza, e si fanno la guerra l’uno con l’altro, fino a che non saltano in aria, lasciando al loro posto buche incolmabili e radici incarnite.

In un contesto del genere non è così strano che una zona con le caratteristiche della Garbatella sia percepita come un parco a tema dedicato a un’idea di romanità primigenia, in cui le prerogative del popolo capitolino configurate dal cinema e dalla tv — escapismo quanto basta, disinvolto senso del tempo, scarso attaccamento alla carriera, grandi slanci del cuore, elevato fabbisogno di grassi saturi — si prendono la loro rivincita sull’adattamento alla contemporaneità. Questa città-giardino, costruita a partire dagli anni ‘20 del Novecento con lo scopo di rendere meno traumatico possibile il trasferimento nella Capitale a migliaia di operai che erano abituati a vivere nelle contrade del Meridione, è infatti, oggi più che mai, un’enclave di rara vivibilità e fotogenia. Una Disneyland de noantri, che ti accoglie con lo sfondo del Palladium al posto del castello di Cenerentola, e dove le photo op più ambite, invece che col pupazzo di Topolino, sono con quello di Antonello Fassari.

In Black Panther l’esistenza stessa di Wakanda, evolutissima nazione nascosta nell’Africa Orientale, è simbolo della coscienza indomita ma oppressa del popolo afroamericano. Lo stesso è la Garbatella per il sonno identitario dei romani. In pratica, al posto delle armi e delle innovazioni derivanti dal vibranio, i garbatellini aborigeni hanno a disposizione tecnologie più semplici, ma altrettanto straordinarie: spazi pubblici da condividere e curare; piedi per passeggiare dopo cena, o per fare la spesa; la pazienza per non spedire all’EUR le persone che li fermano dieci volte al giorno (venti nei fine settimana), chiedendogli dove resti il bar dei Cesaroni. L’attrattiva ulteriore offerta dalla Garbatella è che non si tratta, a differenza di Black Panther, di un luogo secretato nel cuore di un altro continente; ma è sotto gli occhi di tutti, o perlomeno di chi domini le traverse della Cristoforo Colombo o dell’Ostiense necessarie per accedervi, se non è avvezzo ai piaceri della metro B.

Il giardino pubblico del vicino è sempre il più verde. Foto Giovanni De Stefano


I romani degli altri quartieri vengono qui regolarmente, con l’obiettivo di curarsi con degli impacchi di autenticità, sedotti dalla prospettiva di una vita — altrui — fatta di potature autogestite, di chiacchiere all’aperto, di compilation di “si figuri”, “te possino”, “per cortesia”, “li mortacci tua” e “no, grazie”. Dopo una cena dall’Acino brillo, rincasano convinti che, per risolvere i problemi della città, le nuove generazioni dovrebbero fare un Erasmus di leva in un lotto a caso della Garbatella.

Molti non riescono ad andare oltre, e il presente li punisce per il resto dell’esistenza con le Peroni piccole a 4 euro, senza scontrino e senza tavolino, delle rispettive zone di origine. Quelli che riescono ad adattarsi, invece, ci restano, ristrutturandovi ex case popolari con lo stesso slancio di leoncini cresciuti in cattività, una volta liberati nella savana: all’inizio titubanti, ma poi, mano a mano, l’istinto naturale prevale. Per molti di loro il momento più rognoso è quando realizzano che la facciata della casa dei Cesaroni è, in realtà, al Pigneto. Il fenomeno opposto, seppure più raro, è la fuga dei garbatellini, costituita per lo più dai ragazzi che ogni anno lasciano il quartiere per iscriversi alla LUISS o, peggio, alla Bocconi. Con conseguenti scene strazianti di nonne spezzate che, dalla torre di controllo del davanzale, si sgolano chiedendogli di tornare a bordo, cazzo.

I segreti del successo della Garbatella sono due. Il primo è che le stesse caratteristiche che in altri quartieri sono opposti che stridono e che tendono ad alzarsi le mani a vicenda, qui riescono a diventare armonia e opportunità: paese e città, vecchi e bambini, poveri e ricchi, colti e ignoranti, giornalisti e giornalai, residenti e pariolini, italiani e stranieri, amori gratuiti e a pagamento, si fondono nelle sfumature di una tavolozza che tende all’arancio e al rosso delle facciate. D’estate, l’Arena Garbatella riunisce tutti in un girotondo tardo-felliniano: uno degli ultimi spettacoli nello spettacolo offerti dalla città, in cui il pubblico di un film, se l’introduzione diventa troppo lunga, e il chinotto si riscalda, ha ancora il coraggio di interagire direttamente con il regista, urlando a più non posso, prima un assolo, poi in coro, *basta!*.

La terza Impiparsi del presente, sotto l’insegna di un telefono pubblico, un Whatsapp alla volta. Foto Giovanni De Stefano



Anche in pieno inverno, il sabato pomeriggio è dominato dai vari generi musicali che provengono dai centri per anziani e dalle parrocchie. Alcuni sono così vicini che sembrano più piste della stessa sala da ballo, valzer e bachata. Scendendo da via Salinieri puoi tendere l’orecchio e scegliere cosa ti va di più, o anche girarla a biathlon, come quegli intenditori che prendono una pallina di gusto noce dai Golosoni in piazza Albini e poi corrono in via Padre Reginaldo Giuliani per completare la coppetta col pistacchio della cremeria Alpi.

Il secondo segreto della Garbatella è nella soluzione che continua a fornire al problema fondamentale del rapporto tra spazio pubblico e privato, riuscendo perfettamente in una delle imprese odierne più difficili: fare i signori col giardino di tutti.

Il principio è semplice. Siccome sei portato a trattare i mandarini e le panchine presenti nel tuo lotto come se appartenessero al tuo cortile — e infatti lo è, anche se è aperto al pubblico, non essendo recintato, ma solo curato — tendi a fare lo stesso con gli altri mandarini e magari pure i marciapiedi, appena esci dal lotto. I garbatellini veri si sentono e sono tutti portieri e tutti proprietari di uno stesso grande loft che si estende da piazza Pantero Pantera al palazzo fantozziano della Regione Lazio. Tutto è piazza e niente è privé. Alcuni vicoli ciechi hanno una vista bellissima: un nonnino che da una finestrella ti avverte che nun ce sta più niente de llà, come se questa epifania della sua garbatellaggine fosse un traguardo meno importante da raggiungere del giusto tratto di via delle Sette Chiese.

Dentro un androne vedi delle aiuole perfette e, chiaramente, rosichi. Invece non è un androne, ma solo un passaggio tra due parti dello stesso spiazzo. L’egoismo, per lo spazio di un quartiere, è impegnato da decenni in un partita a mosca cieca con il buon senso, l’umanità, l’ordine e il disordine, in cui è sempre lui a essere bendato e non riesce a toccare mai nessuno.

Lo stenditoio collettivo all’aperto è il vero manifesto poetico della Garbatella. I panni sporchi si lavano in casa e si asciugano in pubblico: è la più grande garanzia di decoro. Del resto, uno dovrebbe davvero essere dei Parioli per sporcare il posto in cui sua madre stende le lenzuola. E come si guarda storto il negoziante di casalinghi che, incautamente, forse perché ancora nuovo della zona, espone fuori dalla vetrine il simbolo del male assoluto: lo stendino monofamiliare in plastica.

Se Roma è un Tagadà, la Garbatella è di certo una giostra a seggiolini volanti (altrimenti detta calcinculo), forte di un equilibrismo che non è riservato alle poche figure solitarie che possono erigersi al centro della pedana della prima giostra (mentre tutti gli altri devono stare a guardare, schiacciati sui posti a sedere), ma deriva dalla capacità di ciascun occupante di seggiolino di calciare il successivo, calciato a sua volta dal precedente.

Nel parco delle catacombe di Commodilla, sedioline pieghevoli e solide panchine comunali si alternano come se niente fosse. Niente di più normale: quando non bastano le panchine, vengono in soccorso le sedute portate da casa. Quando non bastano neanche quelle, si trasportano le panchine da un altro lato del parco, purché nessun altro le stia usando; altrimenti, si trasporta anche lui. Alcune sono chiaramente sedie da interni, evase; altre sono parti di set da giardino comprati da chi un giardino non lo ha, e non lo avrà mai, perché possiede un parco pubblico che è più che un’estensione di casa sua: è casa sua.

Diversità di sedute al parco delle Catacombe di Commodilla. Foto Giovanni De Stefano



Per alcuni la Garbatella è uno scudetto della Roma strategicamente posizionato come insegna sulla porta di una scommettitoria, nel caso a qualcuno venga la strana idea di puntare sulla squadra sbagliata. Per altri è un ultimo romantico che si ferma a whatsappare sotto l’insegna arrugginita di un telefono pubblico. Per quasi tutti gli altri è semplicemente il posto più strano in cui sono stati romani.