Cowboys, nuvole e shooting modaioli nel rossore serale del West | Rolling Stone Italia
Gonzo

Cowboys, nuvole e shooting modaioli nel rossore serale del West

In pieno deserto nella “meth country” californiana, racconto gonzo dell'incontro con il più grande pittore western vivente e un paio di altre cose che possono accadere solo in quella parte di mondo

Cowboys, nuvole e shooting modaioli nel rossore serale del West

Foto di Sergio Guardì

Io di western ne so. È una passione, un oggetto di studio cominciato e mai abbandonato da quando ero poco più che un bambino. Non so se è più il piacere per questa nuova ondata western a cui si assiste un po’ ovunque o la voglia di mandare finalmente tutti affanculo per tutte le volte che in passato mi è stato chiesto dove avessi lasciato il cavallo solo per gli stivali che avevo ai piedi ( “Sei del Texas? No, di Gallarate” – Solo per veri intenditori). Comunque io di western ne so.

E di cosa parliamo, oggi, quando parliamo di “western” e “stile western”?
Cinema, moda, letteratura, arte. Oggi siamo di fronte all’ennesima rinascita e diffusione di quello che non è solo un genere ma anche un modo di vivere e di sentire. E che per questo, esattamente come il Rock’n’roll, ogni volta che si dichiara morto rinasce, forte di tradizione ma anche di nuove interpretazioni. Bene così.

Mettiamo le cose in chiaro sin da subito: io ho persino un revolver a casa, Colt Navy 1851 a 6 colpi, ma a me la stragrande maggioranza dei film western classici con John Wayne fa un po’ cagare. Ecco, l’ho detto, non ho resistito. Del resto, ognuno ha il proprio momento “Corazzata Potemkin”. Il fatto è che chi crede che il western si riduca solo a sceriffi col ciuffo che si prendono a pistolettate vestiti con jeans e stivali a punta che manco Aladdin o a Tex Willer con la sua improbabile camicia giallo canarino che insegue cattivoni in calzamaglia tra le strade polverose della Monument Valley, di western sa proprio poco. Questo è il lato più dozzinale del fenomeno. Cose che stanno al western come il Liga sta al Rock’n’roll. Punto.

Provate a dire a Cormac McCarthy (nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…) che i suoi romanzi non sono abbastanza western perché mancano le sparatorie e gli eroi senza macchia. Meritereste l’ergastolo. Il west e il western sono molto altro. Storicamente e culturalmente. La speranza dei disperati, la terrificante bellezza della natura (non sto per parlare di Sublime, giuro), gli spazi aperti, il modo di viverci e di viverli, la sensazione di pace e di annullamento che infondono. A ben vedere troviamo elementi “western” dove non ci si aspetterebbe di trovarli.

La Steppa, forse il racconto più famoso di Checov. Direte: che cazzo c’entra. C’entra, c’entra. È la storia di una carovana che invece di muoversi lungo le grandi pianure americane viaggia attraverso la steppa ucraina. È più western quello di molte cagate pseudo western con gente che urla “Yee haw”.

Per certi versi il genere western è un po’ il Romanticismo americano: noi abbiamo Werther e Fabrizio del Dongo, loro il cowboy solitario. Oggi, forse per la prima volta, questi elementi sono più riconosciuti e anche a questa nuova consapevolezza si deve la riscoperta e la diffusione, in tutti i campi, di un certo tipo di tematiche e di un certo linguaggio estetico e stilistico al di qua e al di là dell’Oceano. Mai come negli ultimi due anni in Italia sono stati pubblicati libri western non tradotti in passato; Tarantino ormai è un regista quasi prettamente western e, che sia Parigi o Milano, le passerelle sono piene di cowboy boots, cappelli, giacche con le frange e camicie in denim o a quadri.

Di certo ha dato una spinta e contribuito non poco il 50esimo anniversario del marchio Ralph Lauren celebratosi circa un anno fa. Un brand che sull’American way of life ha basato gran parte del proprio concept e che attinge a piene mani dall’immaginario western. Ma non solo. Tra i tanti, persino i nostrani e un po’ trash Dolce & Gabbana (spiccatamente più fashion) e il più “ricercato” designer belga Dries Van Noten non hanno perso occasione di partecipare al trend offrendone la propria interpretazione. Per non parlare del trionfo dello stile “Americana” presso tutti i vintage stores più cool, da LA a Tokyo. Oh yes. Mi vergogno solo a scriverla sta cosa, ma è così.

Ora, di questa swifferata al genere ne ha giovato anche l’arte figurativa specializzata americana, la cosiddetta “Western art”, e da qualche anno, soprattutto intorno alla comunità artistica di Taos e Santa Fe in New Mexico ma non solo, si stanno affermando e riaffermando una serie di bravissimi artisti più o meno giovani che hanno riportato in auge il genere e l’hanno svecchiato un bel po’, ottenendo anche importanti riscontri in termini commerciali. Ragazzi, è l’America, qui i soldi girano ancora.

All’interno di questo gruppo di nuovi artisti ci sono tanti bravi pittori con lo Stetson in testa, ma una sola rockstar: Mark Maggiori. Ma cosa rende il nostro Mark speciale? Innanzitutto che dipinge da paura. Ma da paura. La gente, non solo cultori e collezionisti del genere, impazzisce per i suoi quadri. E poi c’è il resto. Partiamo da un piccolo dettaglio: Mark Maggiori non è americano. E no. Francese, con chiare origini italiane ( “vaffanculo” lo pronuncia benissimo), prima di fare il pittore era il frontman di una band di Nu Metal anche abbastanza famosa in patria, i Pleymo. Poi è stato regista di video musicali, fotografo, direttore creativo, si è trasferito in America, qui ha conosciuto la bella Petecia, bravissima artista visuale anche lei, se l’è sposata e i due, che oggi hanno anche una meravigliosa figlia di nome Wilderness (come chiamarla altrimenti), sono andati a vivere a Chloride, una ghost town nel bel mezzo del niente del deserto in Arizona. È qui che Mark ha cominciato a dipingere veramente, concentrandosi solo su quello che sin da piccolo era una sua fissa: i cowboys americani e gli spazi infiniti in cui si muovevano.

Foto di Robert Spangle

A questo aggiungete che è un figo pazzesco, ha una collezione di abiti vintage fenomenale, si veste che C’era una volta a Hollywood sono dei dilettanti e quando si muove in macchina per Los Angeles, sua città attuale, lo fa poggiando il culo su una Chevrolet Chevelle nera del ’68. Insomma è quello che si definirebbe “un bel personaggio”.

Così, tempo fa, quando ho avuto la possibilità di incontrare di persona e lavorare per qualche giorno con quello che è attualmente uno dei più importanti pittori “western” contemporanei, non ho esitato un attimo a far fuoco con la carta di credito aziendale e prendere un volo per raggiungerlo a Los Angeles. Felicissimo. Fino al giorno della partenza.

Mettetemi sul tatami di fronte ad un energumeno di 95 kili con cui lottare. Io di paura non ne ho. Ovviamente prendo le botte, sia chiaro, ma niente paura. Stare a 10mila metri da terra dentro a un coso di ferro? No dai, col cazzo, volare è contronatura. Che orrore. E così ricorro ai miei personali rimedi. È un diretto da Milano, 12 ore filate. Tre bicchieri di vino, quindici gocce di Lexotan mezz’ora prima di decollare, pasticca di sedativo Stilnox appena arrivati in quota. C’ho pure il Tavor, non posso sbagliare. Dovessero arrivare gli Indiani, non sento nulla manco se mi fanno lo scalpo.

La storia è questa: devo incontrare Mark e fotografarlo mentre indossa dei capi di un marchio di abbigliamento maschile per cui lavoro che tra le varie fonti di ispirazione ha anche l’estetica e lo stile western rivisitato. Ok, niente cazzate dai: sono uno dei co-fondatori del marchio e la roba la disegno io. Ma questo poco importa.

L’idea è quella di farci due chiacchiere, conoscerlo meglio, e realizzare lo shooting nel deserto attorno a Los Angeles. Il fotografo prescelto è un caro amico nonché una delle persone che stimo di più nel settore. Si chiama Robert Spangle e ha una storia bellissima. È un ex marine, partecipa giovanissimo a diverse missioni in Afghanistan. La guerra la vede per davvero, mica al cinema. Poi capisce che nella vita vuole fare altro e va a Savile Row, a Londra, a studiare da sarto e da designer e comincia a fotografare come streetstyle photographer (ma non solo) per alcune delle più importanti testate di moda e costume maschili al mondo. GQ, Esquire, The Rake, Vogue. Insomma, quelle. È una persona dalla grandissima sensibilità, umana ed estetica, e quando non fotografa gente “vestita bene” lo trovate in Spagna a fotografare Matadores nei loro momenti più intimi, o sul fronte di guerra vicino ai vecchi compagni.

In tutto questo, non so come, trova anche il tempo di disegnare la sua collezione di accessori e, quando è a casa sua, a Malibu, se scoppiano incendi come quelli terribili che hanno devastato la California un anno fa (e ultimamente), si spacca il culo per dare una mano coordinando gruppi di volontari, dando vita e allestendo camp dove accogliere e aiutare gli evacuati e mettendo al servizio della comunità quanto, nel bene e nel male, ha imparato durante la sua precedente vita da marine. Perfetto.

Mark non lo conosco di persona, lo seguo su Instagram da tempo e c’ho solo scambiato qualche parola. Parlando, anzi, scrivendoci, ci siamo resi conto che abbiamo tante passioni in comune. Il West, ma non solo: una certa idea di stile, il vintage, le muscle cars americane anni ‘60, il buon vino e l’odio per la musica di merda.

Già al telefono chiarisce che ci tiene a una certa organizzazione perché si auto-impone una routine di lavoro molto ferrea, la richiesta e il valore delle sue opere crescono costantemente e non può perdere tempo, ci tiene a chiarire che è un hard working man. Io in realtà lo capisco che sotto sotto è italiano e quindi un po’ cazzone come me, ma ovviamente lo assecondo e decidiamo di mandare Steven, il suo assistente, a fare location scouting nelle zone desertiche di Palmdale e Lancaster due giorni prima del mio arrivo. Inizialmente, infatti, lo shooting era programmato a Joshua Tree (sì, quello), ma proprio durante quella settimana si tiene il Coachella, il festival dei fragili di cuore convinti che il rock’n’roll sia indossare una maglia con la faccia di Kurt e pagare una cifra folle per dei jeans già strappati. In zona ci sarà un casino di gente, dicono. Casino già male. Ma casino di coglioni? No, eh. No.

Foto di Robert Spangle

Meglio allora virare sul deserto attorno alle aree di Palmdale e Lancaster. Attenzione, siamo in piena meth country. Quelle zone non sono proprio come le cartoline del deserto americano tra lo Utah e l’Arizona che ho visitato più volte. E no. Diciamo che qui, al posto dei caratteristici buttes e delle mesas assolate, troviamo spesso camper e roulotte abitate da scienziatini provetti che producono e smerciano metamfetamine per la gioia di folkloristici fattoni che sembra si siano lavati i denti a colpi di Kalashnikov. Un dente ogni venti minuti. Lo facciamo lì allora? Ok, perché no?

Arrivo a Los Angeles. Vivo ma sballatissimo. Grazie zio Stilnox. Ora c’è da ritirare l’auto che ho noleggiato. Mica facile, ci son problemi con la carta di credito, mi devo dar da fare per uscirne e passo tre ore di agonia tra due estremi. Da un lato i peggiori insulti a operatori telefonici in Italia rei di lavorare per la mia banca, dall’altro una sventagliata di “Yes sir”, “Thank you sir” per leccare il culo al tipo dell’autonoleggio. Funziona, oh se funziona, e finalmente mi ritrovo davanti al mezzo che ho noleggiato: un pick up della Dodge. Enorme. Non ho nemmeno idea di come farò a uscire dal parcheggio con sta bestia: godo. Metto in moto, tiro fuori il cappello e metto su una radio messicana che sarà l’unica colonna sonora della settimana. Minchia che bella l’America.

Ho preso casa a Frogtown. È lì che mi dirigo, o meglio, dove spero di arrivare. Mi dicono fosse una zona poco sicura tempo fa, vista la presenza di gang e merda varia, ma che ora è molto “cool”. Dopo 7/8 tentativi di posteggiare andati a vuoto (sia chiaro: strada liberissima, grazie zio Stilnox – e due), giungo al mio appartamento. Mi accoglie Karen, la padrona, ed è amore a prima vista. Nel giro di 5 minuti mi fa capire che è lesbica, si batte per i diritti civili, contro ogni sorta di discriminazione sessuale e razziale e dice che “cowboy” è ok, ma se sono anche solo lontanamente un simpatizzante di Trump posso riprendermi i miei soldi e andarmene fuori dai coglioni. In due parole: è intelligente. La rassicuro su tutto e le dico che la vorrei tanto come zia. La mia permanenza non è a rischio.

Il giorno dopo incontro Mark. Mi dice di raggiungerlo nella villa sulle colline di Hollywood dove vive con la famiglia. La prima cosa che vedo davanti casa sua è il suo pick up Ford anni’50. Il mio Dodge a confronto è uno scherzo. Mi sento come uno che a ricreazione tira fuori la crostatina mentre il compagno mangia un panino col culatello. Mi fa vedere il suo studio e per la prima volta vedo i suoi quadri dal vivo. Già in foto hanno un certo impatto, ma ora, viste anche le dimensioni, è tutta un’altra storia e capisci ancora di più a cosa sia dovuto il suo successo. I temi sono “classici” per il genere: si tratta di tipici paesaggi western in cui si muovono i suoi cowboys a cavallo. Ciò che li rende diversi è lo sguardo, l’approccio adottato. C’è l’occhio europeo dietro, si vede, c’è qualcosa di molto romantico che personalmente, a tratti, mi rimanda addirittura a Caspar Friedrich.

Mark non è interessato a raffigurare sparatorie, combattimenti o inseguimenti tra Indiani e cowboys, ma a cogliere la vera essenza del vecchio West di cui parlavo sopra. Esce dalla retorica western e, con uno sguardo nostalgico ma al contempo molto realistico e un po’ cinematografico nel ritrarre la scena, ci mette davanti all’immensità degli spazi e alla loro bellezza, quella sì giustamente retorica. Tranne qualche eccezione, i suoi dipinti sono popolati da un cavaliere o da piccoli gruppi di uomini, cowboys in procinto di cominciare la loro giornata di lavoro all’alba o di finirla, sotto la luce del tramonto o al chiaro di luna. Anzi, baciati da questa luce, in tutta la loro meravigliosa “lonesome” di matrice western. Quello che rende uniche le sue opere è proprio questo: tu le guardi e pensi: “Cazzo quello dentro al quadro vorrei essere io”. Non è poco.

E poi ci sono le nuvole. Le nuvole che dipinge Mark Maggiori sono uniche, sono le nuvole dell’Arizona, del New Mexico, a volte del Wyoming, inondate di una luce che è tutta sua. Queste nuvole sono per Mark quello che sono per certi chitarristi certe note, certi suoni all’interno delle canzoni. Sono distintive, uniche, un marchio di fabbrica inimitabile. E così, come bastano poche note, a volte anche una, per dire ad esempio “Ah beh questo è Frusciante” oppure “sticazzi, è Hendrix”, allo stesso modo basta guardare le nuvole nei suoi quadri per capire chi ne è l’autore. Non sono un elemento di contorno, sono realistiche, vere, vive, una fedele rappresentazione dei cumulonembi tipici del west americano, le nubi che si formano poco prima dei temporali durante la stagione dei monsoni. Ed è anche per questo che oggi Mark, oltre a godere dell’apprezzamento dei collezionisti del genere (i prezzi stanno salendo vertiginosamente), ha una vera e propria schiera numerosissima di ammiratori “devoti”. Persone non necessariamente appassionate di western o arte western nello specifico, ma che sui social hanno persino coniato l’hashtag #maggioriclouds da applicare alle loro foto ritraenti nuvole di questo tipo immortalate un po’ ovunque.

Foto di Robert Spangle

Per i suoi quadri Mark si serve di un metodo simile a quello di Albert Bierstadt, un altro grandissimo pittore del passato fedele al genere, uno dei massimi esponenti. Come lui, infatti, parte da foto (nel caso di Maggiori anche video) che lui stesso scatta. Ma ciò che lo contraddistingue è che per farlo costruisce un vero e proprio “set”, utilizzando così quelle che sono le sue competenze di fotografo, videomaker e regista. Nel tempo è entrato in contatto con gruppi di veri cowboys e periodicamente, con l’aiuto del fido assistente Steven, si reca da loro per fotografarli e riprenderli mentre sono al lavoro. Ma non è tutto, perché questi vengono prima vestiti con abiti originali dell’epoca, abiti che poi saranno ripresi fedelmente anche nei quadri. Una volta costruito il set, vengono fatte le foto e da quelle foto poi si arriverà al dipinto finale. La cosa interessante è quindi vedere come il quadro sia il risultato di tante conoscenze e tanti “saperi” a livelli diversi: c’è la capacità pittorica, la fotografia, la sensibilità di regista, la conoscenza addirittura di quelli che erano i costumi (in senso anche letterale) dell’epoca. La differenza c’è eccome.

Quella stessa sera con Mark parliamo un po’, è un ottimo conversatore e, superato quello che forse appare come un briciolo di diffidenza, parliamo di interessi comuni come due ragazzini. Gli spiego quello che dovremo fare per lo shooting e poi via in Chevrolet a mangiare messicano. È un uomo a cui il proprio sogno è scoppiato tra le mani e minchia se se lo vive con passione sto sogno. “This is America, man!”. Ha un entusiasmo contagioso. Dopo cena torno a Frogtown. Il posteggio va meglio. Anzi no. Una cerveza por favor.

La mattina seguente conciliabolo di menti illuminate a colazione: io, Mark, il suo collaboratore Steven (IL ragazzo californiano per antonomasia) e Robert, il fotografo, fissiamo gli ultimi dettagli per lo shooting. Tra le decisioni più importanti che vengono prese c’è la marca del bourbon che devo comprare (forse restiamo a campeggiare nel deserto) e il fatto che Robert, per evitare rischi (it’s Meth Country, baby) forse si porterà dietro il ferro.

Poi siamo liberi e Robert mi scarrozza in giro per LA con la sua Mercedes cabrio degli anni ‘80.
Palme, sole, vento nei capelli. Vaffanculo, i clichè a volte sono bellissimi. Chiedo a Rob di portarmi all’Autry Museum of the American West, il più importante museo di storia e arte del West di Los Angeles. Beh, già che siamo in tema…

Foto di Robert Spangle

Lì mi esibisco in un’improvvisata puntata di Telemike: azzecco nome e anno di 12 modelli su 13 di pistole del vecchio west senza guardare le references. Ma il mio momento di gloria dura davvero poco. Cinque minuti dopo ci imbattiamo in una scolaresca in gita al museo e la loro guida, una simpatica signora che lavora per il museo, incrociandoci, mi indica e dice ai bambini: “E questo, bambini, è un signore che abbiamo assunto per andare in giro per il museo vestito come un vero cowboy”. Per lei è un complimento, ma io non metto più quello spolverino in pelle anni ‘70 da allora.

Il giorno dopo si scatta. Robert lascia la sua cabrio a casa mia e carichiamo il pick up. Attrezzatura fotografica, whiskey, vestiti, mappe. C’è tutto. Prima di andare via però Karen ci tiene a farmi vedere due cose. Ci apre la saracinesca del suo garage e mi spara in faccia una collezione di moto italiane anni ‘60 da urlo. Guzzi, Gilera, c’è il mare con tutti i pesci. Poi mi mostra altro. Ha una caterva di vecchi materassi con delle scritte sopra. Sono slogan politici, aforismi, massime. Mi dice che ha un account Instagram su cui pubblica foto di questi materassi immortalati un po’ ovunque, per strada, nella zona Nord-Est di Los Angeles. La pagina si chiama Mattresstagging e la descrizione è “Making trash literate one mattress at a time”. Instagrammare per credere. Devo avere una calamita per i fulminati. O loro per me.

Lasciamo Frogtown e ci si incontra con Mark e Steven che viaggiano a bordo dell’auto dell’artista. Prima tappa è il Vasquez Rocks Park, situato ad Agua Dulce, tra la regione di Clarita e Palmdale, che raggiungeremo dopo. Sabbia, rocce rosse erose dal vento, sentieri isolati. Anche se la luce non è il massimo visti i nuvoloni, è perfetto come primo set e tutto procede per il meglio. Festeggiamo con qualche sorso di bourbon. Di troppo, forse.

Procediamo verso Lancaster. Comincia la zona più desertica: baracche e baracchine, baraccopoli, roulotte e roulottopoli, tossici e ruttopoli. Welcome to Meth Country. Abbiamo un certo appetito e Steven ci dice che tornando dal suo giro di location scouting dei giorni precedenti ha incrociato un diner che sarebbe anche un’ottima location per le foto. Ci fermiamo così al Village Grille e tra sedili e divanetti di pelle unta e odori che ancora mi porto dietro, siamo letteralmente proiettati negli anni ‘50/’60.

Via verso Palmdale, comincia il deserto vero, ora il sole brucia alto. Superiamo il Four Aces, un vero e proprio movie set usato per film e servizi fotografici che noi snobbiamo in toto e ci dirigiamo verso Antelope Valley, dove Steven ricorda di aver visto una duna di sabbia molto alta. La troviamo, lasciamo la Chevrolet e ci dirigiamo con il mio pick up su fino in cima alla duna. Cambio di vestiti per Mark e altre foto. Il luogo è a dir poco desolato e nei pressi della zona, per terra, troviamo di tutto. Tra le cose meno strane, delle cartucce calibro 12. Sono quelle che si usano per i fucili a pompa, tanto per capirci. Siamo indecisi se temere di più l’arrivo della polizia che può venirci a chiedere cosa stiamo facendo e perché abbiamo abbandonato una Chevelle del ’68 sul ciglio della strada o l’arrivo di un branco di tossici. Rob scatta, io e Steven ci diamo il cambio per sorvegliare l’auto di Mark. I calciatori si danno il cinque, noi ci scambiamo la bottiglia di bourbon. Cheers, dude.

Foto di Steven Perlin

Il pomeriggio scorre veloce e ci avviciniamo al momento che più attendiamo. Durante qualsiasi servizio fotografico si scattano ormai migliaia di foto. Ma c’è sempre LA foto, quella che da sola vale tutto il lavoro e gli sbattimenti fatti e che riassume un po’ tutto il senso dello shooting, e che dipende da vari fattori quali l’outfit nel caso dei servizi di moda, la location o la luce. Nel nostro caso ciò che ci interessa è la luce. Siamo in zone desertiche, nel tardo pomeriggio abbiamo cominciato a vedere delle nuvole avvicinarsi e non aspettiamo altro che trovarci nel posto giusto al momento giusto: il tramonto, quando la luce migliore della giornata si rifletterà su quelle nuvole e piovendoci addosso ci farà sentire degli “dei dorati”, nonostante i cheeseburger e i rutti e il whiskey. Del resto sono con Robert e quei volponi di Mark e Steven sono maestri in questo. Di nuvole e luce ci campano.

E cosi ci ritroviamo sempre nei pressi di Lancaster, in una spianata infinita di fiorellini gialli. È bellissimo. Ti voglio bene Steven. L’unico piccolo edificio presente nel raggio di chilometri oltre a qualche roulotte scassata e alcune catapecchie è una piccola chiesetta poco dopo oltre la strada. Ha un aspetto familiare. La fisso. Steven mi guarda, fa un sorrisino beffardo, poi guarda gli altri e dice “Oh, yes, he doesn’t know”. Mi spiegano che ci troviamo esattamente di fronte alla chiesa dove sono state girate da Tarantino le celeberrime scene del capitolo “Two Pines Church massacre” del suo film Kill Bill. E no che non lo sapevo.

Foto di Sergio Guardì

Non c’è tempo da perdere, sta arrivando la golden hour e tutto sembra pronto per scattare le foto più importanti. Faccio indossare a Mark cappello e cappotto, ci siamo quasi ma, non so come, non so da dove (che ci sia una botola tra i fiori gialli?) spuntano due loschi individui vicino alla Chevrolet di Maggiori. Ecco, lo sapevo. La guardano da vicino, troppo, la toccano. Sneakers lerce, pantaloni cargo e canotta sudicia, è l’inconfondibile divisa del fattone locale. Si avvicinano con il pretesto di chiedere di che anno è la macchina e stronzate simili. Uno tiene la mano in tasca. Non vogliono fare conversazione. Non vedono quattro uomini ma quattro polletti da spennare. Non è che abbiano poi tutti i torti, cazzo mi avranno visto perdere quasi 5 minuti nel sistemare il bavero del cappotto di Mark per far risaltare al meglio la lana spigata in foto, non sembriamo di certo parte della fauna e della flora locale o dei temibili narcos.

Ci guardiamo tra noi sapendo cosa sta per accadere. Ed ecco che arriva John Wayne. Robert si mette tra noi e loro, con un gesto veloce tira su la camicia, fa intravedere il calcio della sua 45 e con calma serafica fa: “It’s alright guys, you don’t fuck with us, ok?”
I due simpaticoni dicono un paio di altre stronzate e si dileguano.Procediamo con lo shooting, LA foto c’è. Mark ne approfitta per fare un po’ di scatti in più alle “sue” nuvole. È fatta, torniamo a Los Angeles, finalmente. Ci siamo meritati una pizza schifosa in un posto dove la gente fa la fila per mangiarla e pagarla tantissimo. Il giorno dopo è l’ultimo. Relax. Robert mantiene una promessa fatta tempo fa. Mi porta in un’altra area isolata fuori da Los Angeles dove “legalmente” è possibile costruirsi il proprio tiro a segno all’aperto. Spariamo a vecchi televisori, cianfrusaglie, relitti. Per 10 minuti mi sento e so di essere la cosa più odiata da qualsiasi radical chic milanese che si rispetti. È bellissimo.

L’indomani si torna a casa. Ultimi cheeseburger, radio messicana, due ore di traffico, aeroporto, che paura. Non ho ancora preso le bombe per l’aereo ma il pick up lo posteggio comunque di merda. Ho cominciato parlando di Checov, finisco col comportarmi da redneck. Fanculo: “Yee haw”.

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