Giordano Bruno Guerri: “Gli italiani sono un popolo immaturo anche a causa della Chiesa” | Rolling Stone Italia
Culture

Giordano Bruno Guerri: «Gli italiani sono un popolo immaturo anche a causa della Chiesa»

Con il nuovo libro della sua 'antistoria', lo storico e scrittore ripercorre nei secoli la convivenza con il Vaticano. E da direttore del Vittoriale lancia l’allarme: «Nel 2020 persi 2 milioni di euro su 3 di fatturato»

Giordano Bruno Guerri: «Gli italiani sono un popolo immaturo anche a causa della Chiesa»

Foto di Augusto Rizza

La storia è una di quelle materie che noi, più di ogni altro popolo al mondo, trascuriamo bellamente. Ne abbiamo avuta una talmente ricca che, forse, questo ci porta a sentirci come gli antichi romani descritti in Gli italiani sotto la Chiesa e cioè dei “newyorkesi annoiati” dalla nostra opulenza. Poi ci sono le eccezioni, come quella rappresentata da Giordano Bruno Guerri: storico, scrittore, intellettuale a tutto tondo e dandy “di una sciatteria non casuale”. Solo lui, probabilmente, avrebbe potuto scrivere un libro, quello sopra citato, che va “Da San Pietro a Twitter” come riporta il sottotitolo. Quasi 800 pagine – appena uscite per La Nave di Teseo – che scorrono veloci a partire dall’avvento dei primi cristiani nell’antica Roma fino ai giorni nostri. E grazie a questo tomo, imponente ma fluido e a tratti persino ironico, capiamo meglio vizi e virtù (più i primi delle seconde) che abbiamo ereditato dalla presenza sul suolo patrio della Santa Sede.

Ma non solo, perché con lui abbiamo ripercorso anche i motivi che hanno portato gli italiani alla loro proverbiale doppia morale (a volte tripla), così come alcune questioni di attualità che sono diretta emanazione del nostro passato di convivenza con il Vaticano. Come “l’attesa dell’uomo miracoloso” incarnato in queste settimane da Mario Draghi che “non è certo da popolo maturo”, anticipata da quello “scherzo della storia” che è stato Giuseppe Conte, una figura politica tutta nuova che “finirà nel teatro delle maschere”. E ancora, il perché Papa Francesco sia tanto amato quanto odiato fino a sconfinare nel fanatismo da “un conservatorismo cattolico deprecabile”, passando per la “fiducia nella magistratura” declamata da ogni imputato più per paura che per vero rispetto, fino al “politicamente corretto” che in fondo in fondo è “il vero male del nostro tempo”.

Intanto, a tutto ciò si aggiunge una pandemia che rischia di affossare quel che di meglio ci ha lasciato la nostra storia. Il Vittoriale, che Giordano Bruno Guerri dirige, “nel 2020 ha perso 2 milioni di euro su 3 di fatturato”. E così, non ci resta che aggrapparci agli insegnamenti dei grandi che ci hanno preceduto come, appunto, Gabriele D’Annunzio: “Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza”.

Nel suo libro parte dalle origini, descrivendo i primi cristiani come fanatici che andavano contro la legge e spesso provocavano disordini. È sbagliato associarli all’estremismo islamico che tanto ci preoccupa in questi anni?
Non è perfettamente coerente il paragone, perché l’Islam è una religione aggressiva e punitiva verso gli infedeli. Il cristianesimo non si è sviluppato in questo modo. I primi cristiani venivano combattuti dai romani per la loro passività, non perché aggredissero o volessero convertire gli altri con la forza. Erano rivoluzionari pacifici.

Mentre invece i romani li descrive come dei “newyorkesi un po’ annoiati”.
Erano la massima potenza mondiale, quindi si comportavano di conseguenza. Il cristianesimo cresce in un periodo di loro decadenza, che si accompagna a una certa noia di essere così potenti.

Paragone per paragone, sembra di vedere descritti gli attuali Stati Uniti e il loro apparente declino.
I paralleli storici sono sempre azzardati quanto affascinanti, ma in questo caso direi di sì. C’è una curva nel potere, per cui si sale e a un certo punto inizia la discesa. È accaduto così per tutti gli imperi e sta accadendo anche agli Stati Uniti. Ma è solo l’inizio.

In Gli italiani sotto la Chiesa lei fa risalire certi vizi che ci caratterizzano proprio a quegli anni. In particolare un certo opportunismo, come quando ci si convertiva al cristianesimo solo in punto di morte per assicurarsi la vita eterna.
È il nocciolo del libro, a parte la constatazione ovvia che il Vaticano ha combattuto e impedito per lungo tempo il formarsi di uno stato nazionale unitario. È un danno enorme e se siamo indietro rispetto ad altri paesi come Francia e Gran Bretagna è anche per questo motivo. E l’opportunismo è dovuto alla doppia morale, visto che la Chiesa stessa ha sempre agito, semplificando, al motto di “predica bene e razzola male”. Un esempio negativo. Chiarisco all’inizio che la Chiesa ha avuto anche dei meriti enormi nell’aiuto ai poveri e ai bisognosi e nel favorire e conservare la bellezza e la cultura. Di questo va ringraziata, ma purtroppo in generale ci ha fatto vivere come Arlecchino servitore di due padroni, che poi in realtà erano tre: il potere ducale, dell’imperatore e del Papa. Barcamenarsi fra questi tre poteri richiedeva dosi tali di opportunismo, di furbizia e di spirito di sopravvivenza che ha condizionato il carattere nazionale.

Per quello dopo l’unità d’Italia per 40 anni il primo partito è stato la Democrazia cristiana e ancora oggi ci sono politici che si appellano al cuore immacolato di Maria?
A parte questi casi eclatanti, la Chiesa condiziona ancora molto la politica. La prima cosa che fa un presidente del governo è chiedere udienza al Papa. Vedremo cosa farà Draghi. È vero che viviamo in un periodo di laicizzazione, però sono fenomeni che richiedono tempi lunghissimi.

Altro aspetto interessante che mette in evidenza in questa sua “antistoria” è un certo anticlericalismo degli stessi cattolici. Da cosa deriva?
È legato alla fede in Dio, in Gesù e più spesso nei santi o nei loro rappresentanti in terra, anche se poi si capisce che spesso non sono santi. Gli stessi Papi non hanno dato un buon esempio, a partire dal periodo della “pornocrazia papale” fino a errori enormi di papi recenti comunque fatti santi.

Facendo un balzo in avanti, mi sembra sia stato piuttosto indulgente con Papa Benedetto XVI. La sua decisione di abbandonare la ritiene dettata da problemi personali o dall’impossibilità di far fronte a certi scandali che erano in corso nella Chiesa?
Quello lo definisco un capitolo di cronaca, perché la storia ha bisogno di sedimentare, di documenti e che gli episodi siano conclusi. Comunque, sulle dimissioni ci varie sono ipotesi. Quella che sia stato costretto perché accerchiato e in difficoltà, così come quella che non ce la facesse più ad andare avanti. Da uomo colto e tedesco in ogni fibra, forse si è reso conto che non riusciva più a tenere le redini di una macchina così complessa. Nel complesso, però, è stato un Papa importante che ha avviato riforme che lo stesso Francesco sta proseguendo. C’è una continuità fra i due, nonostante le apparenti differenze.

Papa Francesco ha invertito la tendenza: amatissimo da chi prima era distante dalla Chiesa e criticatissimo dai cattolici più intransigenti. Anche questo è un bel paradosso.
Perché è un Papa di rottura, quindi ha provocato una divisione. Ma ho l’impressione che venga amato da certi ambienti più per i suoi aspetti esteriori. Mentre non c’è dubbio che dia molto fastidio per un rinnovamento effettivo che sta imprimendo alla Chiesa. Sia sull’aspetto finanziario, dove sta facendo uno sforzo di chiarezza, sia sul fronte della pedofilia, dove invece ha tirato un po’ il freno. È anche vero che viene attaccato fino a sfiorare il fanatismo da chi ha a che fare con un mondo di conservatori che io trovo deprecabile. Nello stesso tempo, il futuro del cattolicesimo è in Africa e in Asia, per cui credo che lui abbia una visione molto più ampia rispetto all’Occidente, dove intendiamo la figura del Papa in modo tradizionalista, ancor di più in Italia.

Nel suo libro arriva fino a Mario Draghi, che è stato salutato come il salvatore. L’ennesimo di una lunga lista, che poi purtroppo non hanno portato i risultati sperati. Da dove nasce questo bisogno di un “uomo forte”?
Abbiamo da sempre un atteggiamento di attesa messianica del salvatore, che sia l’uomo forte, il superuomo, il santo, il miracoloso, comunque qualcuno che ci salvi dai nostri guai. Quindi con una attesa e una fiducia smisurata che provoca altrettanto odio, ferocia e cattiveria. Questo è un atteggiamento da popolo non maturo. L’attesa del salvatore è l’abbattimento del medesimo.

Un riferimento puramente casuale a Giuseppe Conte?
Conte è uno scherzo della storia. È un personaggio, senza fare considerazioni sulla persona ma sulla sua vicenda, che finirà nel teatro delle maschere. Il simbolo di qualcosa di nuovo, cioè di qualcuno che arriva al potere per caso. Quasi tirato a sorte. Ma anche di chi ha avuto l’abilità a mantenere quel potere a lungo, gestendolo persino in un modo non disastroso. Credo che avremo a che fare ancora con Conte, nonostante sia una figura davvero teatrale.

D’altronde la politica non sembra essere l’unico “teatrino”. Ricordo che lei, in tempi non sospetti, dichiarò che era in atto un “imbarbarimento della politica” riferendosi ai processi che erano stati istituiti verso Matteo Salvini. E poi è scoppiato il “caso Palamara”, con tutte le rivelazioni che ne sono conseguite… forse già era a conoscenza di qualcosa?
Non ero informato, solo che la nostra magistratura è influenzata in modo tremendo dalla politica e anche dai nostri vizi nazionali. Che sono della furbizia, la camarilla, il formare i gruppetti, insomma siamo ancora ai “furbetti del quartierino”. Come di un prete ci si aspetta che il suo operato sia “limpido”, così ce lo si aspetta dalla magistratura. In realtà nessuno ci crede, ma quando ci si sbatte il naso in modo così clamoroso ecco che arriva lo sconforto. Una delle più grandi menzogne nazionali alla quale assistiamo è l’imputato che dichiara “ho fiducia nella magistratura”. Non è vero, nessuno ce l’ha, ma lo dicono per paura della magistratura.

Nel frattempo l’Italia, con tutti i problemi che lei ha descritto, combatte la sua battaglia contro la pandemia e uno dei settori più in difficoltà è quello della cultura. Da direttore del Vittoriale degli Italiani, quali sono i maggiori problemi che ha riscontrato?
Le dico solo che il Vittoriale nel 2020 ha perso 2 milioni di euro su un fatturato complessivo di 3 milioni e 400mila euro. E questi primi due mesi del 2021, aprendo il 2 febbraio con molte limitazioni, ci hanno portato dai 20mila visitatori dell’anno scorso ai 2mila attuali.

Cosa chiede alle istituzioni?
Intanto è abbastanza stupefacente il cambiamento di visione che questa pandemia ha generato sul mondo della cultura. Ci siamo sempre lamentati che gli italiani non vanno a teatro, nei musei, al cinema, in biblioteca, ed è vero, solo che da un giorno all’altro sono diventati luoghi affollatissimi, come un qualsiasi aperitivo. È un assoluto controsenso, perché sono posti, come le scuole, dove gli ingressi possono essere regolamentati, vigilati e le distanze mantenute. C’è questa scissione mentale sorprendete. Noi per esempio non possiamo aprire il sabato e la domenica, le sembra normale?

Per cui, più che aiuti economici avreste bisogno di maggiore libertà di manovra?
Io ho privatizzato il Vittoriale, come chiedevano i governi a tutte le Fondazioni dagli inizi degli anni ’90 in poi. Così facendo ho rinunciato al denaro pubblico in cambio di una maggiore agilità di gestione. Ci sostentiamo con i biglietti che vendiamo e le nostre iniziative di noleggio. Per questo, non voglio chiedere soldi, ma che vengano estesi certi aspetti sì. Come la cassa integrazione che sarebbe necessario duri più a lungo di marzo, che si possa riaprire in sicurezza anche il sabato e la domenica e che vengano ridotte le tasse come Imu e Tasi. I musei sono delle aziende.

E il Vittoriale è una azienda particolare, dove ho letto che lei sente ancora la presenza del Vate circolare fra le stanze.
Hanno un po’ enfatizzato questa mia dichiarazione. Non mi aspetto di incontrarlo, volevo dire che si sente la sua presenza.

Ma oggi esiste una figura come quella di Gabriele D’Annunzio?
Magari ci fosse! Sono figure che capitano ogni qualche secolo, quindi sperare di averne un’altra a distanza di cento anni è difficile. Lui è stato straordinario perché era un genio rinascimentale piombato fra ‘800 e ‘900. Un uomo che fa molte cose diverse, un poeta, un guerriero, un amante, un esteta, un innovatore, un modernizzatore e che porta avanti tutto al massimo grado. Sono figure, purtroppo, molto rare.

Qual è il più grande insegnamento che ha tratto da D’Annunzio?
Posso riassumerlo in due frasi, che non sono le più famose. “Non chi più soffre ma chi più gode conosce” che è una profondissima verità e si riallaccia a quello che dicevamo prima della Chiesa perché siamo cresciuti con una educazione sostanzialmente penitenziale. Non solo noi come popolo, ma anche come individui. La sofferenza e la rinuncia visti come dei meriti, mentre invece il godimento è la ricchezza. Non solo inteso nel sesso, ma nel piacere della bellezza, della natura, della libertà. Contro la cultura del cilicio, tanto per intenderci. L’altra frase è questa: “Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza”. È difficilissimo, però è necessario sforzarsi di essere liberi soprattutto nel pensiero.

Non è facile in tempi di politicamente corretto.
Non mi parli di questo, perché il politicamente corretto è il vero male della nostra epoca. L’appiattimento sulla convenzione è una cosa tremenda.

Oggi per esempio basta una parola per essere epurati dalla Rai e non solo.
Lo definirei “puritanesimo”, questa è la parola giusta. Si parte da una idea sostanzialmente esatta e poi la si persegue esasperandola agli eccessi più smisurati. È una forma di pensiero talebana. Il politicamente corretto equivale al sanitariamente corretto, per cui ci troviamo con regole come quelle di chiudere i musei al sabato e alla domenica, che sono un paradosso di quel che si vuole ottenere. Non si salveranno le donne impedendo di dire a una “gallina”, non si salveranno i neri non definendoli “negri”, ma lo si accetta per convenzione e questo porta sempre a un blocco mentale, a chiusure artificiali. Ma ciò che si impedisce di dire alla gente in pubblico poi lo pensa nell’intimo.

Lei è considerato un dandy. Si sente di aderire a questa definizione?
Da qualche tempo mi sento nel dandysmo. Qualcuno mi ha definito “di una sciatteria non casuale”. Io sono volutamente sciatto, perché ho scoperto in seguito che è una ricerca mia personale di eleganza, per essere non convenzionale.

E da qualche anno ha scoperto quella che ha chiamato la “monogamia felice”. Come l’ha convinta sua moglie?
Ho trovato una donna straordinaria come Paola Veneto, che ha doti tali per cui non vale assolutamente la pena spendersi in cose minori.

Ai suoi figli cosa vorrebbe insegnare?
Riprenderei gli insegnamenti di D’annunzio: libertà e gioia.