Tira più un pelo di fashion che un carro di esports | Rolling Stone Italia
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Tira più un pelo di fashion che un carro di esports

Grazie alla magica regola 34 di Internet, una saga nata da una scommessa può permettersi di rinunciare agli esports

Tira più un pelo di fashion che un carro di esports

Con un po’ di impegno e i giusti investimenti, anche Dead or Alive potrebbe lanciarsi nello sfavillante mondo degli esports. Ma ne vale la pena?

Il 2020 sarà un anno importante per gli esports. Dopo una crescita esplosiva che ha finalmente coinvolto in prima persona anche i più importanti organi istituzionali italiani, capiremo se il settore è in grado di fiorire in un paese in cui la politicizzazione e gli investimenti poco trasparenti sono all’ordine del giorno. Guardando oltre i confini italiani, verso paesi che sul fronte esportivo ci hanno staccato di diverse lunghezze, stiamo assistendo a un’importante fase di consolidamento che attira sponsor sempre più ricchi e variegati. Non è raro, infatti, trovare leghe e campionati supportati da realtà commerciali di sicuro impatto e perfino da investitori improbabili come i colossi degli alcolici. Più il tempo passa, più gli esports crescono e fanno gola ai publisher. Ma siamo sicuri che quella delle competizioni virtuali sia la strada migliore per trasformare il proprio gioco in una gallina dalle uova d’oro? Può un titolo competitivo sopravvivere senza un campionato che lo metta costantemente al centro dell’attenzione? La risposta non è poi così scontata, come dimostra lo strano caso di Dead or Alive.

Sexy Virtua Fighter

Nel lontano 1996, quando Tecmo era a un passo dalla bancarotta, un giovane Tomonobu Itagaki propose all’azienda di sviluppare un gioco di combattimento 3d chiamato Dead or Alive. Nella testa di Itagaki, una versione sensuale dell’eccellente Virtua Fighter 2 di SEGA avrebbe aiutato l’azienda a risollevarsi, attirando al tempo stesso una folta schiera di fan dalle mani callose. Come ci racconta la storia, l’operazione “Vivo o morto” si è rivelata un successo e la saga di arti marziali sviluppata dal Team Ninja è giunta fino al 2020 raccogliendo ottimi risultati. Nonostante l’interessante lavoro di design dietro a ogni capitolo della serie, che di fatto ha contribuito all’evoluzione del genere dei picchiaduro a tre dimensioni, il franchise di Dead or Alive non è mai riuscito ad allontanarsi dall’elemento che ne ha decretato il successo iniziale: l’erotismo. Il torneo di arti marziali di Itagaki è caratterizzato da lottatrici i cui costumi faticano a contenere le forme sballonzolanti, in un trionfo di ammiccamenti più o meno mortificanti. Poco importa se il sistema di combattimento può essere apprezzato a vari livelli, o se le arene interattive aggiungono a ogni partita un ulteriore livello strategico. Dead or Alive è rimasto “il picchiaduro con le tettone”, anche a causa dei gusti estremi del padre del progetto.

Tomonobu Itagaki ha dato alla serie di Dead or Alive un’impronta ben precisa. Dopo tanti anni, per Tecmo Koei sarà difficile abbassare i toni.

La deriva soft porn

Quando un’azienda fatica a contenere l’esuberanza dei propri creativi, il rischio che le cose degenerino è sempre alto. Dopo aver salvato Tecmo dal fallimento, le azioni di Itagaki all’interno della compagnia sono schizzate alle stelle e il game designer ha avuto carta bianca per la realizzazione di molti altri progetti. Da questa libertà di movimento sono nati progetti eccellenti come il reboot di Ninja Gaiden sulla prima Xbox, ma anche follie fuori di testa come Dead or Alive Xtreme, dove alla passione di Itagaki per le donne si affiancava il suo amore per il gioco d’azzardo. Nonostante le meccaniche ludiche ridotte all’osso il titolo riuscì a ritagliarsi il proprio spazio sul mercato, in gran parte grazie al supporto dei fan storici che avevano a cuore la natura ammiccante della saga.

Con Dead or Alive Xtreme la serie Tecmo Koei ha toccato il più alto punto di mercificazione delle sue lottatrici, arrivando perfino a eliminare i personaggi maschili.

Modello numero 4: Giuditta

Anni dopo, con Dead or Alive 5, il reparto marketing di Tecmo Koei ha scoperto la gallina dalle uova d’oro, mettendo in pratica una strategia molto aggressiva legata ai DLC e vendendo a cifre esorbitanti innumerevoli pacchetti di costumi. Non contenta, la compagnia ha impreziosito il tutto con collaborazioni eccellenti legate al mondo dell’animazione, andando così a pescare anche da un ricco bacino d’utenza trasversale. In pochi mesi, un semplice gioco di combattimento si è trasformato in una passerella su cui far sfilare personaggi virtuali con abiti più o meno laidi. Questa strategia a lungo termine ha riempito le casse di Koei Tecmo, mettendo in moto la produzione di un sesto capitolo con cui si voleva tentare l’impresa impossibile: rinunciare alla sessualizzazione estrema dei personaggi.

Con Dead or Alive 5 Last Round Tecmo Koei ha spinto l’acceleratore sui DLC e sulle collaborazioni furbe, facendo soldi a palate.

Il meme dei “core values”

Quando anni fa gli esports hanno mosso i primi passi nei giochi di combattimento, Tecmo Koei ha sondato il terreno creando il campionato di Dead or Alive 5, finendo però schiacciata dalla supremazia di Capcom e Bandai Namco. Dopo l’annuncio di Dead or Alive 6, in molti si aspettavano un progetto cucito attorno agli sport elettronici e le ripetute anteprime durante i più importanti eventi esportivi lasciavano intendere che la compagnia giapponese volesse tornare sul ring con gli altri picchiaduro. Quando la presentazione all’edizione 2019 dell’EVO Japan è stata interrotta a causa dei contenuti troppo espliciti, però, è stato chiaro a tutti che sul palcoscenico patinato e ipocrita degli esports non c’era posto per la creatura del Team Ninja. Ogni volta che Joe Cuellar ripeteva che i contenuti di Dead or Alive 6 non rappresentavano i “core values” dell’EVO Japan, di cui era responsabile, piantava un chiodo sulla bara del titolo Tecmo Koei. La frittata era fatta. Nonostante l’allontanamento di Tomonobu Itagaki, il Team Ninja non era riuscito a riscattare l’immagine del proprio peso massimo e a strappargli di dosso l’etichetta di “gioco per guardoni”. In pochi minuti, l’intera campagna pre-lancio fatta di buoni propositi, di proporzioni realistiche e di costumi poco scollati era naufragata senza possibilità di ripresa.

All’EVO Japan 2019 Dead or Alive 6 è stato presentato seguendo i canoni tradizionali della TV giapponese. Con quelle premesse, era lecito aspettarsi una presentazione “sopra le righe”.

Il ritorno alle origini

Può, dunque, un gioco competitivo sopravvivere senza il supporto degli esports? Normalmente sarebbe impossibile, ma non per Dead or Alive. Anche in questo caso, Tecmo Koei deve ringraziare l’ormai dimenticato Itagaki e la sua scommessa di puntare sulla libido umana. L’opera di sessualizzazione estrema portata avanti dal borioso game designer fino al suo allontanamento dalla compagnia, infatti, sarà anche costato a Kasumi e al resto del cast la possibilità di competere su Twitch, ma ha fornito all’azienda giapponese tutto il necessario per ottenere soldi e supporto dai propri utenti. Perso il treno degli esports, è bastato tornare alla politica dei costumi succinti, con Season Pass da 90 euro, per replicare l’enorme successo ottenuto con Dead or Alive 5. Senza l’ansia per le lamentele dei pro-player sul bilanciamento. Senza dover praticare censure ipocrite ai propri personaggi storici. Con buona pace di Joe Cuellar e dei “core values” della FGC.