La vita degli sviluppatori di videogame fa schifo | Rolling Stone Italia
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La vita degli sviluppatori di videogame fa schifo

Stipendi inadeguati, precarietà e orari impossibili dipingono un quadro abbastanza deprimente

La vita degli sviluppatori di videogame fa schifo

Il lato oscuro dello sviluppo di videogiochi è un problema sempre più difficile da ignorare con l’aumentare delle produzioni e del costo (umano) delle stesse.

Sembrerebbe il lavoro dei sogni, quello dello sviluppatore di videogiochi: puoi coltivare la tua passione, lavorare in un settore pieno di giovani che non sembra conoscere crisi, e contribuire alla crescita di quella che in pochi anni è diventata la più grande industria dell’intrattenimento mondiale. Una meraviglia? Ma quando mai.
Sviluppare videogiochi oggi, che sia alle dipendenze di un’azienda multimilionaria o di una realtà di medie dimensioni, il più delle volte è un incubo a occhi aperti, e anche mettersi in proprio per fare le cose in casa non è certo una passeggiata, come è stato ben documentato nel famoso “Indie Game: The Movie” uscito nel 2012.
Negli ultimi anni le condizioni di lavoro impossibili che si trovano ad affrontare gli sviluppatori sono finite più volte sotto i riflettori, ma ad attirare l’attenzione dei media sono soprattutto le notizie relative ai licenziamenti di massa (sempre troppo frequenti) o le testimonianze dei periodi sfiancanti di crunch time ai quali ogni azienda sottopone i propri dipendenti a ridosso delle scadenze dei progetti. E se il precariato e le ore di lavoro straordinarie – fa quasi ridere chiamarle tali, visto che nel settore di fatto rappresentano la norma – ci danno la misura dei sacrifici che l’industria esige, non si parla quasi mai del valore economico riconosciuto a queste fatiche.
A mettere il dito nella piaga ci ha pensato la rivista Digital Trends, che è andata a intervistare alcuni ex sviluppatori di aziende che hanno sede in città degli Stati Uniti dove il costo della vita è più alto della media. La realtà che emerge ci parla di salari ai limiti del sostentamento individuale quando non del tutto inadeguati a far fronte alle esigenze quotidiane, com’è nel caso degli studenti ancora oberati dai debiti del college.

Settimane lavorative di 70 ore sarebbero il pane quotidiano per gli sviluppatori di NetherRealm. Ma tanto poi ci sono le foto di gruppo sorridenti…

Sweet Home Chicago

Sei un ventenne fresco di laurea, o che magari sta finendo di studiare, e il tuo sogno è guadagnarti da vivere grazie al tuo talento per il disegno. La tua prima opportunità si presenta nella forma di uno stage retribuito a 12 dollari l’ora nella città più grande e più bella dell’Illinois, Chicago. Non male per un impiego part time che ti vale anche come formazione. Il tirocinio però dura solo poche settimane, e una volta terminato si va alla ricerca del lavoro vero. Bussi alla porta, che si trova lì nei paraggi, di NetherRealm Studios, quelli di Warner Bros., e l’offerta che ti propongono è un contratto di nove mesi per lavorare su Injustice 2. Be’, come inizio ci può stare. Mica ti aspettavi un contratto a tempo indeterminato (a proposito, esistono ancora?). In ogni caso, per ora ti va bene tutto, tanto sei giovane. E la paga? Undici dollari l’ora, addirittura uno in meno rispetto al tirocinio. Ma è normale? Certo, e ricordati che qui devi lavorare full time.
È la storia di Becca Hallstedt e di come infine abbia accettato quel primo lavoro vistosamente sottopagato perché “NetherRealm Studios è l’unica azienda AAA di Chicago” e questo impiego “aprirà a nuove opportunità”, si diceva. D’altronde “mi farà curriculum” è il mantra generazionale dei Millennial. NetherRealm come tutti gli altri lo sa bene, e questo gli permette di imbarcare neolaureati pagandoli con stipendi da fame. 

La sede di Blizzard Entertainment a Irvine, California.

E poi, quando le nuove opportunità arrivano si chiamano Blizzard e un contratto come associate artist su World of Warcraft. La paga è di 25 dollari l’ora (mica male!) e la sede di lavoro nella ridente Irvine, California. Ma l’entusiasmo comincia a scemare quando Hallstedt realizza che l’affitto mensile di una stanza – in quella città a due passi dalla celebre Orange County dei telefilm, tutta surf, party in piscina e adolescenti ricchi depressi – costa 1800 dollari, e che non basteranno tutti i benefit e i bonus aziendali del mondo, al netto delle tasse, per sostenere i costi sproporzionati della vita in quel privilegiato angolo d’America. Per non morire d’inedia e di depressione, Hallstedt lascia infine Irvine e tutte le persone meravigliose e appassionate che ha conosciuto sulla sua strada e accetta un colloquio con Telltale Games. L’azienda, famosa per i suoi morti viventi (non parliamo dei dipendenti in questo caso, ma della serie su The Walking Dead), subito dimostra grande interesse per il talento dell’artista e avanza la sua proposta: 50 mila dollari l’anno per vivere a San Francisco, la seconda città più cara al mondo dove in media per pagarti una stanza devi sborsare 4.000 dollari al mese. “Quella compagnia meritava di bruciare anche solo per come ha trattato i migliori della nostra industria – si sfoga Hallstedt – I migliori talenti nel mondo dei videogiochi hanno letteralmente attraversato quella soglia ogni giorno, e ancora si stanno leccando le ferite. Vaffanculo Telltale”.

Telltale Games ha dichiarato bancarotta nel 2018. Negli ultimi anni i dipendenti avevano denunciato uno stato di “crunch time perpetuo”.

Qualcosa si muove

Naturalmente quello di cui si è parlato non rappresenta un caso isolato, ma la manifestazione di un grave disagio di un settore i cui numeri fanno ancora più imbarazzo se si pensa che, a parità di ruoli, le stesse figure professionali arrivano a essere pagate anche tre volte tanto altrove. Sempre in America, un lead producer che ha preferito rimanere anonimo nella sua intervista, ha raccontato di essere passato dai 60 mila dollari annuali che guadagnava lavorando per una sussidiaria di Tencent Games (il colosso dei videogiochi cinese), alla bellezza di 175 mila per il medesimo incarico in una multinazionale dell’industria alimentare.  
L’associazione no-profit Take This, che si occupa da anni dei temi che riguardano la salute mentale nel mondo dei videogiochi, solo pochi giorni fa ha pubblicato una ricerca dove indaga i problemi di salute ai quali vanno incontro gli sviluppatori nel proprio lavoro: dalle pratiche di crunch selvaggio, alle molestie subite sul posto di lavoro e poi su internet da parte di un pubblico sempre più esigente e rumoroso (quando non addirittura pericoloso), alla mancanza di inclusione e diversità che affligge quasi ogni realtà del settore. Di queste difficoltà tutti sono a conoscenza, ma nessuno alla fine ne parla perché la paura del licenziamento sempre in agguato è un deterrente micidiale contro qualsiasi rimostranza. Per questo sono nate realtà come Game Workers Unite e anche la politica sembra essersi accorta che qualcosa non va dietro le quinte dello scintillante mondo dei videogiochi.
In molti ricorderanno lo sciopero del sindacato degli sceneggiatori statunitensi, che nel 2008 mise inginocchio per 14 settimane l’intera industria televisiva del paese. Proviamo solo a immaginare come cambierebbero in meglio le loro condizioni, se gli sviluppatori finalmente avessero il diritto e il potere di fare lo stesso.