God of War, intervista al creatore: «I videogame devono emozionare» | Rolling Stone Italia
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God of War, intervista al creatore: «I videogame devono emozionare»

Anche gli eroi crescono. Parla Cory Barlog, il creatore di uno dei giochi più attesi dell'anno: «Siamo finalmente riusciti a dare umanità ai personaggi»

God of War, intervista al creatore: «I videogame devono emozionare»

Che fosse visivamente splendido, lo si era capito fin dal primo trailer. Ma nessuno, tranne i pochi che avevano provato in prima persona il nuovo God of War, appena pubblicato da Sony, potevano sapere che fosse anche così riuscito – la somma di tante ottime idee, non tutte originali a dire il vero, che grazie a una direzione artistica perfetta sono diventate un capolavoro. Non era facile reinventare la popolare e acclamata saga di Kratos – l’iracondo semidio spartano che ne è protagonista –, restando fedeli allo spirito del franchise. Invece quelli di Santa Monica Studio sono riusciti nell’impresa di fare contenti sia i fan più agguerriti, sia i gamer che oggi cercano una storia che riesca a toccare anche cervello e sentimenti.

Cory Barlog, il “papà” del gioco, racconta com’è stato possibile: «Ci sono stati momenti, durante lo sviluppo, in cui abbiamo sospettato: “Oddio, forse ci siamo spinti troppo in là rispetto all’originale!”. Ma è stato utile, perché questo pensiero ci riportava coi piedi per terra, ci aiutava a non tradire i valori della serie», dice.
God of War sembra avere imparato dai migliori titoli degli ultimi anni, da The Last of Us, per i due protagonisti – un adulto e un ragazzino –, a Horizon Zero Dawn, per l’incredibile mondo selvaggio e una dinamica di combattimento estremamente appagante.

Cory Barlog, creative director del nuovo ‘God of War’

«Se devo indicare un titolo preferisco citare The Witcher 3» commenta Barlog, «per la vastità e la capacità di creare personaggi reali e interessanti. E Detroit: Become Human, per la sua incredibile complessità narrativa». In God of War sono evidenti anche i riferimenti a blockbuster pop come le serie tv Vikings o Game of Thrones, che hanno riportato il Nord e la sua mitologia al centro della coolness: «All’inizio dello sviluppo, i designer mi chiedevano quali riferimenti dovessero cercare. Ho detto loro “qualunque cosa, tranne Vikings”, perché sarebbe stato troppo semplice procedere in quel modo. Volevo che questo mondo apparisse nuovo e originale. L’influenza principale per God of War, però, rimane La strada, il romanzo di Cormac McCarthy, per il rapporto tra un padre e un figlio in un mondo ostile. Ma anche i grandi film fantasy di quando ero bambino, come Legend, Labirynth o Ladyhawk, per il modo in cui sapevano creare mondi al tempo stesso inventati ed estremamente realistici».

Un gioco come God of War, così dark e adulto, è un ottimo esempio dell’evoluzione dell’industria dei videogame, il cui pubblico è in costante espansione: «Oggi i giochi più popolari, per cui la gente è disposta a spendere soldi, sono quelli che non offrono soltanto divertimento, ma emozioni. Era successo anche per il cinema: all’inizio si facevano film per il gusto di fare film, per sfruttare il prodigio tecnico, poi si è capito che si potevano anche raccontare storie. Con God of War siamo finalmente riusciti a dare umanità ai personaggi, in modo che i giocatori siano interessati al loro destino. Questo, per me, è quello che oggi fa di un videogame un prodotto culturale maturo».