Death Stranding: un’analisi cazzuta del nuovo trailer | Rolling Stone Italia
Gaming

Death Stranding: un’analisi cazzuta del nuovo trailer

Abbiamo analizzato con attenzione il trailer del nuovo videogame di Hideo Kojima, scoprendo un sacco di nuove informazioni

Death Stranding: un’analisi cazzuta del nuovo trailer

Fino a qualche tempo fa Norman Reedus era il primo a dire di non avere la più pallida idea di cosa succedesse nel gioco!

Se non credete che Hideo Kojima sia un genio a tutto tondo, dovete almeno riconoscergli è che un genio del marketing. Per quasi 24 ore è riuscito a tenere sintonizzate decine di migliaia di persone sul canale Twitch di Sony a fissare delle impronte di mani che, con una lentezza esasperante, frammento dopo frammento hanno spazzato via la coltre nera che oscurava il nuovo trailer del gioco.
Un altro merito che a Kojima va senza dubbio accreditato è il coraggio. Che ci vuole a essere coraggiosi – direte voi – quando hai un seguito di questo tipo? Ci vuole tanto, vi rispondiamo noi. Quando si parla di videogiochi non è facile pubblicare un video di quasi dieci minuti facendo leva principalmente sulle suggestioni visive e su una tematica di fondo, piuttosto che sull’azione. Questo è un atteggiamento che ti aspetti dal cinema, o al massimo da qualche sofisticata produzione indipendente. Non è facile far presa sul grande pubblico offrendo, a ogni occasione, sempre più domande che risposte. Se non ci credete, chiedetelo a David Lynch.

Osservare senza pretendere di capire

Cerchiamo per un attimo di non cedere alla tentazione di voler capire tutto. I videogiochi, che ci abituano da sempre a ‘spiegoni’ di questo tipo, sono tremendamente colpevoli in questo senso. Se Death Stranding ci è sembrato fin dal primo brevissimo trailer così intrigante è perché da una parte stimola la nostra curiosità, dall’altra porta la sospensione dell’incredulità a livelli che neanche Metal Gear Solid aveva mai osato. C’erano infatti comunque dei riferimenti concreti a cui aggrapparsi nella saga di Snake: un periodo storico identificabile e una rappresentazione della guerra tutto sommato familiare. Ma qui? Persone che vanno in giro portandosi dietro dei feti umani (i cosiddetti “Bridge babies” o neonati-ponte); cadaveri che risorgono dal petrolio; una strana di dimensione alternativa dove imperversa un conflitto armato e si avverte il dominio incontrastato della morte. È evidente che, persino in questa fase, a pochi mesi ormai dall’uscita del gioco, Kojima non stia cercando di spiegarci il perché di quello che vediamo (cosa ha ridotto il mondo in questo stato? Come si spiega quello che sta accadendo?) ma stia cercando piuttosto di suggerirci un’idea di fondo, un sentimento che si percepisce anche nel gameplay.

Un protagonista senza speranze e per niente convinto della sua missione non capita tutti i giorni nel mondo dei videogiochi.

Il rifiuto della violenza

Un walking simulator in un mondo aperto, oppure un simulatore di pony express. Per anni ci siamo interrogati su quale tipo di gameplay ci avrebbe offerto Death Stranding, arrivando anche alle ipotesi più bizzarre. E questo perché, diciamoci la verità, non siamo più abituati a vedere un titolo di questa portata dove non si passi la maggior parte del tempo a sparare, e questo ci ha lasciato in qualche modo spaesati. Adesso invece il modo in cui il gioco declina la violenza ci appare molto più comprensibile. Nell’ultimo trailer vediamo chiaramente l’alternarsi di due piani di esistenza differenti: uno più ‘reale’, con un ecosistema ancora in piedi e panorami familiari; l’altro che ricorda una dimensione infernale, perennemente in guerra e popolata di fantasmi. La possibilità di andare in giro con i fucili spianati appartiene solo a questa dimensione, stando al trailer, mentre nel mondo reale vediamo Sam Porter Bridges (il protagonista del gioco interpretato da Norman Reedus) che cerca piuttosto di difendersi da un gruppo di aggressori ricorrendo a ogni mezzo: calci, pugni e persino la valigetta che si porta dietro. È un uomo in pericolo, non un soldato di professione. Kojima, d’altra parte, è colui che con la serie di Metal Gear ha provato per trent’anni a scrivere un gioco che fosse contro la guerra (parole sue, anche se possiamo interrogarci se ci sia poi riuscito o meno) e questa sua vocazione “pacifista” si intravede anche nella descrizione di Death Stranding affiorata in queste ore: “Scegli attentamente come combattere perché uccidere il tuo nemico non è quasi mai la soluzione – e ogni morte porta con sé delle conseguenze.”

Nel trailer vediamo Cliff anche in una veste più umana oltre a quella del militare evoca-zombie di sempre. Segno che esiste un ‘prima’ e un ‘dopo’ per questo personaggio nel gioco.

L’upside-down

Se ci soffermiamo ancora sul trailer ci rendiamo conto che le conseguenze di cui si parla sembrano abbastanza intuibili. L’upside-down del gioco si alimenta di morte ed è popolato di cadaveri che ci appaiono però più che mai attaccati alla vita. Se Sam muore, si ritrova in questo terribile Sottosopra e deve trovare un modo per tornare nel mondo dei vivi (probabilmente servendosi del feto che porta sempre con sé, aggiungiamo noi). È lecito dunque pensare che ogni essere umano ucciso nel gioco vada a popolare quelle schiere di dannati, e che una delle risorse di Cliff, l’antagonista impersonato da Mads Mikkelsen, sia proprio quella di evocare questi morti a proprio vantaggio. Più uccidi, più ti metti in pericolo. Se fosse davvero così, ci troveremmo davvero di fronte a qualcosa di unico.

Il peso dell’equipaggiamento di Sam rallenterà considerevolmente gli spostamenti a piedi, per questo la moto sarà più preziosa che mai.

Ricostruire i ponti

C’è poi tutta la questione dei legami umani che sono andati perduti, della necessità di riattivare le connessioni tra gli individui, i sistemi sociali, le diverse zone spopolate nel mondo. Sam se ne va in giro con la sua attrezzatura a metà strada tra quella di un alpinista e un tecnico delle telecomunicazioni: ha una scala per superare i dislivelli del terreno e corda e picchetti per calarsi nei crepacci. Può usare una moto per spostarsi più velocemente e l’estensione di questa capacità esplorativa ci viene probabilmente indicata proprio nelle ultime parole del trailer pronunciate da Mikkelsen: “Potrai esplorare il mondo per intero. Potrai andare ovunque tu voglia… persino sulla Luna”. Quest’ultima possibilità, quella di visitare il nostro bel satellite, era stata già ipotizzata dai fan sulla base degli scorsi trailer e ora possiamo quasi dire che sia stata confermata del tutto.

Amelie, il personaggio nella foto, è interpretato da Lindsay Wagner. Il compito di Sam è ‘andare a ovest’ per terminare quello che lei ha iniziato.

L’isolamento sociale non è fantascienza

Tutto il gioco è incentrato sull’idea di dover ‘ricostruire i ponti’ per un’umanità che ha perso la capacità di comunicare. Il tema non è solo un bello spunto per una storia di fantascienza, ma un problema più che mai attuale e, che soprattutto in Giappone, patria di Hideo Kojima, ha assunto le forme di una vera e propria emergenza sociale (celebre è il fenomeno dei cosiddetti “hikikomori”, ragazzi che si rinchiudono dentro casa rifiutando ogni contatto col mondo esterno). In un’epoca in cui siamo tutti costantemente connessi e la distanza comunicativa è stata completamente azzerata, il paradosso è che in molti lamentano il fatto di sentirsi sempre più soli. “Ricoprire il mondo di cavi non ha messo fine alla guerra e alle sofferenze”, dice Sam in un passaggio del trailer, quasi a volerci parlare del nostro presente, dove essere connessi a livello tecnologico non significa necessariamente esserlo anche sul piano emotivo. Forse per questo il nostro protagonista ci sembra stanco, triste e sfiduciato nei confronti della propria missione. Dall’altra parte invece abbiamo i BT di Cliff (Beached Things, o esseri spiaggiati) che sembrano, al contrario, in perfetta sintonia perché parlano un linguaggio tristemente comune: quello dell’odio. Sono gli spettri di una guerra che continua a lasciare la propria impronta nel mondo, lo specchio di una violenza che non si è spenta in un’eco del passato ma è persino in grado di rievocare i propri soldati dall’aldilà. Un conflitto che neanche la morte è in grado di arrestare.
Proprio per questo, pur rimanendo a prima vista un gioco straniante e apparentemente visionario, scommettiamo che Death Stranding sia molto più vicino alla nostra realtà di quanto non crediamo.