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Ci siamo infilati nella festa del cinema in Iran ed è stata una sorpresa

Da più di 30 anni, a Teheran, il cinema di regime si celebra con il Fajr film festival. Ma quest'anno non è andata così. Perché qualcosa si muove. Si chiama New Wave.
Il Fajr International Film Festival si tiene a Teheran, Iran, da 33 anni. Foto: Mohammad Hassanzadeh

Il Fajr International Film Festival si tiene a Teheran, Iran, da 33 anni. Foto: Mohammad Hassanzadeh

Dopo un paio di giorni di permanenza a Teheran il corpo si adatta alle alte temperature e il naso smette di sanguinare per via dell’aria secca e dello smog. La mia interprete si chiama Mahboubeh, ha 33 anni ed è single. Come molte ragazze, vive da sola nella capitale iraniana da quando ha iniziato l’università. La sua famiglia è del nord, sul mar Caspio, in un posto immerso nella foresta «dove si mangia meglio», dice. Cerco di immaginare il colore dei suoi capelli, nascosti sotto l’hijab. Ha gli occhi neri, profondi, e guarda con curiosità i miei azzurri: «Molte ragazze qui si mettono le lenti colorate, per averli». Mahboubeh non ha mai messo piede fuori dai confini iraniani. Quando l’ho vista per la prima volta trattare con un tassista il prezzo della corsa ho capito che si tratta di una questione economica, non di opportunità. Durante l’anno Mahboubeh ha un buon posto di lavoro: traduce dall’inglese le notizie che arrivano a Irib, la tv di stato iraniana. Questa settimana, però, il suo compito è accompagnare gli ospiti stranieri del Festival internazionale del cinema, il Fajr.

Tra di loro la chiamano “new wave”. È quella del nuovo cinema della dissidenza.

Tutti gli anni, da 33 anni, il ministro della Cultura di Teheran organizza un premio dedicato alla vittoria («Fajr, in farsi, significa vittoria», mi dice Mahboubeh, cercando inutilmente di correggermi sulla pronuncia). C’è un Fajr per la musica, uno per il teatro, e uno per il cinema. Si celebra durante la settimana di febbraio, quella della rivoluzione del ’79. Quest’anno però, qualcuno ha voluto rivoluzionare il Fajr film festival, e per la prima volta la sezione internazionale è stata posticipata rispetto a quella nazionale. Del resto è un periodo di cambiamenti, a Teheran. La chiamano diplomazia della cultura. E 300 ospiti stranieri al Fajr film festival non si erano mai visti prima. Guardo l’enorme cartellone che pubblicizza l’evento. «È una fenice, vero?», domando a Mahboubeh. «No, è un simurgh». Mi racconta la storia della tradizione persiana, dei trenta animali alati che riuscirono a superare sette livelli prima di trovare l’amore di Dio e oggi sono il simbolo della diplomazia della cultura. Per evitare di fare a piedi il percorso tra l’hotel Esteghlal e il Mellat cinema complex, dove si svolge il Fajr, l’organizzazione ha messo a disposizione comodi bus. E fa un po’ effetto Arca di Noè, sedersi fra un ragazzo del Busan film festival coreano, una critica cinematografica marocchina, una distributrice greca, un giornalista kazako, un’americana del cinema di Seattle e la donna che sceglie cosa guarderanno alla tv di stato i suoi concittadini slovacchi.

Dal Fajr International Film Festival. Foto: Hamed Malekpour

Ci vuole mezz’ora per fare poco più di cinque chilometri, nel traffico folle di Teheran. Andando a piedi, invece, si cammina su Valiasr street (l’arteria lunga 18 chilometri che divide esattamente a metà la città, da nord a sud) e si attraversa il parco Mellat, un gioiello della tradizione dei giardini iraniani. Al Mellat cinema complex sventolano le bandiere del mondo, per la prima volta anche quella americana. Incontro Ilaria alla cena di gala organizzata a metà settimana dal Fajr, nella lunga coda che divide i nostri piatti dal kebab iraniano (aspettare è una delle cose che si fa di più, a Teheran. Ma anche a quello, come al traffico, ci si abitua). Ilaria Gambarelli ha 35 anni, è di Genova ma vive a Siviglia. E’ una regista, e dirige una piccola casa di produzione, la Aretusa Film. Ma soprattutto è una delle studentesse più promettenti del regista iraniano Abbas Kiarostami. La direzione della diplomazia della cultura, che è uno dei cardini riformatori della politica del presidente iraniano Rohani, si intuisce chiaramente durante la cerimonia d’apertura del Fajr festival. Nessuno sapeva della presenza di Kiarostami. Il regista, che per la verità ha avuto molto più popolarità fuori che dentro l’Iran, si è identificato nel ruolo di dissidente esule “senza mai esserlo fino in fondo”, sussurrano i critici. Nel 2010 lasciò Teheran, la sua città d’origine, e tutti i suoi studenti in polemica con il governo di Mahmoud Ahmadinejad, che a suo parere “non ama il cinema”. Kiarostami si riferiva al film Copia Conforme, girato in Toscana e con Juliette Binoche protagonista, censurato dalla falce di Teheran (e per la verità non indirizzato a un pubblico iraniano, visto che è stato tradotto in inglese, francese e italiano, ma non in farsi). Il Fajr film festival, la scorsa settimana, si è aperto con un discorso a ruota libera di Kiarostami, sul cinema e sul senso dell’insegnamento. Poi è stato proiettato per la prima volta Copia conforme, nella versione con una Juliette Binoche un po’ photoshoppata sulle virtù.

Quando i ragazzi iraniani incontrano gli studenti stranieri accade il vero miracolo: nessuno parla di politica, vogliono solo fare un corto insieme.

La storia corre. Fu proprio la Binoche nel 2010, mentre riceveva a Cannes il premio come miglior attrice per quel film, a parlare di Jafar Panahi, l’altro regista dissidente iraniano, anch’egli allievo di Kiarostami. Panahi, condannato a sei anni di arresti domiciliari per propaganda contro il governo di Teheran e a vent’anni di divieto di regia, continua a produrre film che hanno una certa popolarità all’estero, come l’ultimo, Taxi Teheran, Orso d’oro 2015, girato in clandestinità con una telecamera sul cruscotto di un taxi. La chiamano new wave, quella del cinema della dissidenza. Ma è una costruzione più occidentale, che iraniana. Al di là del messaggio politico, Kiarostami è un maestro per molti giovani. Nel marzo scorso a Barcellona, si è dedicato per dieci giorni, giorno e notte, al lavoro di cinquanta studenti di tutto il mondo, che hanno pagato poco più di ottocento euro per partecipare al suo workshop. Tra loro, insieme con Ilaria, c’erano Frodo García- Conde, Héctor Zerkowitz, Lin Yu, Liliana Díaz. Ai migliori studenti un mese fa è stato recapitato un invito per Teheran: «Improvvisamente hanno detto a noi cinque: andate a conoscere gli altri studenti di Abbas», ricorda Ilaria. Beve succo di carota e racconta.

Il cortometraggio si gira con fotocamere, iPhone e un bastone per i selfie

Quando i ragazzi iraniani incontrano gli studenti stranieri accade il vero miracolo. Nessuno parla di censura, nessuno di politica. Decidono di mettersi a lavorare su qualcosa, insieme. Dei cortometraggi in coppia. Nella hall dell’hotel Ilaria ci presenta Sara Siadat Nejad. È una delle studentesse iraniane di Kiarostami, indossa un leggerissimo vestito nero, leggings neri, gli anfibi, il velo sulla sua testa è quasi inesistente, parla inglese con la cantilena del farsi. Ha gli occhi incollati sul suo cellulare («È la cosa più preziosa che ho!», dice). Ogni tanto tira fuori uno specchietto, e si sistema la cipria sul naso. Sara inforca gli occhiali da sole che le coprono metà della faccia, e sale in auto. Andiamo a girare un pezzo del suo corto in piazza Tajrish, nel nord di Teheran. È venerdì, e Tajrish è la sede non solo di uno dei più grandi bazar della capitale iraniana ma anche di uno dei mausolei più importanti della città, l’Imamzadeh Saleh. Un fiume di gente. Sara ha reclutato Ilaria come protagonista al suo corto. Le servono anche due orientali, e trova due volontari al mercato. Nel frattempo, nelle vie del quartiere, ci raggiungono, nell’ordine: il fidanzato di Sara, il fratello di Sara, la fidanzata del fratello, un’amica, l’operatore, il tecnico del suono. Una di loro è la fotografa di un’agenzia di stampa iraniana e un anno fa ha iniziato lezioni d’italiano perché vuole andare a Roma, a studiare fotografia cinematografica. Il corto si gira con fotocamere, iPhone e un bastone per i selfie. Fa un caldo soffocante. L’aria è quella della gita scolastica, nessuno sembra un professionista, eppure, mi spiega Ilaria, il primo cortometraggio sperimentale di Sara «ha vinto un’ottantina di premi in tutto il mondo». Domando se hanno chiesto l’autorizzazione per le riprese: scherzi? Non serve alcuna autorizzazione. Il gruppo si muove lento, ma ci perdiamo almeno tre volte. Davanti al mausoleo di Saleh, la ragazza che andrà a studiare a Roma mi ferma. Veste come un’occidentale, ma più elegante, indossa un foulard di seta colorata sulla testa: «Non puoi venire qui e non vederlo». Eccole, le due facce di Teheran, vivono e convivono davanti e dentro la moschea. Giovani e pieni di vita. E i sirmugh, gli animali alati della tradizione persiana, vegliano su di loro.

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