Esplorare la mescalina, il miserabile miracolo | Rolling Stone Italia
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Esplorare la mescalina, il miserabile miracolo

Lo scrittore Henri Michaux negli anni '50 ha indagato l'alcaloide psichedelico derivato dal Peyote facendone uso e prendendo nota delle sue esperienze. Vi proponiamo un estratto della sua personale ricerca (pubblicata da Quodlibet)

Esplorare la mescalina, il miserabile miracolo

Foto: Discrict Mind x Unsplash

La mescalina è un alcaloide psichedelico contenuto principalmente nel peyote. Isolata nel 1897 da Arthur Heffter e successivamente sintetizzata nel 1919 da Ernst Spath, è diventata una sostanza popolare grazie al libro Le porte della percezione dello scrittore britannico Aldous Huxley. Huxley però non è stato l’unico tra i grandi del tempo a provarla e a scriverne, cercando così di tentare di decifrare l’impossibile. In quegli anni anche lo scrittore belga naturalizzato francese, Henri Michaux, cercherà di dare una grammatica a quel «miserabile miracolo», questo infatti l’appellativo dato alla sostanza che diventa anche il titolo del suo lavoro del 1956, il primo libro che Michaux dedica alle sue esperienze con gli allucinogeni, e che ora arriva in Italia pubblicato da Quodlibet (con quarantotto disegni e documenti manoscritti originali dell’autore). Scriverà: «Uscendo dalla mescalina si sa meglio di qualunque buddista che tutto è soltanto apparenza. Ciò che c’era prima, era soltanto illusione di salute. Ciò che c’era durante era illusione della droga. Si è convertiti».

Qui di seguito un estratto di Miserabile miracolo. La mescalina, la premessa all’opera.

 

Questa è una esplorazione. Con le parole, i segni, i disegni. L’esplorata è la mescalina.

Nella semplice scrizione delle ventiquattro pagine qui riprodotte, sulle centocinquanta scritte in piena perturbazione interiore, chi sa leggere una scrittura imparerà già di più che da una qualsiasi descrizione.

Quanto ai disegni, cominciati subito dopo la terza esperienza, essi sono stati fatti con quel movimento vibratorio che per giorni e giorni resta dentro di uno, movimento che si potrebbe chiamare automatico e cieco ma che, appunto per questo, riproduce le visioni subite e le ripercorre.

Non potendo riprodurre integralmente il manoscritto, che era traduzione diretta e contemporanea non solo del soggetto, dei ritmi, delle forme, dei caos, ma anche delle difese interne e delle loro lacerazioni, ci si è trovati di fronte alla grande difficoltà costituita dal muro della tipografìa. Si è dovuto riscrivere tutto. E comunque il testo primordiale, percepibile più ai sensi che alla lettura, sia disegnato che scritto, non sarebbe stato sufficiente.

Le frasi interrotte, dalle sillabe volanti, sfilacciate, stiracchiate, lanciate impetuosamente, a strappi, dentro e di traverso nella pagina, precipitavano, cadevano, morivano. Rivivevano i loro brandelli, ripartivano, filavano via, deflagravano di nuovo. Le loro lettere finivano in fumo o scomparivano in zig-zag. Le successive, similmente discontinue, continuavano ugualmente il loro turbato racconto, uccelli nel pieno del dramma a cui forbici invisibili tagliavano le ali nel volo.

Talora le parole si saldavano repentinamente. «Martirisibilmente», per esempio, mi veniva e mi riveniva e me la diceva lunga, e non potevo sbarazzarmene. Un’altra, instancabilmente, ripeteva «Cracatua!» «Cracatua! Cracatua!», o un’altra, più normale, come «cristallo» tornava venti volte di seguito tenendomi da sola un gran discorso, carica di un altro mondo, e non sarei riuscito a aumentarla sia pure di poco, o a darle un complemento che fosse altro. Sola, come una naufraga su un’isola, per me era tutto e il resto ancora, e l’oceano agitato da cui era appena emersa, e che irresistibilmente ricordava a me, come essa naufrago, solo e resistente nello sfacelo.

Nell’immensa zangola di luci, inzaccherato di chiarezze, avanzavo ubriaco e trascinato, senza mai tornare indietro.

Come dirlo? Sarebbe occorsa una maniera accidentata, che non possiedo, fatta di sorprese, di spropositi, di compendi istantanei, di rimbalzi e d’incidenze, uno stile instabile, beccheggiante e babbuino.

In questo libro, il margine, occupato da compendi più che da titoli, esprime molto inadeguatamente gli accavallamenti, un fenomeno sempre presente nella mescalina e senza il quale sarebbe come parlar d’altro. Non si sono utilizzati altri «artifici». Ne sarebbero occorsi troppi. Le difficoltà, insormontabili, derivano: 1) dall’inaudita velocità d’apparizione, trasformazione, sparizione delle visioni; 2) dalla molteplicità, dal pullulare in ogni visione; 3) dagli sviluppi a ventaglio e a ombrella, per progressioni autonome, indipendenti, simultanee (in qualche modo su sette schermi); 4) dal loro genere inemozionale; 5) dalla loro apparenza inetta e, più ancora, meccanica: raffiche d’immagini, raffiche di «sì» o di «no», raffiche di movimenti stereotipati.

Non ero neutro neanch’io, non lo nego. La mescalina ed io, più che insieme eravamo spesso in lotta. Ero scosso, spezzato, ma non ci stavo.

Paccottiglia, il suo spettacolo. Inoltre bastava scoprirsi gli occhi per non vedere più nulla di tutta quella sciocca fantasmagoria. L’inarmoniosa mescalina, alcaloide estratto dal Peyotl, che ne contiene sei, aveva proprio tutta l’aria di un robot. Sapeva fare soltanto certe cose.

Eppure mi ero preparato ad ammirare. Ero giunto fiducioso. Quel giorno, le mie cellule vennero rimestate, scosse, sabotate, messe in convulsione. Venivano accarezzate, venivano sottoposte a estirpazioni. Si voleva ch’io fossi in tutto consenziente. Per stare volentieri in compagnia d’una droga, bisogna che a uno piaccia essere assoggettato. Io mi sentivo «di corvée».

Era con le mie terribili scosse che essa montava il suo spettacolo. Ero il fuoco d’artificio che disprezza l’artificiere, anche se gli si dimostra che l’artificiere è lui stesso. Mi si agitava, mi si facevano fare pieghe. Stupefatto, fissavo un movimento browniano, lo sgomento della percezione.

Ero distratto, stanco d’essere distratto, la vista su quel microscopio. Che cosa di soprannaturale in tutto questo? Ci si allontanava così poco dall’uomo. Piuttosto, ci si sentiva presi e prigionieri in un laboratorio del cervello.

È il caso di parlare del piacere? Era spiacevole.

Una volta trascorsa l’angoscia della prima ora, risultato del confronto col veleno, angoscia tale da chiedersi se non si cadrà svenuti, come capita ad alcuni, a pochi, è vero, ci si può abbandonare ad una certa corrente che potrebbe rassomigliare alla felicità. Ci ho proprio creduto? Non sono sicuro del contrario. Eppure, riferite a tutte quelle ore inaudite, trovo, nel mio diario, queste parole, scritte più di cinquanta volte, goffamente, con difficoltà: Intollerabile, Insopportabile.

Tale è il prezzo di questo paradiso (!).