Ermanno Cavazzoni: «Oggi tutti scrivono di Covid, ma per scrivere serve vivere» | Rolling Stone Italia
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Ermanno Cavazzoni: «Oggi tutti scrivono di Covid, ma per scrivere serve vivere»

"La madre assassina", il nuovo "romanzetto" (come lo definisce lui) di Ermanno Cavazzoni, è un misto tra Kafka e Philip K. Dick. Ne abbiamo parlato con l'autore

Ermanno Cavazzoni: «Oggi tutti scrivono di Covid, ma per scrivere serve vivere»

È un poliziesco? Sì. Decisamente atipico? Anche. C’è il morto? Certamente. Solo che è il morto stesso a condurre le indagini e, alla fine, a scoprire l’assassino. Torna con un romanzo, o “romanzetto” come lo definisce per rispetto ai grandi del ‘900, l’autore Premio Campiello 2018 con La galassia dei dementi e del più recente premio Boccaccio con Storie vere e verissime. 

Ermanno Cavazzoni con La madre assassina (La nave di Teseo) ci fa entrare in una mente paranoide, ma in cui tutto è perfettamente coerente. Un romanzo pieno di ironia e colpi di scena, un mirabile ritratto tra Kafka e Philip Dick, di cui abbiamo parlato direttamente con lo scrittore che ha avuto la fortuna di collaborare con Federico Fellini alla sceneggiatura de La voce della Luna. 

Il suo nuovo romanzo… 
Aspetti, non lo definirei un romanzo, semmai un “romanzetto”. Romanzo mi sembra troppo imponente di fronte ai grandi romanzi dell’800 e ‘900. 

Non si sminuisca. Come le è venuta l’idea del morto che compie direttamente le indagini? 
Questo giovanotto si sveglia al mattino e si accorge che è stato sostituito. Non è più lui e il suo vero Lui dov’è finito? Quindi inizia la ricerca del cadavere. La sensazione di essere sdoppiati penso la abbiamo avuta tutti almeno una volta nella vita. Quando parliamo con qualcuno e siamo in imbarazzo, spesso le parole ci escono, ma sono diverse da come le vorremmo, sono artificiali. È come se un altro vivesse in lui. Se non le è capitato lei non è un essere umano, ma un robot. 

Mi è capitato, purtroppo. E forse la chiave di volta è il malsano rapporto con la madre. 
Lei è la prima sospettata, visto che vivono insieme in una condizione claustrofobica. È una di quelle madri zuccherose che ricattano i figli con le lacrime e quindi li condizionano moltissimo in modo subdolo. Tante madri sono così e hanno come obiettivo di guidare il figlio verso qualcosa in cui credono sia giusto. Non hanno metodi autoritari dei padri di una volta, chiari, espliciti e brutali. Le madri usano la melassa per comandare e in questo caso il figlio sospetta della madre dell’assassinio del suo Lui. Però ci sono diverse sorprese, questa è solo la prima. 

Hanno paragonato il suo stile un mix tra Kafka e Philip Dick. Sono loro i suoi riferimenti?
Per Kafka ho una ammirazione infinita, magari gli somigliassi. Dick lo apprezzo molto, anche se sono credo siano migliori i film ricavati dai suoi scritti. Certo, le sue trovate in fantascienza sono originalissimi e sorprendenti. Sono due grandi paragoni. 

Chi è in realtà il suo maestro? 
Tutto quello che ho letto e vissuto. Il vero maestro è la vita. Persino leggere dei libri fa parte delle esperienze di vita. Io come grandi autori leggo in classici dell’antichità latina e greca, i romanzi del ‘700 e dell’800 e ho una grande ammirazione per i russi del ‘900, ma anche nella letteratura italiana ci sono straordinari scrittori. 

Qual è lo stato di salute della letteratura italiana? 
Noto che ultimamente tutti scrivono un libro o un racconto sul Covid, ma secondo me bisognerebbe smetterla. Forse per la mancanza di esperienza che hanno al giorno d’oggi. Un tempo gente come Joseph Conrad e Herman Melville andavano all’avventura e poi avevano molto da raccontare. Oggi tanti rimangono a casa, vedono qualche amico e poi scrivono. E infatti i romanzi sono un po’ asfittici di rapporti quotidiani. C’è un vuoto, dal quale qualcuno ne ricava bellissime cose, la maggior parte no. 

Nel 2002 lei scrisse Gli scrittori inutili, una sorta di corso su come iniziare questa attività. Oggi le scuole e i corsi di scrittura abbondano, ma li trova utili? 
Ai giovani che vogliono iniziare a scrivere consiglierei di imbarcarsi su una nave e andare al Polo Sud. Insomma, bisogna vivere per raccontare. Le scuole di scrittura sono utili per una persona che vuole entrare in contatto con gente dell’editoria e così da avere una strada agevolata per pubblicare. Ma sarebbe più utile tenere corsi per leggere dei bei libri e commentarli. Ho sempre un po’ diffidato delle scuole di scrittura, infatti non ho mai tenuto corsi e non mi piacerebbe partecipare. 

Il suo esordio nel ’76 fu Guida alla lettura del quotidiano, uno studio dell’italiano. In tanti dicono che il nostro lessico si è impoverito, lei cosa ne pensa?
Io non trovo che sia così. Come in tutte le lingue del mondo ci sono tantissimi registri: degli avvocati, dei medici, della burocrazia, dei bambini dove sembriamo anche noi un po’ dementi.  Ognuno di noi di volta in volta ne adotta uno. Sono strati infiniti e scegliamo di volta in volta. È la ricchezza di una lingua. Io adoro anche la lingua burocratica, anche se a volte non ci capisco niente, ma è bello anche questo, che ci siano “lingue speciali” dentro la grande Lingua. Avere tanti di questi strati moltiplicati, fino ad arrivare ai dialetti che sono semi-lingue che girano intorno alla Lingua madre. C’è poi chi usa i messaggini, che sono certamente poveri di tanti contenuti, però anche questo è un registro. 

Non ha timore neppure per i termini stranieri, in particolare inglesi, che hanno sostituito molte parole italiane? 
No, per me una grossa perdita è il dialetto, visto che non lo parla quasi più nessuno. I giovani lo perdono ed è un grande peccato, mi spiace davvero. L’italiano è fiorente, ci sono tutte le espressioni regionali che sono molto variate. Le parlate, visto che l’italiano a Roma è diverso dall’italiano a Bologna. Nei termini stranieri trovo un arricchimento, d’altronde già nell’800 arrivavano termini dall’estero, in particolare dal francese che era la lingua dominante, come “bidè”. Ora c’è l’inglese e passerà anche questo lasciando uno strascico. Magari in futuro prevarranno il cinese o il russo. 

Ha lavorato a soggetto e sceneggiatura de La voce della Luna di Federico Fellini, tratto dal suo Il poema dei lunatici, raccontando di un anno di “gite” per l’Emilia per trovare spunti da ricreare a Cinecittà. Cosa le manca di lui? 
È stato non solo un regista, ma anche un grande artista. Come quelli del Rinascimento, che univano più materie. Scriveva benissimo, Fare un film è un libro stupendo da leggere e più bello di qualunque romanzo. Disegnava delle straordinarie caricature, ne faceva in continuazione, compreso al sottoscritto. Persino ai musicisti, già bravissimi, suggeriva motivetti e suggestioni. Senza contare il cinema. Era un artista in senso vasto e un amico con cui chiacchieravo e scherzavo, perché non era certo uno serioso. Una persona straordinaria, sia come maestro che come “compagno di scuola”. 

Vedo che lei non usa i social. Come mai? 
Sono già oberato dalle mail e dai messaggi Whatsapp. Non sopporto questa situazione di essere sempre reperibile, che diventa terribile. Qualche anno fa quando si usciva si era scollegati, con il telefono che restava a casa. Ora siamo individuabili dal satellite e questo mi fa anche un po’ paura. 

Il suo romanzo La galassia dei dementi, Premio Campiello 2018, raccontato un futuro inquietante dominato dalle macchine. Era forse un presagio?
È un romanzo di fantascienza, lo posso chiamare “romanzo” perché di 700 pagine, quindi qualcosa di pieno, volevo vedere se ero capace di scrivere una storia voluminosa. È una delle possibilità che gli uomini non lavorino più, avendo a disposizione le macchine per starsene in poltrona a non fare niente e a ingrassare collezionando qualche sciocchezza. Non è una bella prospettiva.