"Equalitalk" è il podcast antirazzista che ti metterà a disagio | Rolling Stone Italia
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“Equalitalk” è il podcast antirazzista che ti metterà a disagio

In 10 puntate su colorismo, appropriazione culturale, colonialismo italiano e "White saviour" Irene Facheris e Bellamy puntano a mettere gli ascoltatori bianchi di fronte ai loro privilegi. E c'è anche una breve guida su "come parlare ai razzisti"

“Equalitalk” è il podcast antirazzista che ti metterà a disagio

Bellamy e Irene Facheris. Foto Audible

Lo scorso 21 marzo, in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, è uscita la nuova stagione di Equalitalk, il podcast di Irene Facheris – formatrice, scrittrice e attivista femminista – prodotto da Audible Original. Il tema stavolta è quello del razzismo e della lotta per sconfiggere l’oppressione dei gruppi etnici marginalizzati, e ad affiancare Facheris, guidando lei e gli spettatori nella trattazione delle varie puntate, c’è Bellamy, attivista e fondatrice di Afroitalian Souls.

I 10 episodi che compongono il podcast affrontano e approfondiscono molti temi legati al razzismo interiorizzato e ai suoi effetti: l’utilizzo della “N word”, il mito degli “italiani brava gente” (e la rimozione del colonialismo italiano dalla memoria collettiva), l’appropriazione culturale, il colorismo, la figura del white savior, e in senso più generale la “decolonizzazione della mente”. È un prodotto “scomodo”, nel senso che il suo intento è proprio quello mettere gli ascoltatori bianchi di fronte ai propri privilegi e al loro desiderio di rimanere in una comfort zone fatta di retorica e rimozione, spingendo anche coloro che si ritengono più progressisti a mettersi in discussione. Una guida all’antirazzismo autentico e impegnato, non di facciata, che mette finalmente al centro la voce di chi può e deve parlare di queste tematiche: chi il razzismo lo subisce.

Quando si parla di tematiche legate alla lotta al razzismo, e in favore dell’inclusione, gli spunti di riflessione si moltiplicano. Specie per il fatto che chi dovrebbe realmente parlarne – le persone che il razzismo lo subiscono –hanno generalmente poco spazio per poterlo fare. Alla luce di questo vi chiedo: come avete selezionato i temi da trattare nelle varie puntate?
Bellamy: Proprio perché è difficile che ci venga data la parola, avevo una grande sfilza di argomenti di cui parlare. La parte più difficile è stata appunto quella di selezionarli per farli rientrare in 10 puntate. Sicuramente sapevamo che il passato coloniale italiano era un argomento da inserire a tutti i costi, così come l’urgenza di essere alleati: quindi spiegare cosa non fare quando si vuole lottare contro il razzismo. E volevamo sciogliere anche dei tabù: istruzione, ideali di bellezza e colorismo, e molti altri. Abbiamo pensato a cosa potrebbe essere utile a chi ha poche conoscenza su questi temi, ma allo stesso tempo volevamo renderlo uno strumento di approfondimento anche per coloro che avevano già sentito parlare di questi temi in maniera “astratta”.

Irene Facheris: Io sulla scelta dei temi mi sono fatta molto guidare da Bellamy. Finalmente avevamo questa occasione di poter fare qualcosa che mettesse al centro la voce di chi dovrebbe parlare di questi temi, e da alleata avevo più domande che proposte. Il mio obiettivo era quello di capire quali fossero le sue priorità.

Mi è piaciuto molto un concetto espresso spesso durante le puntate del podcast in questo senso: “non essere arrabbiati è un privilegio”. Mi piacerebbe approfondirlo, nell’ottica della decolonizzazione della mente che sta alla base del podcast, anche in relazione al disagio represso che le persone bianche provano quando vengono messe di fronte a queste problematiche.
Irene Facheris: Nelle puntate abbiamo cercato di insistere molto su questo punto: se vuoi veramente decolonizzare la tua mente, se vuoi provare ad essere una persona alleata, non puoi stare “comoda”. La comodità, quando si tratta di queste tematiche, è indice del fatto che non si sta facendo quello che di dovrebbe fare. La “scomodità” che proviamo noi persone bianche quando parliamo di razzismo, e ci troviamo di fronte a certi privilegi, è un millesimo di quello che prova chi è oppresso.

Bellamy: Questo disagio è quello che impedisce di avere un confronto reale riguardo al razzismo. Ogni volta che faccio notare ad una persona bianca che ha detto o fatto una cosa razzista devo sempre scontrarmi con una serie di schermature: “non era mia intenzione”, “così mi offendi”, la tendenza insomma a mettere i propri sentimenti, il proprio orgoglio (perché nessuno vuole essere etichettato come razzista), al centro del discorso. Una posizione che a ben vedere è di superiorità rispetto a chi è vittima di razzismo.

Parlando appunto di cosa significhi assumersi la responsabilità del proprio razzismo, una delle puntate più significative è quella legata al colonialismo italiano e al mito degli “italiani brava gente”. Perché solitamente associamo la parola “colonialista” ad altre nazioni, accantonando nella memoria (o facendo finta di accantonare) il nostro passato.
Bellamy:
Esatto, è un tema di cui non si parla mai. Per quanto mi riguarda è un tema fondamentale, perché la sua omissione impedisce di avere coscienza nazionale di quanto il razzismo sia ancora presente, e di quanto i retaggi coloniali determinino le norme sociali, il dibattito, e la percezione che il paese ha dei gruppi etnici marginalizzati. Il fatto che l’Italia a differenza della Germania – dove il nazismo è passato attraverso un duro processo di analisi – non abbia mai fatto un percorso di consapevolezza riguardo alle proprie colpe, mistifica l’idea che gli italiani hanno del loro passato. Non si sa ad esempio che molti degli aspetti della mentalità coloniale italiana del passato influenzano anche la società di oggi, e la loro omissioni va a tutela degli italiani bianchi, mentre non viene valutato l’impatto che questo ha sugli italiani afrodiscendenti.

Irene Facheris: Un altro tema è sicuramente quello della paura che avvicinarsi a questi temi scatena. Appena ti informi veramente sul passato italiano ti viene naturale una domanda: “quanti errori devo aver fatto io fino ad ora, visto che non mi sono resa conto di questa cosa?”. La prima reazione è quella di dirsi “perché dobbiamo parlarne?”. Ed è un altro privilegio: quello di non vedere il problema, di non subirlo, fino a che non ce lo mettono davanti agli occhi.

Uno dei temi trattati è quello dei “white savior”: quella condiscendenza di alcune persone bianche verso le minoranze etniche che serve soltanto a mettere il proprio ego al centro. Un aspetto del razzismo di cui si parla poco in Italia.
Bellamy:
Io non vedo molti veri alleati in giro… semplicemente perché non vengono invitati a parlare. In TV vengono invitate le vittime di razzismo, e i razzisti: gli alleati non ci sono. L’Italiano medio che si ritiene alleato solitamente è chi non si ritiene razzista, ma sono persone che si limitano ad assistere senza fare niente. Non basta sentirsi in pace con la coscienza.

Irene Facheris: Esatto. E la cosa triste è che questo è il meglio a cui abbiamo assistito al momento: subito sotto ai white savior ci sono le persone bianche che pensano di non essere razziste quando invece lo sono.

La settima puntata è dedicata al tema “come rispondere ai razzisti”. È un argomento abbastanza ricorrente quello del confronto, anche duro, specie sui social. Un luogo in cui attualmente sembra quasi impossibile cambiare idea, perché le discussioni si chiudono esattamente come si erano aperte. Entrambe siete attiviste con un grande seguito, e vi scontrate quotidianamente con questa realtà: cosa pensate di questa situazione e di come si può evolvere il dibattito?
Irene Facheris:
Faccio un po’ fatica a rispondere a questa domanda, nonostante ci sia stata fatta molte volte. Perché quando io parlo di determinati temi online lo faccio con un pensiero: se non ne parlassi mi farei schifo. Questo è quello che mi spinge. Poi posso cercare la maniera più efficace di dirle, perché è chiaro che spero che il messaggio arrivi a più persone, ma non è mai il mio primo pensiero quello di “convincere gli altri”. Forse quando parlo di razzismo lo è di più, perché in quanto alleata sento la responsabilità di parlare con qualcuno perché – per dinamiche tristemente razziste – un certo pubblico non ascolterebbe Bellamy. Quindi se ne parlo io faccio un po’ più attenzione al linguaggio, affinché sia “ascoltabile” a livello emotivo. Ma quando parlo di altre tematiche che mi riguardano in prima persona, come ad esempio il femminismo, pormi questa domanda mi fa male: perché significherebbe chiedermi “come faccio a farmi ascoltare dal mio oppressore”? Per me è più importante l’urgenza di parlare di quel tema, poi se la mia voce non viene ascoltata perché non sono conciliante non mi interessa.

Bellamy: Diciamo che io su questo sono un po’ combattuta, perché allacciandomi all’autrice Reni Eddo-Lodge, che ha scritto il libro Why I’m No Longer Talking to White People About Race, ogni tanto trovo che sia veramente estenuante confrontarsi su questi argomenti. Però dall’altra parte il silenzio per me non è un’opzione: il livello di ignoranza e rifiuto è dovuto proprio al fatto che le nostre voci non si sono mai sentite. Vivo in una società che mi ha dato i mezzi per farmi ascoltare, a differenza dei miei genitori, quindi questo podcast per me è stata un’enorme opportunità per parlare di tutto questo.