Due vite, una svolta: quando il balletto diventa una love story | Rolling Stone Italia
Come Fonteyn e Nureyev

Due vite, una svolta: quando il balletto diventa una love story

Al Festival della Danza di Genova, il Royal Ballet e il Kiel Ballet portano in scena storie pubbliche e private che parlano d’amore. Abbiamo incontrato i protagonisti, con le loro confessioni dietro le quinte

Due vite, una svolta: quando il balletto diventa una love story

Maraya Magri, principal dancer del Royal Ballet di Londra, in scena

Foto press

Quando il Royal Ballet arriva a Genova, i Parchi di Nervi sono pronti ad accoglierlo in una serata perfetta.
Il palco è asciutto, una leggera brezza dissuade il volo delle zanzare, il mare ha piccole creste e la luna illumina il cielo, gigante. Le 1.300 sedute del teatro all’aperto sono piene, non ci sono state variazioni al programma, dopo l’Opéra di Parigi il direttore Jacopo Bellussi punta sulla sua seconda scommessa: il prestigioso corpo di ballo inglese celebra le creazioni del leggendario coreografo e direttore artistico della compagnia, Sir Frederick Ashton. A danzare ci sono star come Marianela Núñez e Alina Cojucaru, dames aux camelias che si alternano per le due serate, nella struggente rivisitazione Marguerite et Armand, ispirata al romanzo di Alexandre Dumas figlio

Il fuori festival è partecipato, e all’incontro con i nostri quattro danzatori italiani – Valentino Zucchetti, Ginevra Zambon, Giacomo Rovero, Luca Acri – c’è la fila per gli autografi. Questa volta, thank God, c’è anche la pianista del Royal Ballet Kate Shipway, che accompagna le performance su note di Felix Mendelssohn, Johann Strauss II, Franz Liszt, Sergej Rachmaninov… il gotha della musica classica, insomma, dalle cui partiture Sir Ashton coglieva la prima scintilla di ispirazione per creare.

Nel sistema inglese, o meglio, nel sistema internazionale esclusi i francesi, non esiste il ruolo da étoile, la vetta per i ballerini della compagnia inglese è diventare principal dancer, e brillare con questo titolo nei teatri di tutto il mondo. Sembra ancora una ragazzina, ma è sulla cima delle punte come principal dal 2021 anche Mayara Magri, classe 1994, che mi aspetta per l’intervista accanto al suo fidanzato Matthew Ball, from Liverpool, primo ballerino e degno successore di Nureyev, nel ruolo di Armand.

«Quando ero una bambina ho consumato un dvd del Royal Ballet, volevo diventare una di loro, ma da Rio in Brasile sembrava lontano, impossibile. Poi ho vinto una borsa di studio per un anno a Londra, e non sono più tornata. Avevo 16 anni, la mia vita è cambiata. Sono diventata solista, poi prima solista, quattro anni fa principal dancer». Un altro mondo, il freddo Regno Unito, che non ha spento la sua energia: un duende sudamericano che le fa brillare lo sguardo e impreziosire la tecnica perfetta con un carattere esplosivo.

Progetti? Tanti. «Quando penso a come i miei sogni siano diventati realtà in questi anni… essere diventata io quella del Dvd che guardavo da bambina! Non so neppure cosa desiderare… nuovi ruoli, nuove sfide, classico e contemporaneo, danzare, non smettere mai di farlo». E poi fare tanti bambini con Matthew?, chiedo. «Forse! Magari! Non so!». Ride. Matthew la guarda, pietrificato. Stanno insieme dal 2019, il primo appuntamento poco prima del Covid, la convivenza, la danza, la vita…

Poi anche lui si scioglie un po’, quando Mayara racconta del maggio scorso, neppure due mesi fa, quando ha finalmente ballato Il lago dei cigni al leggendario Teatro Municipal, nella sua Rio, dove non si era mai esibita. «C’erano tutti a vedermi, tutti! I miei genitori, i fratelli, i nonni, gli amici dei nonni, i cugini, gli amici della famiglia, i nipotini…». Si emoziona, Mayara, una danzatrice che i famigliari avevano visto partire ragazzina, e ora applaudono, mentre domina la scena come il più famoso dei cigni.

La mamma è contenta che sua figlia non sia sola, in quella fredda città sganciata dall’Europa per un capriccioso referendum. Non può permettersi di andarla a trovare continuamente – spiega la ballerina – ma non ha mai smesso di supportarla, e quando non c’è si consola pensando allo sguardo blu di Matthew, alla loro casa insieme, a qualcuno che tenga una luce accesa per lei: una star internazionale, ma pur sempre la sua bambina.

Nella serata perfetta ai Parchi di Nervi, con la luna a occhio di bue sul palco, il pubblico chiedeva chi fosse quella brunetta dal fisico atletico, perfetta e vigorosa, vestita d’avorio e oro, leggera e sorridente pur danzando sulla non facile rapsodia su un tema di Paganini di Sergej Vasil’evič Rachmaninov. Rhapsody fu l’ultima creazione di Sir Frederick Ashton, esordì nel 1980 con Leslie Collier e Michail Baryšnikov in occasione, niente popò di meno, dell’ottantesimo compleanno della Regina madre Elisabeth Bowes-Lyon, donna curiosa e colta che tutti rimpiangiamo. Se potessi scegliere – chiedo – davanti a quali reali ti piacerebbe esibirti? Re Carlo e Queen Camilla? O William e Kate? O Harry e Meghan? «Kate è la regina, ops, quasi regina, che sento più vicina», risponde Mayara, ricordandomi quanto i giovani reali amino, e frequentino, la danza.

Matthew Ball è un anno più grande della sua compagna, è diventato primo ballerino nel 2018, acclamato sostituto in Giselle, portentoso artista emergente secondo il Times. Viene da Liverpool, «with love», sussurra. Gioca di rimessa con il carattere esuberante della sua amata, non gli dispiace l’etichetta di “british man”, è di sicuro uno dei danzatori più dotati e richiesti anche da altre compagnie internazionali. A Genova interpreta Armand, l’amante della Signora delle camelie, e lo fa spezzandoti il cuore. Splendido, sguardo blu, bocca da joker, fisico scolpito, elegante e gentiluomo come si ci immagina quel nobil signore dell’Ottocento francese, quando entra in scena la domina, piroettando con una Marguerite (la leggerissima Alina Cojucaru) che sembra aria tra le sue braccia.

Ogni quadro ispirato al dramma di Dumas figlio è curato nei minimi dettagli: i gentiluomini, il protettore della signora amata e malata, il padre scandalizzato di Armand, la camelia come promessa di un amore impossibile. Matthew ammette: «La danza è chimica, è inevitabile che ci siano combinazioni migliori di altre, quando si tratta di pas des deux. Lavoriamo con i nostri corpi esposti, si crea un’intimità fisica, le braccia, gli sguardi, la testa, una presa, sono tutti strumenti che si fondono con l’interpretazione. Recitiamo, certo, e a volte recito di più con una partner, che con un’altra. Ma c’è un livello professionale sotto al quale non vorrei mai scendere. E sono sempre onorato di danzare pas des deux dal repertorio classico, come Marguerite et Armande, che qui presento in coppia con Alina, una star».

Margot Fonteyn, che fu Marguerite, disse che “in questa tragica storia d’amore, la passione provata in scena era ancora più forte di quella provata nella vita reale”. Lei si riferiva a Rudolf Nureyev, suo molto più giovane compagno artistico, insieme al quale visse una seconda meravigliosa stagione sulle punte. Matthew si spiega il successo di quel duo osannato dal pubblico, ricordando che Margot era già una star quando incontrò il ballerino russo. Lui era leggenda, per essere scappato dall’Unione Sovietica e aver così contribuito a cambiare i canoni della danza europea e occidentale. Forse proprio per omaggiare quella “special relationship” tra Fonteyn e Nureyev, Frederick Ashton creò nel 1963 Marguerite et Armand, pensato e cucito sulla loro intesa in scena, sul loro affetto nella vita privata, e sperando nell’enorme successo che la coppia suscitava. Dopo il debutto alla Royal Opera House, Fonteyn e Nureyev lo danzarono per oltre quaranta rappresentazioni, per i dieci anni successivi, anche al Teatro alla Scala, nel 1965, e a Broadway, nel 1975.

Impeccabile, Matthew ci confida di non essere un romantico alla Dumas, dote richiesta per la credibilità del balletto, ma di avere un proprio stile anche in questa circostanza. «Se vuoi rispondo io!». Maraya gli ruba la scena, definendolo «romantico shakespeariano», ma lui se la riprende, spiegando come creare per lei, per la sua talentuosa compagna, sia la sua forma di romanticismo: pensare con lei, provare insieme, tenerla tra le braccia e poi farla girare… «Good job, man!», commenta lei, e ride.

Sorridiamo e ridiamo in quest’intervista, punzecchiando il lato anglosassone di Matthew e immaginando le loro produzioni successive, che vedranno impegnati entrambi in repertori classici e creazioni originali. Roba da prendere i biglietti per Londra fin d’ora, trust me. Perfino Matthew, all’inizio un po’ contratto, sembra rilassarsi sull’ultima domanda: che cosa ti fa ridere davvero?, gli chiedo, per spettinarlo un po’. «Le tue domande!», risponde. British humour, ma incasso con stile.

Anche la seconda serata del Royal Ballet va benone, il Teatro Carlo Felice, rifugio per i temporali estivi previsti, è quasi pieno, e guardando Maraya interpretare Isadora Duncun, per una sostituzione necessaria causa infortunio di una collega, penso alle coppie di artisti che stanno più dietro alle quinte che a casa, al loro ménage fatto di prove, cibi pronti in frigo, impacchi freddi ai piedi, magari un film una sera, qualunque cosa che non parli di danza, perché creare continuamente può perfino diventare uno stress… Ammicca e non mi sbugiarda Heather Jurgensen, già prima ballerina, già musa del coreografo John Neumaier, già moglie di Yaroslav Ivanenko e sua vice nella direzione artistica del Kiel Ballet, ospite al Festival.

Il Kiel Ballet in scena. Foto press

Lui ucraino, di Kiev, lei americana, Pennsylvania, si sono conosciuti all’Hamburg Ballet e non si sono più lasciati. Dirigono una compagnia emergente in Germania, la Kiel appunto, e hanno messo in scena uno spettacolo notevole. Following Like a Bird, ricordate, è il testamento artistico del nostro Ezio Bosso. Lo compose per raccontare la sua malattia, e lo suonò sempre, fino all’ultimo. «Quando ho ascoltato per la prima volta questo brano», racconta Yaroslav Ivanenko, «sono rimasto un po’ scioccato, era una musica talmente bella, e Bosso quando la suonava sembrava volare via con lei, sorridendo… Nonostante fosse già molto utilizzata da altri coreografi, la scelsi, perché volevo riprodurre sul palco proprio quella sensazione di astrazione e volo».

I venti danzatori della compagnia, stile contemporaneo punteggiato alle scarpette di classica, spiccano il volo più volte. C’è un pianoforte in scena, e il ricordo dell’artista italiano è evocato con sensibilità, rimescolato sapientemente con altre partiture, mentre dalle quinte entrano in scena corpi che si intrecciano, gambe che diventano ali, braccia che si trasformano in volo, luci che accompagnano questo viaggio tra la vita e la fine. «Quando, da solista dell’Hamburg Ballet, sono diventato direttore artistico mi sono detto: wow, ho 20 danzatori, che meraviglia! È successo 14 anni fa, adesso ne vorrei di più, me ne servirebbero di più per tutti i progetti che voglio realizzare…».

L’ambizione di Ivanenko è contagiosa, ammette la sua compagna: «A volte non riesce proprio a staccare, pensa e ripensa, smonta e rimonta…». Heather Jurgensen, americana formatasi a New York City, ci confida che avrebbe ballato volentieri la passione delle camelie con lui, come Marguerite et Armand, ma Yaroslav ha fatto di più: le ha dedicato un’intera creazione, dal titolo N’oublie pas, su musiche di Iann Tiersen. Sperimentale e poetico, suo marito ha un unico difetto: non si riposa mai, ma coglie l’occasione durante l’intervista di «ringraziarla per tutte le volte che non lo faccio», e lei si emoziona.

Pragmatica, Heather ammette che spesso le coppie artistiche si formano perché «non ci sono molte altre occasioni di incontrare persone, al di là della danza, quando lo fai di professione». Yaroslav chiosa ricordando che «la love story tra ballerini è creativa, energica, stressante, romantica competitiva e paradossalmente molto libera». Come un volo d’uccello, appunto.

Quando ci salutiamo gli chiedo ancora un pensiero per l’Ucraina, e su Kiev, sua città natale. «Un posto incredibile e bellissimo», risponde. «Voglio che sopravviva». E l’azzurro del suo sguardo si adombra un po’.

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