Di fascismo si parla molto in questo periodo, ma come se ne parla? | Rolling Stone Italia
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Di fascismo si parla molto in questo periodo, ma come se ne parla?

Lo abbiamo chiesto allo storico Francesco Filippi, autore del saggio 'Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo'

Di fascismo si parla molto in questo periodo, ma come se ne parla?

Foto di Roberta Marsigli

Libri, film e serie tv su Mussolini e il fascismo segnalano, a cento anni dalla Marcia su Roma, un forte interesse dell’opinione pubblica per una delle pagine più buie della nostra storia, complice anche la vittoria elettorale della coalizione di destra guidata da Fratelli d’Italia, formazione politica che raccoglie idealmente il testimone del Movimento Sociale Italiano, partito di ispirazione neofascista fondato da reduci della Repubblica di Salò come Giorgio Almirante («un grande uomo», secondo Giorgia Meloni).

Di fascismo si parla molto in questo periodo. Ma come se ne parla? L’abbiamo chiesto allo storico Francesco Filippi, autore del saggio Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (Bollati Boringhieri, 2019).

Francesco Filippi, ‘Mussolini ha fatto anche cose buone’, Bollati Boringhieri, 2019

Qual è il rapporto tra fascismo e memoria oggi in Italia?
Il fascismo storico plasma una parte della memoria pubblica a partire soprattutto da alcune parole simboliche. La patria, la cultura identitaria e la famiglia come ceppo di struttura clanica del paese. Sono tutte parole che, pur nascendo anche in contesti diversi, hanno visto nel fascismo italiano una rilettura critica molto diretta che ancora oggi condiziona in maniera inevitabile il dibattito pubblico.

Ma da dove arriva l’idea del fascismo come parentesi quasi estranea al cammino della storia italiana?
Dopo l’8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945 sono molte le voci che tentano di inserire il fascismo in una sorta di procedura di normalizzazione. Tra tutti il principale fautore di questo racconto è sicuramente Benedetto Croce che conia la definizione della “calata degli Hyksos”. Come i popoli del mare che arrivano nell’Egitto dei faraoni, dominano e poi se ne vanno, così il fascismo italiano dovrebbe essere una parentesi all’interno di quella che altrimenti è la lunga storia progressiva dell’Italia che nasce dal Risorgimento e arriva alla vita democratica. È un racconto molto comodo perché descrivere il fascismo come parentesi non fa riflettere sui tratti peculiari degli italiani.

Su questi temi cos’è successo a partire dagli anni Novanta?
Innanzitutto c’è stato un crollo epocale, quello del Muro di Berlino e quindi della contrapposizione Est – Ovest che aveva congelato non solo le posizioni dei maggiori partiti italiani, ma aveva anche cristallizzato il racconto della Resistenza che si basava su un sistema di valori nato nel 1945 e che arriva negli anni Novanta ritualizzato e difficilmente riformabile. Quando i partiti che hanno fatto la Resistenza (DC, PCI e PSI) vengono travolti da Tangentopoli si butta il bambino dei valori antifascisti con l’acqua sporca della partitocrazia malata e ladra. Contemporaneamente una destra che per cinquant’anni era rimasta ai margini dell’arco costituzionale rivive a nuova fiamma, mi pare il caso di dire, riportandosi in auge con due miti. Il primo è quello della sopravvivenza a cinquant’anni di oblio imposto dagli antifascisti che diventano automaticamente comunisti. Il comunismo sconfitto, quello sovietico, diventa una sorta di cappello per tutti gli antifascismi europei, con un’evidente forzatura perché il contrario di fascismo non è comunismo ma democrazia, è bene ricordarlo. Accanto al tema della sopravvivenza prende piede anche un’idea di rivincita. Nasce quello che potremmo definire il fenomeno del “pansismo” a livello storico, e cioè la ricerca di episodi particolari che raccontino la storia ribaltata in cui quelli che fino a quel momento erano stati i cattivi diventano buoni e quelli che erano stati buoni non sono poi così buoni. In quest’ottica l’introduzione all’interno del calendario pubblico italiano della giornata del ricordo del 2004 è il punto di arrivo di un’operazione decennale non solo di riscoperta delle facce nascoste (chiamiamole in questo modo anche se non è così) della Resistenza, ma soprattutto il trionfo di una memoria selettiva e di parte che racconta gli italiani solo come vittime.

Come si arriva al centenario della Marcia su Roma?
Con una consapevolezza molto chiara che personalmente ho sviluppato attraverso il contatto con la stampa estera. Molti giornalisti stranieri mi hanno chiesto in questi mesi che cosa pensassi dei fenomeni italiani e ho scoperto che fuori ci si preoccupava di questo centenario più che in Italia. «Ma perché continuate a chiederci di questo fascismo che ritorna e di un partito che ha le sue radici nella Repubblica di Salò, per quale motivo siete così preoccupati?». La risposta che ho ricevuto mi ha fatto riflettere molto: «Beh, perché l’Italia lo ha inventato, il fascismo». A un secolo di distanza vedere il paese che ha concepito il fascismo prendere una deriva che non aveva mai avuto, e che riguarda anche una figura simbolica come la fiamma tricolore, quantomeno incuriosisce.

Cosa pensi del primo discorso da presidente del Senato di Ignazio La Russa?
Ascoltandolo ho notato una coincidenza ai limiti dell’identità tra il suo discorso e quello di Luciano Violante. Si tratta di una parabola interessante. Era il 1996 quando il figlio di una storia di sinistra come Luciano Violante, prendendo posizione alla terza carica dello Stato, parlava dei ragazzi di Salò che avevano degli ideali, pur sbagliati, ma degli ideali per cui combattevano. Ed era lì che iniziava quel fenomeno che alcuni chiamano pacificazione, ma che in realtà ha a che vedere molto di più con un’idea di parificazione. Nel 1996 comincia questo passaggio, una sorta di livellamento che ha nel discorso di La Russa il suo compimento. I passaggi fondamentali del suo intervento sul passato del paese sono due. Il primo è quando citando le violenze degli anni Settanta rilancia l’idea dell’equiparazione tra destra e sinistra, tra Resistenza e Salò, mettendo sul tavolo quelli che sono gli strascichi del neofascismo e della violenza terrorista rossa: un calderone che va da Ramelli, passando per il commissario Calabresi, ai morti della sinistra extraparlamentare, in un rapporto con il passato in cui sembra che chiunque sia vissuto e non è più, abbia avuto semplicemente solo ragioni. È una visione molto poco critica del passato che rischia di creare una sorta di melassa da cui alla fine non emerge nulla se non l’oblio più che il ricordo. Il secondo punto è la risposta implicita al forte richiamo fatto dalla senatrice a vita Liliana Segre alle tre date civili del calendario italiano che ricordano la nascita della Repubblica dalla Resistenza. Segre parla di 25 aprile, 1 maggio e 2 giugno come feste cardine. La Russa rilancia con il 17 marzo, nascita del regno d’Italia, in una contrapposizione che sa di diluizione. Vuole rilanciare la palla dicendo «sì, ricordiamo tutto». Ma il 25 aprile è la data in cui nascono i valori che fondano la nostra Repubblica. Il 17 marzo è una data di interesse per gli storici che parla della formazione del regno d’Italia. Un regno che nella sua maturità, e cioè a partire dal 1922 in poi, tra l’altro ha anche collaborato in maniera fattiva all’ascesa e poi al mantenimento del regime fascista. Buttare nel mucchio nuove date non ha altra funzione che sminuire il valore del calendario civile nel proprio complesso.

A tuo avviso, in una fase così delicata del nostro Paese come quella che stiamo attraversando, qual è la principale sfida per gli storici e le storiche?
La sfida necessaria dal mio punto di vista è quella di rialfabetizzare una società che vive di presentismo. I professionisti della storia devono rivolgersi ai non addetti ai lavori con un approccio divulgativo, spiegando in maniera chiara e accessibile perché il passato sia importante da conoscere visto che è l’insieme di tutto ciò che noi siamo oggi. Se non riusciamo a far passare l’idea che è la storia che fonda il nostro presente saremo condannati al tramonto della nostra disciplina che si ridurrà all’aneddotica. Per citare il grande storico belga Henri Pirenne «se fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma io sono uno storico. È per questo che amo la vita». Ecco, è questa la chiave. Noi storici e storiche dobbiamo ricominciare ad amare la vita e a farla amare attraverso le nostre letture e le nostre ricerche anche a chi sta intorno a noi, soprattutto a chi non ha un rapporto professionistico con il passato.