Dentro il comizio cancellato di Trump a Chicago | Rolling Stone Italia
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Dentro il comizio cancellato di Trump a Chicago

Un venerdì sera di caos, proteste e scontri. E Trump rimanda l'incontro

Gli scontri fuori dal comizio mai avvenuto di Trump. Foto: nathanmac87 via Flickr

Gli scontri fuori dal comizio mai avvenuto di Trump. Foto: nathanmac87 via Flickr

Fuck Donald Trump!

Sono fuori dall’UIC Pavilion da una decina di minuti quando sento queste parole per la prima volta, urlate da una macchina che passa da quelle parti. Sono circa le due di venerdì pomeriggio. Il contestatore, su una berlina argentata, si è quasi fermato per urlare contro la coda formata dai partecipanti al comizio, adesso abbastanza lunga da fare il giro dell’arena e di un garage lì vicino. Le porte non si apriranno per un’altra ora e, all’entrata sud del palazzo, è già stata raggiunta la capienza massima e gli ultimi arrivati sono stati allontanati dalla fila.

Quando Trump ha annunciato che sarebbe arrivato alla University of Illinois di Chicago, non mi è sembrata una mossa sensata: Chicago chiaramente non è un territorio naturale per Trump, ancora meno la UIC, con il suo corpo studentesco, così giovane e diversificato. Questo non sarebbe stato uno dei suoi spettacoli infuocati che tiene nel profondo sud; questa sarebbe stata un’intensa virata in territorio nemico, per Trump e per i suoi supporter – quasi tutti provenienti dalle periferie o fuori sede. Peggio ancora, la campagna di Trump sembra aver già un’opposizione fatta e finita: la coalizione in gran parte nera e latina di attivisti che ha recentemente fatto tremare la candidatura a sindaco di Rahm Emanuel, dopo che sono uscite le prove inconfutabili che la sua amministrazione ha cercato di coprire l’omicidio di Laquan McDonald, giovane disarmato, da parte della polizia.

Venerdì, però, non sembrava che quel gruppo si fosse materializzato. Un supporter di Trump di nome Matt sta tenendo in mano due cartelli, che prendono in giro i contestatori: “At Least You Tried, Protesters!” e “Liberals Claimed 3,000 Strong — I See 30”. Il numero non è così basso, ce ne sono circa 50, tra quelli che sono in strada e agli angoli, ma sono comunque sorpreso dalla scarsità dei ranghi.

«Non mi posso permettere di andare a un’università di alto livello e lavoro da quando ho 15 anni», mi dice Matt. «Mi sono fatto il culo per tutta la vita».

«E cosa ne pensi della proposta di Bernie Sanders, di non far pagare la retta del college?», chiedo.

«Saturerebbe il valore delle lauree», farfuglia Matt. «Ci sarebbero troppe lauree in giro e sarebbe più difficile trovare un lavoro».

«Cosa vorresti sentire da Trump oggi?»

«Vorrei sentirlo parlare col cuore. Riesce ad arrivare alle persone».

Questo è un concetto che sento più e più volte, dalla signora gentile che si confida, dicendomi, che «dice quello che voglio dire io»; da Jeff, il simpatico veterano dell’Iraq che mi prende in giro sul fatto che sembro stanco, e che considera Trump un “vero americano”; da Sami, l’immigrato egiziano che, con la sua delicata voce vibrante, dice che Trump “non deve niente a nessuno”. Mi piacciono questi tizi. Per essere dei nazionalisti esaltati, sembrano essere a conoscenza del fatto che tutto al momento è contro di loro.

Tutto è ancora più sconcertante – e snervante – quando Jeff, con lo stesso tono amichevole, parla di “danni collaterali” e di perdita delle regole di ingaggio nelle zone di combattimento, e Sami dice che dovremmo iniziare a bombardare i territori dell’Isis per “ucciderli tutti”, e la giovane e sorridente Leah sostiene, illuminandosi, che sosterrebbe con orgoglio la costruzione del muro al confine con il Messico.

Camminando verso Racine, sento un altro “Fuck Donald Trump”, questa volta da un camioncino, sottolineato da una squillante suonata di clacson, con l’autista che ride e agita il pugno in aria mentre passa.

Un cordone di poliziotti inizia a passare per le strade, scatenando un applauso improvviso dalla folla. Un’altra macchina suona il clacson, mentre urla qualcosa di incomprensibile a due tizi con dei cartelli, padre (“Hillary Should Be Indicted”) e figlio (“What PART of Illegal Do You Not Understand?”).

«Cosa vi hanno detto?»

Alan, il padre, ha dei baffi folti e un cappellino nero con scritto “Trump for President”. «Ha detto che siamo razzisti», dice la moglie, una donna biondissima che appare da dietro il cartello, come l’assistente di un prestigiatore.

I miei occhi si spostano sul cappellino del figlio, con la bandiera di battaglia confederata.

Mentre Alan mi spiega come i senatori stiano usando la Virginia come un fondo di riserva, una specie di professore di tecnica in coda inizia a urlare verso di me, dicendo che la stampa “distorce”. La moglie di Alan è allarmata da questa possibilità e, mettendo una mano all’orecchio del marito, gli bisbiglia furiosa di tacere, per paura che la questione esplosiva della Virginia cada nelle mani sbagliate.

Capisco i loro sospetti, mentre mi stuzzicano con diverse domande sulle mie simpatie politiche. Queste persone sono abituate a vedersi ridere in faccia, e Trump l’ha fatto un suo cavallo di battaglia, dicendolo più e più volte durante i suoi comizi, per aizzare il loro odio contro i media – una tattica low-cost da mettere in piedi in un Paese che non ha mai apprezzato molto i media, comunque. D’alto canto, Alan sembra parecchio stupido. Più tardi, in mezzo al polverone, mentre cerca di farsi largo in mezzo all’arena, sempre con il suo cartello in mano, in segno di ribellione, un protestante dai capelli lunghi gli urla contro, «Il tuo cappello è made in China!».

È una buona giornata per i contestatori che su trovano ai bordi della strada.

«Godetevi il vostro hate party!»

Un supporter di Trump con una maglietta che riprendere il logo dei Ghostbuster risponde urlando «Boooooo!» dall’altra parte della strada.

Per me è quasi ora di entrare; spero che l’arena non raggiunga la massima capienza prima che riesca a entrare. Chiedo a un giovane impassibile contestatore, con una cresta rossa e un naso da pugile quello che pensa dei supporter di Trump.

«Si merita quello che sta per succedere».

A parte la mancanza di birra e la presenza dei servizi segreti, il comizio sembra una partita di college basket. Non degli UIC Flames, la squadra dell’università di Chicago. Qualcosa di più caucasico, come il match finale di Hoosiers – Colpo vincente.

Hoosiers - Jimmy Chitwood's final shot

Finalmente entro al Pavilion, mentre i protestanti anti- Trump, ora armati di megafono, urlano slogan come “Mein Trumpf!”, “La gente dice che non è corretto paragonare Trump a Hitler — non è corretto per chi?”, “L’America non è mai stata grande!”

I supporter di Trump sembrano più concentrati sulle loro cosce di pollo.

Cammino dentro l’arena; c’è una balconata, con qualche avvoltoio di Trump che guarda verso i posti del mezzanino. La parte aperta a tutti è piena per un quarto, con tutti che si accalcano vicino al palco. Ad occupare la zona di metà campo ci sono i media, separati da transenne di metallo, con dozzine di giornalisti che scrivono sui loro laptop. I cameramen e chi si occupa delle dirette gironzolano su una piattaforma sopraelevata, al livello del palco di Trump.

Inizio a parlare con un uomo sorridente che mi ricorda Harpo Marx. Sta girando in tondo, sventolando un pezzo di carta con scritto, “Viva Mexico, Viva America, Viva Trump”.

«Trump è pro-Mexican. L’immigrazione, dobbiamo farla legalmente. La famiglia è molto importante… Alcuni miei parenti non hanno documenti», mi dice.

Sono sorpreso. «Visto che non hanno documenti, cosa ne pensi del fatto che Trump voglia deportarli?»

«Dovranno tornare a casa, ma poi torneranno. Sto cercando di trovare un posto di lavoro per loro. Hockey!»

«Hockey?»

Annuisce.

«È un business messicano, l’hockey?»

«Yeah!» Fa un passo avanti, sorridendo. «Sapevi che il 90% di tutte le mazze da hockey ufficiali utilizzate negli Stati Uniti sono fatte in Messico?»

Non lo sapevo, ma improvvisamente un’esplosione di boo arriva dal palco di destra. La massa si sposta per occupare tutto lo spazio attorno all’azione, dove i protestanti presenti all’esterno dell’arena si sono fatti strada, dentro l’arena.

Si sono camuffati, con poco sforzo, diverse file nell’angolo nord-ovest del mezzanino sono occupate da un gruppo di circa 15 musulmani che ho visto fuori, con le ragazze in eleganti hijab. Nelle prossime ore, sempre più giovani sarebbero arrivati lì, la maggior parte di loro nere o latine, più un triste giovane di origini indiane, con un cartello doloroso, con scritto semplicemente “1492”.

Guardo verso la folla, dove trovo tre fratelli che ho incontrato fuori – Muhammed, Ibrahim e Jordan — che vengono costretti a camminare sulle scale. È surreale vederli con le loro maglie “Muslims United Against Trump” passare vicino al tizio con la maglietta “Stomp My Flag and I’ll Stomp Your Ass”, che bacia la sua ragazza.

«Non possiamo avere un presidente con queste vedute. Non siamo solo noi musulmani a protestare, sono tutti», mi ha detto prima Muhammed.

«Volete fare una protesta all’interno dell’arena?»

«Una protesta silenziosa. L’Islam è pace. E pacifica sarà la nostra protesta».

Pacifico non è il modo in cui vengono cacciati; per usare un eufemismo, sono stati semplicemente presi per le giacche, ma mentre uscivano, la gente fischiava contro di loro come si farebbe contro un lottatore di wrestling particolarmente odiato.

Cori inneggianti a “USA! USA!” si iniziano a sentire, mentre i cattivi vengono portati fuori dal palazzo.

Sorprendentemente, il parterre non sembra riempirsi, almeno non con i supporter di Trump. Ma il numero di contestatori continua ad aumentare.

Precedentemente, una giovane pro-vita, Leah, mi ha confessato di avere una notizia per me. Mi suggerisce, «Sto cercando i manifestanti e sto avvisando le persone che conosco. Verranno arrestati», mi ha detto con un ghigno soddisfatto.

Inizio a capire cosa potrebbe succedere. I giovani sostenitori di Trump iniziano a riempire il vuoto lontano dal palco, andando verso una zona completamente piena di contestatori. Si urla sempre di più, faccia a faccia, e alla fine lo scontro diventa fisico – qualche spinta e qualche piccolo scontro. La polizia periodicamente si fa strada in fondo al palazzo, a volte cacciando fuori dei manifestanti, a volte facendoli allontanare dalla folla, ascoltando le loro ragioni.

Un uomo di mezza età, con dei sandali, una canotta e il peggior parrucchino che abbia mai visto, nascosto sotto il suo cappellino rosso con scritto “Make America Great Again”, pattuglia il perimetro, urlando assieme agli altri sostenitori di Trump: “I vostri leader sono rossi!”, “L’odio arriva da voi”, “Se siete senza documenti perché non tornate a casa?” e “Fuori dal mio Paese!”.

Mi avvicino al team di sicurezza di Trump, che sta parlando con un suo portavoce, e ascolto la loro discussione.

«Puoi chiamare lo strike team?», chiede il portavoce, usando un termine strano che apparentemente indica i volontari di Trump.

Uno degli uomini delle sicurezza sospira. «Stiamo facendo del nostro meglio per isolarli, ma tutta questa sezione…», e la sua voce si abbassa.

Ho sete, ma l’acqua costa 4 dollari e 50. Dall’unico rubinetto che trovo sgorga un filo d’acqua, giusto per bagnarsi le gengive. Mi sento con lo stomaco sotto sopra, depresso, nauseato e Trump non è nemmeno arrivato.

Poi succede qualcosa. Un uomo sale sul palco, finalmente – il primo che ho visto da quando sono qui. Ma non è Trump.

«Mr. Trump è appena arrivato a Chicago e, dopo un incontro con le forze dell’ordine, ha deciso che, per la sicurezza di tutte le decine di migliaia di persone che sono all’interno e attorno all’arena, che l’incontro di oggi è posticipato…»

Un mormorio triste e sconfortato riempie la sala e non fa sentire tutto quello che lo speaker sta dicendo. Un teenager nero scavalca le transenne e corre verso il palco, alzando le braccia e ballando.

Guardo i sostenitori di Trump attorno a me. Sono tutti in silenzio.

Vedere tutte queste persone in silenzio — che stanno lentamente passando dallo shock al dolore – è, a quanto ho scoperto, un’esperienza inquietante.

È come guardare una di quelle foto di una partita di baseball, che cattura il momento esatto in cui una mazza atterra nella folla, con ogni volto fermo in un’espressione diversa, innaturale, di panico.

La prima dimostrazione che qualcuno inizia a capire quello che è successo arriva quando una coppia di anziani, in silenzio, si alza e lascia il palazzo, salendo le scale di fianco a me. La parte in fondo del palazzo è pieno di manifestanti, senza fine, e adesso sono gli inni di Bernie a risuonare nell’auditorium.

Un uomo con dei pantaloni mimetici sta in piedi con la bocca aperta in una smorfia.

Chaos erupts at Donald Trump rally in Chicago

È chiaro cosa stanno sentendo le persone in questo posto: completa umiliazione dei fedeli di Trump (alcuni di loro presenti dal giorno precedente) per mano di uomini e donne neri, latini e musulmani che sono stati presi in giro, disprezzati e schifati agli altri meeting, arrestati durante altre proteste, chiamati feccia, stupratori, terroristi, schifosi, a Chicago e in altri luoghi.

Mi aspettavo violenze, mi aspettavo arresti – entrambe le cose adesso stanno succedendo all’interno dell’arena – ma non mi aspettavo che Trump si potesse tirare indietro. Ma è successo, e tutti quelli che sono in quella stanza se ne sono accorti. Trump è stato sconfitto, la sua facciata da duro è stata intaccata, i suoi piani disfatti.

Il nome “Trump”, scritto in oro sulla facciata del suo grattacielo sul Chicago River, è diventato simbolo di un Mussolini dai torni arancioni, che se l’è appena data a gambe sul suo jet – tutto perché si sono presentate abbastanza persone da causargli problemi, obbligandolo a subirne le conseguenze.

I sostenitori di Trump iniziano a riprendersi. Un tizio sconvolto chiude le mani a pugno e le scuote, urlando, «Socialisti!». La polizia inizia a riempire i corridoi. Cori inneggianti a «Bernie!» adesso coprono quelli che urlano «Trump!».

La gente inizia a lamentarsi mentre escono dal palazzo. “Vaffanculo”, “Hey, ero in prima fila”, “Questo è quello che ottieni da 50 anni di leadership democratica”, “Sono tutti disoccupati”.

Dopo circa mezzora in cui le macchine dei manifestanti hanno bloccato quelle dei sostenitori di Trump, le auto iniziano a uscire dal garage. Le strade sono piene da ogni lato dai cavalli della polizia, che subiscono gli insulti e le prese in giro dei manifestanti.

“Buona serata!”

Tornando a piedi in stazione, vedo un addetto stradale che, da solo, raccoglie i coni del traffico. Tutto è tranquillo. Una macchina che pulisce le strade è l’unica che si vede in giro. Ed è alle prese con la sola cosa che Trump ha portato a Chicago venerdì sera. Merda di cavallo.

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