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Danzando con l’apocalisse

Cosa lega la bomba atomica celebrata da 'Oppenheimer' alla donna che inventò la danza moderna? Ce lo spiega Costantino Della Gherardesca ricordandoci che i veri pionieri sono i disadattati della comunicazione

Foto: H. Armstrong Roberts/ClassicStock/Getty Images

Ai tempi dell’antica Grecia, l’etica era una disciplina legata alla guerra, così come il concetto di “valore”. Ai nostri giorni, l’etica è legata alla farina integrale. Nonostante io sia figlio di culatta del Mulino Bianco, ogni tanto mi fingo figlio dello spirito dei tempi e, quindi, della farina integrale. E in quelle circostanze mi pongo il dubbio del Black Friday: come mai per indicare il giorno in cui siamo sollecitati a comprare frullatori e vestiti fuori stagione si è scelto lo stesso colore di quel martedì del 1929 in cui crollò Wall Street? Con tutti i colori che ci sono, non sarebbe stato più opportuno chiamarlo “Chartreuse Friday”?

Nell’ottobre del 1927, molto prima che nascesse il Black Friday, Isadora Duncan, la donna che creò la danza moderna liberando la danza stessa dal balletto, morì in un tragico incidente d’automobile: la sua lunga sciarpa si inceppò nelle ruote della sua automobile coupé, scaraventandola fuori dal veicolo e de facto impiccandola (le si ruppe il collo). Si trattò di una pura coincidenza o di un ammonimento divino? Forse Duncan (o il cosmo) voleva metterci in guardia sui rischi della tecnica?

Negli anni a venire la tecnica, che secondo gran parte della filosofia continentale vive di vita propria, sarebbe diventata sempre più potente e, in alcuni casi, distruttiva. Non per scelta dell’uomo, ma per sua stessa natura. In pochi colsero il monito che fu l’auto-impiccagione involontaria di Isadora Duncan. Tra questi c’era un anziano Heidegger, che nel 1966, davanti alla foto della Terra vista dallo spazio scattata dalla Nasa, disse all’entusiasta giornalista di Der Spiegel: «La tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla Terra» Eppure, nonostante il guastafestismo di Heidegger sia più vicino al romantico luddismo del nostro presente, credo che la prematura morte di Isadora Duncan sia stata una frattura storica molto più evocativa e simbolica della foto della Terra vista dallo spazio. Soprattutto oggi che siamo venuti a conoscenza della storia delle povere ragazzine travolte dall’esplosione di Trinity, la prima bomba atomica.

A quaranta miglia dal sito del test nucleare reso nuovamente celebre da Oppenheimer di Cristopher Nolan, infatti, si trovavano le camerate di un corso di danza estivo per ragazze. Alle 5.29 del mattino del 16 luglio 1945, mentre nel deserto di Jornada del Muerto in New Mexico l’esercito degli Stati Uniti detonava Trinity, l’onda d’urto scaraventò le ragazzine giù dai loro letti a castello. Le giovani aspiranti ballerine uscirono all’aperto e si ritrovarono davanti a uno spettacolo miracoloso: dal cielo piovevano dei caldi fiocchi bianchi. Le bambine li raccolsero a manciate e cominciarono a giocarci. Erano convinte che fosse neve. «È calda perché siamo in estate» si dissero tra loro, anglofone figlie dell’empirismo di Hume, e continuarono a giocare rotolandosi per ore in quella neve miracolosa. Le più vanitose la applicarono sul viso, una maschera piovuta dal cielo, speranzose di effetti imbellenti à la Elizabeth Arden. Non avevano idea che si trattasse di fallout, la ricaduta radioattiva. Per tutto il resto di quell’estate, i loro corpi pieni di vita e innocenza continuarono ad assorbire radiazioni mortali mentre si muovevano a tempo di musica. Solo una di queste ragazzine ha superato i trent’anni.

Il Trinity test è stato un punto di svolta nella storia umana, una dimostrazione del potere distruttivo che la tecnica era in grado di scatenare. Eppure, mentre il mondo tremava per l’orrore della bomba atomica, c’era chi la considerava un’occasione per il cabaret dadaista. Il 28 giugno 1953, sulle pagine dell’Oakland Tribune apparve una serie di fotografie intitolata Angel’s Dance in cui Sally McCloskey, una showgirl del Sands Hotel di Las Vegas, esegue una danza interpretativa in cima al Picco dell’Angelo, nel deserto del New Mexico. Mentre McCloskey si sbraccia inguainata in un body nero, alle sue spalle si può notare una strana nuvoletta. Non è un segnale di fumo né un annuncio di pioggia che attraversa il cielo, ma quel che resta del fungo atomico liberato dalle detonazioni del test nucleare Dixie.

Come le ragazzine della scuola di danza, anche McCloskey stava ballando a una sessantina di chilometri dall’esplosione. L’unica differenza è che lei non era lì per caso. Come recita la didascalia dell’Oakland Tribune, McCloskey è lì per «interpretare a ritmo di danza il più grande dramma dei nostri tempi. A sovrastare la sua figura sinuosa e saltellante, infatti, c’è un dettaglio che non sfuggirà a nessuno: la pallida nuvola prodotta da un ordigno atomico che è appena esploso a quaranta miglia di distanza».

Sally McCloskey non era certo la prima ballerina del Bolshoi, ma una figlia del sottoproletariato della suburra americana nei suoi anni più creativi. Ma tra Sally e Isadora c’è una linea di continuità, perché Duncan è stata l’apripista cronenberghiana di McCloskey: ha usato il suo corpo per raccontare una storia dalle mille sfaccettature, per trasmettere emozioni e trasformarsi in un potente simbolo della tensione tra tecnica e umanità. In cambio dei pochi dollari che le avrà passato il fotografo, McCloskey si è presa gioco della scienza e dell’inevitabilità del progresso, ricordando che la vita non è solo una continua ricerca di conoscenza e, quindi, di potere. E lo ha fatto da una posizione di disagio sociale, visto che – soprattutto in quegli anni – una showgirl era a tutti gli effetti una persona emarginata dalla società, come oggi lo sono i vagabondi, gli esibizionisti e i burloni che vivono ai margini dell’era dell’informazione. Eppure paradossalmente, oggi come allora, sono proprio i disagiati ad avere più chance di sopravvivenza in questo Brave New World perché capiscono che l’informazione non è mai reale, che è sempre soggetta a interpretazione e manipolazione.

Questo è il fil rouge che unisce la madre della danza interpretativa Isadora Duncan, le bambine che si rotolavano nella neve radioattiva e Sally McCloskey: ballerine che (più o meno consapevolmente) hanno usato i loro corpi per spiegarci come la tecnica modella, stravolge e condiziona le nostre vite.

Non date retta a quei maschi quarantenni che ne dimostrano 25 e spiegano l’intelligenza artificiale su YouTube, o a quella gente che fa i Ted Talk anche se meriterebbe il 41-bis: non sanno quello che dicono e non sono i pionieri della modernità che vorrebbero venderci. I veri pionieri sono i disadattati della comunicazione: uno stuolo di locuste inconsapevoli, proiettate sul futuro e pronte a usare il progresso come mezzo di sopravvivenza. Le persone meglio attrezzate a navigare nel caos e nell’incertezza dell’era dell’informazione fanno parte di quel sottoproletariato tanto odiato da Marx: puttane, zingari, barboni e ladri. In una parola: creativi.

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