La Maremma non urla. Mormora. Resiste. Cresce a modo suo, fuori dai riflettori del turismo di massa, lontana dai flussi delle grandi denominazioni toscane come Chianti, Brunello o Bolgheri. «È una terra vasta — oltre 450.000 ettari nella sola provincia di Grosseto — dominata da boschi (45% del territorio) e modellata da mani contadine più che da piani industriali», racconta Luca Pollini direttore Consorzio Tutela Vini della Maremma Toscana.
Un luogo dove la ruralità non è folklore, ma presente quotidiano. Il vino è ancora storia di famiglia e la biodiversità è reale, basti pensare che il 40% del territorio è occupato da boschi e aree verdi dove oltre il 44% delle superfici agricole è condotto secondo metodi biologici. In mezzo a tutto, però, c’è ancora domani. «Nel 2011 nasce la DOC Maremma Toscana, che oggi rappresenta un territorio di sperimentazione e rinascita. Ma la vigna non è tutto: in Maremma, l’olivo regna ancora incontrastato con quasi 18.000 ettari coltivati, contro i 9.000 della vite (2%). Tra le eccellenze, spicca l’olio Seggianese DOP, figlio dell’Olivastro Seggianese che cresce sulle pendici dell’Amiata», precisa Pollini. E poi ci sono i PAT, i Prodotti Agroalimentari Tradizionali: «La provincia di Grosseto è la più ricca di prodotti della Toscana, con una lista che va dal biscotto salato di Roccalbegna al fagiolo di Sorana». Ognuno è memoria, geografia, identità. È cucina povera, certo, ma profondamente evoluta: l’acquacotta dei carbonai, il tortello maremmano, piatto bandiera della zona, con ripieno di ricotta ed erbette, ricette di un popolo che ha imparato a trasformare il poco in molto.
Tradizioni culinarie locali che nel tempo certo hanno ritrovato nuove radici e nuove interpretazioni, senza tuttavia cambiarne la vera essenza. «Mi sono sempre battuto per portare avanti la tradizione del territorio, valorizzando ogni singolo prodotto – racconta Luigi Masci, titolare, insieme alla moglie Antonella, di Agrieturia Enoteca Ristorante ad Albinia (GR). E il nome dato alla nostra attività lo spiega bene. Agrieturia, infatti, sta per agricoltura, territorio, radici.

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Nato cinquant’anni fa come punto vendita delle cooperative locali, questo luogo è diventato negli anni molto più di una semplice enoteca o gastronomia. Si è trasformato in un presidio culturale del gusto, un avamposto “dal produttore al consumatore” quando ancora era un concetto di nicchia. Nel 2012, l’alluvione ha cambiato tutto. Le acque hanno portato via molto, ma non la determinazione. Da quella tragedia è nato qualcosa di nuovo: un ristorante integrato, per dare la possibilità a chi acquistava i prodotti locali di assaporarli anche a tavola.
Una cucina fatta di ricette tramandate da nonna a nipote, come il tortello maremmano, il picio, piatto tipico della bassa maremma, pasta fresca condita con sugo di carne, o l’immancabile acquacotta. Qui, vengono soprattutto serviti prodotti a Km Zero, come per esempio il pecorino del caseificio di Roccalbegna. Oggi il menu si è ampliato, ma il cuore è rimasto lo stesso. C’è la bottarga di Orbetello, presidio Slow Food. Le pappardelle al cinghiale fatte in casa. Il baccalà cotto a bassa temperatura, per preservarne l’anima. La trippa maremmana, e poi la carne: il peposo maremmano « è un piatto che richiede tre o quattro ore di cottura in cui utilizzo come ingrediente il muscolo nobile del manzo, conosciuto come il cappello del prete, a cui poi io aggiungo il Morellino di Scansano», spiega Masci.
Per anni la Maremma ha vissuto una marginalità geografica che ne ha limitato lo sviluppo turistico e commerciale. La mancanza di infrastrutture ha isolato le sue campagne dal resto della Toscana, costringendola a rimanere fuori dai circuiti enogastronomici più redditizi. Ma forse è proprio questa lentezza ad averla preservata. Oggi qualcosa si muove. Viaggiatori curiosi cercano esperienze autentiche, lontane dalle strade battute. E soprattutto, c’è una nuova generazione che torna a lavorare la terra: giovani con lauree in tasca e visioni contemporanee, pronti a trasformare le aziende di famiglia in esempi di ruralità innovativa.

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Se c’è una storia che racconta bene questa transizione è quella della Cantina Santa Lucia. Fondata nel 1980 da Luciano Scotto — in onore della nonna che gli diede il coraggio di osare — l’azienda affonda le radici nell’Argentario. «I primi documenti e le prime compravendite da parte di uva dei nostri familiari risalgono al nostro trisnonno, che si chiamava Giuseppe Scotto. Sono del 1898. Di tradizione la nostra famiglia ha sempre commerciato uva», racconta Luca Scotto. La svolta arrivò quindi quasi un secolo dopo. «Quello che siamo oggi lo dobbiamo a mio padre Luciano che ha iniziato la prima produzione di vino verso la fine degli anni Settanta come autodidatta. La curiosità, per quanto riguarda la storia della nostra azienda, è che mio nonno non era molto favorevole all’iniziativa di mio padre. Tant’è che per le prime vendemmie mio padre si ritrovò ad acquistare l’uva da mio nonno. Tutto ciò lo rendeva indipendente e libero di sperimentare e aprire una nuova strada. L’unica a supportare e incoraggiare mio padre fu sua nonna, Lucia, da cui l’azienda prende il nome».
Oggi la cantina è nelle mani dei figli Lorenzo e Luca, che hanno trasformato i 45 ettari di vigneti sparsi tra Fonteblanda, Collecchio e Cupi in un esempio virtuoso di impresa agricola familiare moderna. La gamma è ampia ma territoriale: dal Morellino di Scansano al Vermentino, fino a chicche enologiche come l’unico Metodo Classico da uva Ansonica interamente prodotto in azienda. E poi c’è il Brigante Vermentino, simbolo della cantina. Ma Santa Lucia è anche un’esperienza. «Ogni giovedì sera», conclude Luca, «organizziamo dei wine tour dove apriamo la nostra cantina ai vari ospiti cercando di trasmettere loro la storia della nostra azienda e la degustazione dei nostri vini».

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Se Santa Lucia è l’anima radicata della Maremma bassa, Ampeleia è il cuore selvatico della Maremma alta. Siamo a Roccatederighi, nel mezzo delle Colline Metallifere — oggi Geoparco UNESCO — dove i vigneti salgono fino a 600 metri e si confondono con il bosco. Nata nel 2002 da un’idea di tre amici trentini, Elisabetta Foradori (la “signora del Teroldego”), Giovanni Podini e Thomas Widmann, Ampeleia è un progetto agricolo, ambientale e culturale. I suoi 35 ettari di vigna sono coltivati in modo biologico e biodinamico e le fermentazioni avvengono in cemento grezzo, senza lieviti aggiunti, nel rispetto assoluto della terra.
«I fondatori sono arrivati dal Trentino e hanno cercato un posto che fosse libero, fuori da grandi storie, grandi tradizioni vitivinicole. Le nostre vigne, infatti, sono divise in quattro nuclei principali che si sviluppano verticalmente. Andiamo, quindi, da un minimo di 250 metri sul livello del mare fino 600 metri. Parliamo di alta collina e anche questo è molto differente rispetto alla Maremma più tradizionale che abbiamo anche in mente», spiega Maria Giulia Songini. Tutto è cominciato con il Cabernet Franc trovato per caso, oggi il fiore all’occhiello esplorato in micro-vinificazioni cru per raccontare le mille sfumature dei suoli etruschi.
«Questo tipo di uva, non specificatamente toscano, lo abbiamo trovato qui perché Ampelaia nasce dalle ceneri di una azienda agricola dove allevavano animali e i precedenti proprietari avevano piantato questa piccolissima parcella di vigna. È stato un incontro fortunato perché ci ha insegnato tanto di questo territorio. Questa è un’uva che a seconda di dove la metti prende aspetti, forme ed espressioni molto diverse. In qualche modo, quindi, l’abbiamo aiutata a esprimersi e lei ha aiutato noi a capire con che tipo di suolo ci stavamo confrontando». Il nome Ampelaia viene da antelos, che è la parola greca per la pianta della vite. «Con questo nome volevamo sottolineare il fatto che il nostro approccio nel fare vino è veramente tutto in vigna e parte dalla relazione quasi con le piante. Il nostro obiettivo è fare vini che siano un’interpretazione molto fedele di quello che succede sul campo».
L’azienda si sviluppa su 120 ettari in totale con più di 80 ettari di bosco e prato: «Abbiamo lasciato parecchio spazio alla natura». Fra i vari vini che vengono prodotti a troviamo l’Alicante Nero (Grenache), «coltivato qui quando nessuno in Toscana ci avrebbe scommesso», e le bianche Ansonica, Trebbiano, Malvasia. Nel 2022, Ampeleia ha aperto anche un ristorante agricolo Ampelaia Vini e Cucina. «Proponiamo un menu molto piccolo con pochi piatti, materie prime locali, una pasta ripiena fatta con farina aziendale e stracotto di vacca maremmana, simbolo di una cucina che riflette l’eleganza ruvida del vino». Ma Ampeleia è soprattutto comunità. Con 17 collaboratori stabili che lavorano per alimentare un ecosistema rurale che prova a immaginare un’alternativa concreta al turismo mordi-e-fuggi.
Aspra, fiera, a volte complicata. E probabilmente in queste qualità che si esprime l’assenza genuina del territorio. Il futuro della Maremma si gioca sulla capacità di raccontare il proprio valore senza svendersi. Di restare fedele alla terra, ma con lo sguardo aperto sul mondo. Di coniugare memoria e innovazione, biodiversità e impresa. In un’epoca in cui tutto sembra dover cambiare in fretta, la Maremma ci insegna che la vera rivoluzione è restare. Restare fedeli, restare presenti, restare liberi. Con le mani nella terra e lo sguardo lontano.








