Contrariamente agli animali ibernanti, che all’arrivo dell’autunno si preparano a entrare in letargo, gli chef, con l’inizio della stagione fredda, si risvegliano. Mettono il naso fuori dalle tane per provare a capire cos’è successo nel mondo durante un anno trascorso davanti ai fornelli, mentre con un occhio sempre sul telefono i loro uffici stampa trattengono il respiro, scrivono e riscrivono comunicati che forse manderanno, o forse no. È un rito che si ripete ogni anno, eppure conserva intatto il suo magnetismo: nel giro di poche ore, poche parole possono cambiare la traiettoria di una carriera. “Una stella”, “due stelle”, “tre stelle”. Un libretto rosso non aveva il potere di cambiare le vite dai tempi di Mao.
Se da un lato c’è ovviamente un aspetto non trascurabile di ambizione, competitività e (diciamocelo) vanagloria, la realtà è che l’impatto economico di questo tipo di riconoscimento può davvero cambiare il futuro di un ristorante. Con l’arrivo della prima stella Michelin, si verifica spesso un aumento significativo sia del numero di clienti che dei prezzi e della redditività complessiva. Le voci dell’industria sussurrano che diventare «ristorante stellato» consente di alzare i prezzi del menu di circa il 30% rispetto al livello precedente, con ulteriori incrementi simili nel passaggio a due o tre stelle. Allo stesso tempo, l’accreditamento Michelin agisce come un potente strumento di marketing: si stima che un locale registri un +20% di domanda con una stella, +40% con due stelle e fino a +100% con tre stelle.
Questi effetti, tuttavia, non sono automatici né sempre sostenibili. Mantenere gli standard — ingredienti di altissima qualità, brigata qualificata, servizio impeccabile — comporta costi elevati, e alcuni studi segnalano che i ristoranti stellati presentano anche un rischio maggiore di chiusura rispetto a quelli non stellati. Resta però una scommessa che vale la pena di affrontare: una sfida che si complica a ogni gradino e che, proprio per questo, diventa più stimolante.
Se ogni anno si moltiplicano gli articoli sull’impatto della stella, esiste però un club ancora più esclusivo — di cui forse si parla poco anche per via del numero ridotto di membri: quello dell’élite che di stelle ne ha tre. Cosa significa, oggi, davvero, conquistare la terza stella? E soprattutto, cosa succede dopo, quando il lavoro ricomincia?
Valeva un viaggio, oggi vale un destino
È storia nota che all’inizio le stelle Michelin non avevano nulla a che vedere con la gloria, gli chef in lacrime o le cerimonie in smoking, bensì soltanto sull’incentivo nel consumo di pneumatici. Nel 1900 i fratelli André ed Édouard Michelin, che di mestiere vendevano gomme, si chiesero: come convincere la gente a consumare più gomme? Facile: facciamoli viaggiare. Così nacque la prima Guida Michelin, una sorta di manuale per automobilisti intraprendenti: c’erano dentro mappe, meccanici, pompe di benzina e – per chi voleva concedersi una sosta degna di questo nome – qualche indirizzo di alberghi e ristoranti lungo le strade francesi. Le stelle arrivarono solo nel 1926, e all’inizio ce n’era una sola, assegnata ai ristoranti “di buona cucina”. Poi, nel 1931, si passò al sistema a tre livelli, con tanto di definizioni che sono ormai leggenda:
Una stella: “una cucina molto buona nella sua categoria”
Due stelle: “una cucina eccellente, merita una deviazione”
Tre stelle: “una cucina eccezionale, merita un viaggio apposta”
“Vale il viaggio”. Bastava quella frase a raccontare tutto: un ristorante capace di giustificare chilometri, deviazioni, aspettative. Novant’anni dopo, quella stessa formula conserva un’aura poetica, ma nel mondo reale ha cambiato peso. Oggi “vale il viaggio” si è trasformato in “vale uno stipendio”, “vale una vita”, “vale la fatica di un’intera squadra”. Soprattutto in Italia, dove molti sostengono che rispetto alla Francia, la terza stella sia stata assegnata con estrema parsimonia. Le vie della Michelin sono imperscrutabili e quindi non si discute, ma Oltralpe i tristellati sono attualmente 31, più del doppio che nello Stivale.
Infatti nell’edizione 2025 i tristellati italiani sono quattordici, con l’aggiunta alla costellazione di Casa Perbellini – 12 Apostoli di Verona, che raggiunge Villa Crespi (Antonino Cannavacciuolo, Orta San Giulio), Piazza Duomo (Enrico Crippa, Alba), Da Vittorio (Fratelli Cerea, Brusaporto), Le Calandre (Massimiliano Alajmo, Rubano), Dal Pescatore (Famiglia Santini, Canneto sull’Oglio), Osteria Francescana (Massimo Bottura, Modena), Enoteca Pinchiorri (Firenze), La Pergola (Heinz Beck, Roma), Reale (Niko Romito, Castel di Sangro), Uliassi (Mauro Uliassi, Senigallia), Enrico Bartolini al MUDEC (Milano), Quattro Passi (Fabrizio Mellino, Nerano), Atelier Moessmer Norbert Niederkofler (Brunico) e, appunto, Casa Perbellini.
Ed è proprio in questo ristorante che ci siamo recati, sedendoci allo chef’s table più bello d’Italia per farci raccontare dallo chef come è cambiata la vita in un anno da tristellato, e come si arriva a salire sul gradino più alto del podio.

Foto: press
La storia di Perbellini e dei 12 Apostoli
Quella di Giancarlo Perbellini è una storia che intreccia talento, pazienza e ritorni. Nato a Bovolone, in provincia di Verona, figlio di una famiglia di pasticceri, si forma alla scuola alberghiera di Recoaro Terme e, dopo esperienze fondamentali tra Italia e Francia — tra cui la tappa all’Ambroisie con Bernard Pacaud — torna nella sua regione per dare forma a un’identità personale.
Negli anni Ottanta, ancora giovanissimo, lavora proprio ai 12 Apostoli, ristorante storico nel cuore di Verona, fondato nel 1750 e frequentato da intellettuali, artisti e politici. Lì muove i primi passi, prima di aprire Casa Perbellini nel quartiere di San Zeno, conquistando due stelle. Nel 2023, il cerchio si chiude: Perbellini riporta il suo ristorante dove tutto era cominciato, nelle scenografiche stanze affrescate (scenografiche in senso letterale, essendo state realizzate da uno scenografo dell’Arena) dei 12 Apostoli. Grazie al’intervento di Patricia Urquiola il ristorante si modernizza senza tradire la propria anima. Gli spazi storici vengono restaurati, la cucina spostata, il nome aggiornato: Casa Perbellini 12 Apostoli.

La Coda di rospo marinata alla Rossini di Casa Perbellini. Foto: press
Cosa succede quando la terza stella arriva
Mangiare nella cucina dei 12 Apostoli difficilmente ha paragoni: grazie alla recente ristrutturazione, infatti, all’interno di una L composta dalle varie postazioni di lavoro dei cuochi si trovano 12 sedute eleganti perfettamente apparecchiate. Il contatto con chi lavora è quasi intimo, così come quello con lo chef. Appoggiato al pass per quest’intervista, risponde alle domande tra il check di una pietanza e il servizio di un’altra. Lo chef veneto non ha l’aria di chi racconta un trionfo. Piuttosto quella di chi descrive un passaggio complesso, un cambiamento che non riguarda solo il riconoscimento ma la gestione di tutto ciò che ne consegue.
«L’arrivo della terza stella è stato l’inizio di un percorso. Per prima cosa per esempio abbiamo dovuto imparare a gestire lo stress», dice subito con il piglio di chi nella vita fa l’imprenditore e non la chef-star. «Siamo passati dal dover gestire telefonate per trenta prenotazioni alla settimana, a quaranta-cinquanta al giorno, specialmente all’inizio. Ovviamente questo ha portato alla necessità di aumentare lo staff di sala in modo considerevole. Ma per fortuna sono modifiche che abbiamo fatto su una squadra che lavorava già bene prima».

Foto: press
“La tipologia di clientela è parzialmente cambiata: il cliente si ferma di più a tavola e le tempistiche complessive si sono allungate. Non è cambiato il nostro modo di lavorare, ma l’approccio di chi viene a trovarci. Per esempio, alcuni clienti che prima erano semplicemente entusiasti e rilassati, oggi arrivano con aspettative alte. Ci sono persone che vengono apposta per provare il ristorante perché ha ottenuto la terza stella, e questo cambia molto il clima in sala. Devo dire però che il pubblico resta trasversale: c’è chi viene solo per la cucina, e chi invece è interessato anche alla carta dei vini. In quest’ultimo caso abbiamo notato solo una leggera differenza nei comportamenti, ma non negli importi».
Poi il tema inevitabile: i prezzi.
Una domanda un po’ scomoda. I prezzi del vostro menu? Avete ritoccato verso l’alto con la terza stella? Vi dà più spazio per modificare il prezzo?
No, paradossalmente siamo tornati a quello che eravamo a San Zeno», spiega Perbellini. «Quando ci siamo trasferiti ai 12 Apostoli avevamo ritoccato i prezzi, proponendo dei menu leggermente più bassi rispetto alla vecchia sede. Ora, invece, siamo tornati ai valori di allora. A San Zeno — dove Casa Perbellini era un ristorante più raccolto, con una decina di tavoli e un’atmosfera quasi domestica — il menu degustazione costava tra i 230 e i 250 euro. Qui, nei primi mesi dopo il trasferimento, avevamo deciso di riposizionarci intorno ai 195 euro. Lo abbiamo fatto per prudenza, ma anche per una questione di percezione: il 12 Apostoli era un locale storico con un pubblico diverso, abituato a spendere cifre più contenute, intorno ai 150 euro con la precedente gestione. Non volevamo creare uno shock, volevamo che chi veniva a provarci trovasse coerenza e continuità. Dopo un anno e mezzo, con una sala più ampia e un volume di lavoro maggiore, siamo semplicemente tornati ai nostri prezzi di riferimento. Con la terza stella, però, non abbiamo ritoccato nulla: i menu restano gli stessi di prima, perché per noi la qualità ha sempre avuto quel valore, indipendentemente dal riconoscimento».

L’Astice, fagiolini, caramello di albicocca, aria di brodo di piccione e zenzero di Casa Perbellini. Foto: press
Perché le tre stelle proprio l’anno scorso, secondo te?
Un po’ il cambio di sede, un po’ sicuramente l’energia del luogo. Questo posto ha dato una spinta incredibile a tutto il gruppo. In cucina avevamo già una squadra rodata, molti ragazzi avevano lavorato con me anche a San Zeno, ma in sala era tutto nuovo: siamo passati da cinque persone a nove, e quasi nessuno conosceva questo spazio o la sua storia. È stato come ricominciare da capo, ma in un contesto che ci ha restituito tantissimo.
Il 12 Apostoli è un luogo con un’anima fortissima, non solo per la sua storia intellettuale — qui sono passati artisti, scrittori, filosofi — ma anche per la sua eredità gastronomica. Entrarci ha significato confrontarsi con un passato importante e, allo stesso tempo, farlo nostro.
Siamo cresciuti anche noi, perché spazi così ti permettono di avere una visione più ampia, di pensare in modo diverso. E devo dire che una parte fondamentale del nuovo corso è stata la pasticceria: ci tenevamo a riportarla al livello che aveva ai tempi di San Zeno, quando era un elemento identitario del ristorante. Abbiamo investito molto, passo dopo passo, senza strappi. Sono stati piccoli gradini, ma decisivi.

Foto: press
Ma quindi, vale la pena dannarsi per una stella in più?
Vale la pena? Oddio… io ho una storia un po’ particolare. Se ne era parlato tanto dell’arrivo della terza stella già nel 2007 e nel 2008, ma non l’avevo presa. Non l’ho mai vissuta come un’ossessione, non mi sono ammalato di aspettative. Erano altri tempi: c’era meno pressione mediatica, meno rumore intorno. Quando siamo arrivati qui, però, ho detto subito ai ragazzi: possiamo far bene, ma dipende tutto da noi. E così è stato. La squadra ha dato tantissimo, soprattutto perché oggi lavoro con un gruppo molto giovane rispetto a quello che avevo a Casa Perbellini. Qui lo zoccolo duro è formato da ragazzi entrati da giovanissimi, cresciuti con noi e poi, come è naturale, qualcuno ha cominciato anche a uscire dopo quattro o cinque anni. È un ciclo fisiologico, ma quello che hanno costruito insieme rimane. La loro energia è stata determinante per arrivare fin qui.

I Tortellini di Casa Perbellini. Foto: press
Parliamo del futuro. Dei giovani che bussano alla porta, che vengono a studiare, che cercano un modello.
Beh, è ovvio che ci sia interesse. Noi proponiamo una cucina moderna, ma con radici solide. Ho sempre cercato di rileggere la classicità con uno sguardo contemporaneo: è una mia fissazione da sempre. Non mi piacciono gli estremismi, preferisco muovermi sulla modernità con misura, in punta di piedi.
Forse i cuochi più giovani oggi si aspettano linguaggi diversi, più sperimentali o più diretti, ma va bene così. La cosa importante è che passano, vengono a vedere, si confrontano. È bello sentire questa curiosità, questo movimento intorno al nostro lavoro.








