Come "fregare il sistema" e campare della propria arte: intervista al Dr. Pira | Rolling Stone Italia
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Come “fregare il sistema” e campare della propria arte: intervista al Dr. Pira

Con il suo sito Fumetti della gleba è diventato una leggenda sull'internet degli anni '90. Con Rizzoli Lizard ha pubblicato un libro sul rap e gli alieni. Ma soprattutto, oggi riesce a vivere di fumetti facendo quello che gli pare

Come “fregare il sistema” e campare della propria arte: intervista al Dr. Pira

Ci sono quei cantautori come Battisti che negli anni ’70 erano visti male perché non troppo impegnati. Il tempo ci ha detto il loro vero valore. L’arte tutta soffre dello stesso complesso: deve essere impegnata per far breccia, ma spesso risulta solo impegnativa, moralista, menosa.

Il mondo del fumetto italiano così come tutti i campi della cultura ha un po’ questo complesso e se non ci fa riflettere sul presente non lo troviamo nei paginoni della cultura dei quotidiani. Sbagliato, anzi sbagliatissimo. Il Dr. Pira è la dimostrazione che è super mega sbagliatissimo.

Per chi non lo conoscesse, facciamo ordine: artista, fumettista, grafico, insegnante, su internet è un nome di culto, il suo sito Fumetti della gleba un museo del web tardo anni ’90 che vale il prezzo di ogni singolo clic. Se è un’icona nel web figuriamoci nel mondo dei fumetti, delle fanzine e delle autoproduzioni. Nonsense, disegnati male, inclini alla violenza quanto all’amore cosmico, i personaggi del Dr. Pira sono la versione politically scorrect del fumetto italiano. L’anti-Zerocalcare, il disimpegnato, che riesce a far filosofia e morale più di quanto sembri.

I suoi personaggi ci mettono al muro, smascherano le nostre ossessioni, ma invece di condannarci, ci fanno ridere.
Ad oggi il Dottor Pira può permettersi di vivere grazie ai frutti del suo lavoro. Non disdegna di pubblicare per grossi editori (La vera storia dell’Hip Hop è uscita per Rizzoli Lizard, Topo e Papero per Feltrinelli) ma è pure pioniere del Do It Yourself, e dimostra come a volte stare fuori dal mercato e crearsene uno tutto proprio, sia la mossa vincente.

In questi giorni esce il suo nuovo libro ARRIVA SERGIO】セルジオがやってくる (lo trovate sul suo sito).
Sergio è una sorta di tecnico informatico ma in versione Mr. Wolf di Pulp Fiction. Sergio risolve i problemi, siano essi una rapina, un modem che non funziona, un attacco hacker. Gli chiediamo se il giapponese del titolo è inventato e ci risponde: “Sì l’ho fatto controllare a un vero giapponese”. Benvenuti nel mondo assurdo e colorato del Dr. Pira

Anzitutto come mai Pira? E come mai dottore?
Pira è un’abbreviazione del mio cognome. Mi han sempre chiamato così: Piraccini, e il titolo lo posso usare legalmente perché ho la laurea vecchio ordinamento di 5 anni come progettista grafico al Politecnico di Milano. Anche nei documenti lo scrivo, perché mi piace.

Allora dottore, tu sei riuscito nel sogno di ogni artista, mantenerti con quello che ami, ovvero disegnare. Come hai fatto?
Per il momento sì, ma sinceramente non so dirti se ci sono riuscito veramente: tutti ci possono arrivare, ma la parte difficile è rimanerci (mi pare lo dicesse Dr. Dre, ed essendo dottore anche lui mi fido). Fino a sette o otto anni fa facevo il grafico. Era un lavoro che mi piaceva e mi riusciva, guadagnavo anche bene. Facevo già fumetti da parecchio, ma solo nel tempo libero. Poi, in un periodo in cui mi sono capitati parecchi guai anche seri, ho avuto quella che si potrebbe dire la “la crisi di mezza età”.

Ti sei dovuto reinventare, come si suol dire in questi casi?
Una specie. Ho dovuto cambiare un sacco di cose nella mia vita, per uscirne. E già che c’ero ho deciso di cambiare anche lavoro. Se avessi voluto continuare a lavorare bene come grafico, avrei dovuto mettere su uno studio e pagare dei collaboratori. Ho registrato un dominio, e il giorno che ho iniziato a fare il sito mi sono immaginato dieci anni dopo a fare quel lavoro, a curare l’immagine di aziende e imprese, e pensato che in realtà non me ne fregava niente.

Una cosa molto punk.
Semplicemente ho deciso che l’unico lavoro che avrei voluto fare in quel momento era il fumettista. Il che mi sembrava allo stesso tempo assurdo, fallimentare, visto il genere di fumetti che faccio. Ma siccome ero nel bel mezzo di una crisi di identità ho deciso di puntare tutto a dritta senza chiedermi altro, come spesso di fa in questi frangenti. Ovviamente mi svegliavo spesso nella notte pensando “ma che cazzo sto facendo, ho sbagliato tutto”, e mi capita ancora, ma penso sia normale.

Nel mondo dei fumetti era già conosciuto?
Nel giro dei fumetti le mie cose circolavano già, ma erano considerate troppo difficili da proporre: a diversi editori piacevano, ma non le avrebbero pubblicate perché pensavano che solo in pochi le avrebbero capite. Ero abituato anche io a pensare che i miei fumetti non fossero “semplici”; eppure la gente me li chiedeva, perciò dovevo trovare un modo per farglieli arrivare. Avendo fatto il grafico per tanto tempo, e avendo pubblicato un sacco di fanzines, mi è sembrato ovvio produrmi i libri da solo.

L’autoproduzione è più difficile che affidarsi a un editore. Come hai fatto?
Prima vendi poche copie, poi reinvesti i soldi in un altro libro, e vai avanti così – dopo un po’ diventa come scommettere ai cavalli. In più ci avevo preso gusto nell’attuare politiche di marketing eccentriche.

Tipo?
Con dei miei amici siamo quasi riusciti a far consegnare un fumetto da un falco, per dimostrare la superiorità dei droni biologici su quelli meccanici. Il punto non è il falco in sé, ma il fatto che ci abbiamo dedicato seriamente del tempo. Sono cose che puoi fare quando ti metti in proprio e non devi rendere conto a nessuno. In più, mi sono accorto che a parità di prezzo potevo fare dei libri molto più belli a livello di stampa e confezione, guadagnandoci molto di più rispetto a un contratto con un editore. Trovando il modo di distribuirli, la catena è chiusa, e vendendo autonomamente 300 copie il guadagno è lo stesso di 3000 copie distribuite in libreria col metodo classico. Questo mi permette di guadagnare abbastanza da non dover fare altri lavori, e allo stesso tempo mi è sufficiente un pubblico molto più piccolo.

Non hai mai avuto il complesso di non essere pubblicato da un grosso editore, visto che hanno iniziato a pubblicarti dopo che avevi fatto diversi libri da solo?
No anzi. Questo è un enorme vantaggio, se ci pensi: ti dà la libertà di fare quello che vuoi, senza dover per forza piacere al “pubblico generalista” (se davvero ancora esiste qualcosa di simile). Non è un pensiero a cui sono arrivato subito, ovviamente all’inizio speravo segretamente nel successo popolare su larga scala: in fondo è un pensiero comune valutare il successo in base al numero di seguaci. Ora credo che sia più una questione di qualità e di tempo, di quanto ti puoi immergere in una cosa che ti piace senza aver problemi, insomma. Dedicare tutto il tempo al fumetto, oltre a essere un lusso, mi ha permesso di sperimentare in direzioni che l’editoria tradizionale non avrebbe contemplato, e approfondire argomenti a cui non avrei mai avuto il tempo di accostarmi. Non solo in fatto di disegno e narrativa: per dirne una, ho fatto un’enorme ricerca mitologica sui Puffi, e ho scoperto delle cose incredibili. Mi sembra di avere appena iniziato a far la parte più interessante.
 
Parlando è venuta fuori la questione del tuo tratto. Oggi siamo abituati a collocarlo in quel filone semi ironico del “disegno fatto male” ma tu mi spiegavi che invece è una scelta stilistica. Nonostante tu venga anche dal disegno dal vero, come sei arrivato a questa sintesi?
Ho iniziato disegnando cose “realistiche”, ma allo stesso tempo mi divertivano di più le storie veloci con gli omini stilizzati, quando facevo il liceo. Idealmente, ho solamente continuato sulla seconda strada. Ovviamente sono arrivato abbastanza in fretta al limite dell’omino stilizzato: non funziona per tutte le cose.

Quando c’è poco disegno devi usare tante parole, e il fumetto diventa verboso da leggere, oltre che noioso da scrivere. Quindi ho cominciato a provare altri stili di disegno sintetici o astratti. Mi interessava già da un po’ l’arte primitiva, medievale, espressionista; non ne ero esperto, ma se non altro avevo molti ingredienti e ho cominciato a mischiarli. Mi è venuto naturale, in tutto questo, applicare dei concetti grafici ed estetici di base, ed è stato naturale farlo perché erano gli stessi che per anni avevo utilizzato per impaginare libri e fare marchi di aziende.
 
Della serie: conta più la sostanza della forma.
Mi sembra che al di là del “bel disegno”, che sanno fare già in molti, ci sia ancora tantissimo da sperimentare. Rispetto alla storia della pittura, il fumetto ha appena passato la metà dell’800. Ed è un bene, perché c’è ancora un sacco di terreno inesplorato.

Quanto ti è costato in termini lavorativi questa libertà d’espressione?
Quando ho deciso di mollare i lavori di grafica ho iniziato a disegnare continuamente, e nel resto del tempo avevo comunque solo quello in testa. Ripensandoci, credo che la mia ragazza dell’epoca e i miei amici abbiano faticato a sopportarmi. Una parte di me mi diceva che era impossibile guadagnarci, e con un’altra pensavo che non avrei voluto fare nient’altro. Perciò dormivo poco e mi svegliavo pensando a cosa dovevo disegnare.

Bukowski dice che per lui scrivere era come cagare, che non l’avrebbe mai fatto se gli avesse fatto fatica. Una cosa del genere?
Ti spiego… La mia era sicuramente una reazione ansiosa, ma dopo un po’ ho cominciato a svegliarmi all’alba con pensieri tipo: “adesso faccio una storia dove si scopre che ci sono 50 Balotelli minuscoli che però non sanno giocare a calcio”, e la disegnavo. Oppure un’intera serie di orsetti che non fanno niente ma a cui tutti vogliono bene. Insomma, non era più l’ansia del dover fare ma l’esaltazione per tutto quello che è possibile fare. Mi sono accorto che mi stavo divertendo.

In quel periodo stavo scrivendo un libro per Rizzoli Lizard e avevo un mese di tempo in tutto, d’estate. Il tema era il rapporto tra l’Hip Hop e gli alieni. Mi svegliavo presto, andavo a dormire tardi, e stavo tutto il giorno in spiaggia a scrivere. Diverse persone che erano lì con me mi dicevano che avrei dovuto fermarmi un po’, e ho pensato: sto scrivendo un libro sulle origini extraterrestri dell’hip hop, quando mi ricapiterà? Per riposarmi leggerei un libro sugli alieni, o guarderei delle interviste a Kanye West. Il resto lo posso fare più avanti. Spesso il superlavoro o il panico ti possono portare a fare delle cose assurde, ma se ti godi quella pazzia, allora sparisce la paura e diventa tutto bellissimo. Penso sia legittimo impazzire ogni tanto, finché riesci a gestirtelo. Forse è l’unico modo per scoprire cosa vuoi fare veramente, e che cosa puoi tirar fuori.
 
Come hai iniziato coi fumetti?
Ho fatto il liceo scientifico, ma passavo tutto il tempo a disegnare, fondamentalmente per non addormentarmi. All’inizio volevo fare dei fumetti realistici mezzi cyberpunk, perché ero nel pieno del trip di William Gibson e Ghost in the Shell, che era appena uscito. Così ho messo insieme una ventina di pagine, sono andato alla fiera di Lucca e sono riuscito a mostrare quell’inizio di fumetto ad Ade Capone (sceneggiatore di Lazarus Ledd). Gli ho spiegato la complicatissima trama che avevo in mente, e lui mi ha detto che sembrava interessante – è stato gentile, ero un ragazzino – ma che avrei dovuto almeno finirla per capire se potesse funzionare. Al che ho pensato: devo lavorarci dei mesi e non so nemmeno se verrà stampato? Quindi ho puntato sui fumetti fatti nel minor tempo possibile. Mi piaceva molto di più pensare che, se dopo due giorni ci fosse stato un concerto, potevo disegnare un po’ di pagine, fotocopiarle, e venderle chi c’era lì per poche lire. Anche a pensarci ora rimane una delle cose più belle. 
 
Quanto c’è di tuo nei tuoi personaggi?
Credo ci sia molto, ma non in termini autobiografici. Non mi è mai piaciuto scrivere storie su cose che mi sono accadute realmente. Non credo neanche che, quando parli di fatti reali, significhi automaticamente che ci stai mettendo qualcosa di veramente tuo. C’è un sacco di gente che ti racconta tutto ciò che gli capita con dovizia di dettagli, e comunque potresti dire di non sapere quasi niente di loro in quanto persone. Tra le cose che scrivo, quelle che mi piacciono di più sono quelle in cui non cercavo di spiegare nulla di logico, quelle alle quali ho pensato meno in termini razionali, insomma.

Sbaglio o hai una produzione sterminata di materiale?
Un buon modo per evadere la razionalità è sovraprodurre, per non darsi il tempo di riflettere sulle idee di partenza, e strutturare un arco narrativo partendo da presupposti casuali. Spesso quando rileggo delle cose che ho fatto anche solo qualche mese prima non so risalire a cosa stessi pensando in quel momento, e questo mi fa sempre ridere. Dopo un po’ è come se emergessero delle parti della tua mente che non conosci, man mano che togli dei filtri. Ci fai conoscenza, e da lì arrivi ad altre cose sconosciute. Quindi potrei dire c’è tutto di mio nei personaggi, anche se non lo sento come mio. Forse si può usare il termine “psichedelia” che, anche se ora lo si usa solo per le droghe, in fondo vuol dire semplicemente “manifestazione della mente”.

Come vorresti essere ricordato?
Mi piacerebbe entrare nel guinnes dei primati per qualcosa di molto stupido.  E che gli amici mi ricordino come una persona piacevole, mentre tutti gli altri abbiano almeno delle belle cose da leggere.

Chi sono i tuoi eroi?
Se mi capita di pensare che il mondo è brutto, penso che vivo nella stessa epoca in cui c’è Bruce Dickinson che pilota gli aerei, e allora sono felice. Allo stesso livello di ispirazione metto Lee Scratch Perry, Fenriz e Lil B. Tutti musicisti in effetti, dovrei rifletterci.

Nei tuoi fumetti degli inizi ci sono un sacco di parolacce e bestemmie. oggi le hai abbandonate. Sei più maturo o meno incazzato?
Non credo che la rabbia c’entri qualcosa con la quantità di bestemmie che mettevo nei primi fumetti. Era più semplice: mi faceva ridere usare la violenza in modo astratto e generalizzato per rendere assurde le situazioni. Non c’era l’intento di attaccare né la religione né le istituzioni, non era una cosa che mi interessava in quel momento. Inoltre, il contesto era anche completamente diverso rispetto ad oggi, quasi opposto: quei fumetti uscivano su fanzine fotocopiate e nel web 1.0, ancora privo di social. Quando avevo fatto il sito, attorno al 1996/’97, era totalmente controproducente usare un linguaggio e uno stile simile. La gente lo trovava e il passaparola telematico poteva essere al massimo su dei forum. Mi hanno segnalato i miei fumetti su forum assurdi (quello del Comune di Milano, sul forum principale dei fan del Wrestling, su un forum di fisica e su uno di cani) e in quasi tutti i casi la dinamica era: uno postava una storia, 10 persone scrivevano “ma cos’è questa schifezza”. Poi arrivava un’undicesima che scriveva “io li conosco! Sono in fissa da sempre” e faceva amicizia con quello che aveva postato per primo, nell’incomprensione generale di tutti gli altri.
 
Si stava meglio nel web di vent’anni fa?
Dopo sono arrivati i social, e le dinamiche del web 2.0 sono molto diverse, si basano su un altro genere di discussione. Sui social funziona benissimo la provocazione, e tutto ciò che crea schieramenti opposti: viene dibattuto a lungo, si diffonde e crea l’engagement tanto caro al webmarketing. Sono meccanismi noti, e sfruttati da molti, dalla politica ai notiziari. Ma secondo me rendono internet un posto molto noioso.
 
Mi sono accorto, appena arrivati i social, che le bestemmie funzionavano benissimo in termini di pubblico. Le gente faceva girare molto di più le mie storie, se le trovavano provocatorie. Ma poi mi chiedevano solo altra provocazione – nel senso il cui l’avevano interpretata loro, spesso quasi all’opposto del mio. Non sto dicendo che non mi piaccia avere tanto pubblico, ma voglio anche continuare a fare quello che mi va, senza assecondare queste dinamiche, perché non mi ci trovo. Un sacco di gente mi ha scritto “ti sei ripulito, eh? Adesso sei commerciale perché pubblichi per gli editori, perché non metti più le bestemmie?”. In realtà la mossa più commerciale sarebbe stata continuare a spingere sulla blasfemia. In  genere rispondo che grazie alla tecnologia di oggi chi vuole le bestemmie può benissimo prendere una mia storia, e aggiungerle. E’una cosa alla portata di tutti, in fondo.
 
Come è una tua giornata tipo?
Difficile dirlo in questi tempi di pandemia, prima viaggiavo molto di più. Mi sono accorto che nei 10 anni prima del covid non sono mai stato più di due settimane di seguito nella stessa città. Ora, non spostandomi, corro sempre il rischio di intripparmi troppo in quello che faccio. A volte è un rischio calcolato, altre volte mi sfugge di mano. Se non altro, il fatto che ci sia una pandemia globale mi fa pensare che non mi perdo chissà che, se disegno. Mi pare che il tempo ora sia diventato più espanso e gli eventi meno prevedibili, che è una pessima cosa per le attività logistiche, ma contemporaneamente un’ottima cosa per le attività creative.
 
Studi ancora?
La maggior parte del tempo la dedico alla creatività, e in questo comprendo il tempo che mi serve ad arrivare allo stato d’animo giusto per fare qualcosa di bello. Non è una cosa semplice come sembra, perché so che il mio non è un lavoro sicuro: il prossimo libro potrebbe andar male, il pubblico potrebbe disinteressarsi, è sempre una scommessa. Se vado a passeggiare al mare, non è perché non ho voglia di fare fumetti, ma perché mi serve per arrivare a farli nella maniera giusta – oltre ad essere piacevole, e forse proprio per questo motivo. Quindi anche quello è lavoro, in un certo senso: lo so, sembra uno stereotipo da scrittore ottocentesco, ma credo che sia anche vero. Comunque preferisco quel clichè allo stereotipo attuale del fumettista chino su una scrivania in un sottoscala e impanicato per le scadenze. Potendo scegliere, preferisco andare a disegnare al mare. Quando hai il contesto giusto, o meglio, se sei nello stato mentale giusto, vien tutto meglio.
 
Come vivi a Roma?
Ci sto benissimo. Non avrei mai pensato di abitarci e ci sono capitato, poi ci sono rimasto. Sembro tedesco, mi comporto come un tedesco, e ho anche vissuto diversi anni in Germania: tutti i miei amici erano convinti che sarei rimasto là. Poi quando sono capitato a Roma, non riuscivo a capacitarmi nemmeno io del fatto che ci stavo bene. Continuavo a vivere da tedesco, ma a Roma. Alcuni anni fa ho capito il motivo, parlando con un turista tedesco in un paesino sul litorale qui vicino: anche lui era preso benissimo del posto, ed era vestito identico a me: eravamo gli unici in camicia hawaiiana, bermuda e ciabatte ad aprile. Al che ho capito perché sto bene a Roma: non sono diventato romano, ma sono rimasto tedesco, un tedesco in vacanza però. Faccio cose da turista, ogni tanto vado in centro e faccio le foto a Piazza Navona, giro in bici sui colli, vado ai laghi a mangiare, cose così. 
 
Che ne pensi della scena dei fumetti italiana?
Non ho una percezione chiara perché non sono informatissimo. Mi piace beccare altri fumettisti alle fiere, ma spesso non so se hanno fatto un libro nuovo o se hanno vinto un premio. C’è gente che mi sta molto simpatica di cui non ho mai letto nulla. Poi magari dopo tre anni scopro che han fatto fumetti che mi piacciono tantissimo. Mi pare che ci sia molto movimento, e credo sia arrivato il momento di affrancarsi dalla sfiga che continua un po’ a velare il ruolo di fumettista. Non dico che si debba diventare sboroni o delle rockstar, per capirci, ma che diventi semplicemente una cosa bella e al passo coi tempi, come un musicista che fa della musica interessante. Ci si potrebbe integrare un po’ meglio e fare cose più belle con altri settori, come la musica per l’appunto, o anche cinema, streetwear, radio.
 
Come spieghi ai tuoi genitori il tuo lavoro?
Mi piacerebbe farli leggere a mio padre, ma è passato ad un’altra dimensione tanti anni fa. Faceva il giornalista e gli piacevano i miei primi fumetti, li leggeva quasi di nascosto perché essendo molto “scorretti” probabilmente non si sentiva di approvarli apertamente a un ventenne, ma ci rideva parecchio. Avevamo un mutuo apprezzamento reciproco di quello che facevamo, lui scriveva molto bene secondo me, e anche con un approccio molto atipico per essere un giornalista: gli piaceva, dove possibile, usare una strana forma di umorismo che non saprei spiegare, ma che è simile a una serie che disegno, Berutti. Mi ha dato anche una mano in cose pazze tipo il “Fronte di Olocausto dei Nani da Giardino” (questo non so se si può scrivere, ma sono passati tanti anni).

A mia madre piacciono molto i miei fumetti, alcuni non da subito, ma ultimamente ci vede un lato artistico e ci si è appassionata di più. Parliamo spesso di arte e narrativa, ed è una cosa che mi fa molto piacere. Ogni tanto mi dà ottimi spunti: quando hanno eletto Mario Draghi, si è esaltata e mi ha chiamato, dicendo che era contenta perché è “determinato, competente e deciso”. Non so cosa mi ha fatto ridere, forse il tono, ma sono andato subito al bar e ho disegnato direttamente quattro o cinque storie.