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Che storia, la cotoletta

Pubblichiamo un estratto di 'Storia mondiale della cotoletta' di Luca Cesari, in libreria con Il Saggiatore
costoletta alla milanese

Foto: Instagram

«Il sonno della ragione genera mostri» affermò il pittore Francisco Goya, ma nel caso della cucina, genera leggende. Da quando la cotoletta è diventata qualcosa di più di un semplice prodotto gastronomico, incarnando la veste di specialità territoriale, chiunque ha sentito il dovere di spiegare le circostanze della sua nascita. Per i milanesi, per esempio, è stato fondamentale provare che la cotoletta non era un’invenzione moderna, ma fosse già presente in città sin dal Medioevo. Una leggenda, alimentata e tramandata come verità e tradizione insieme a molte altre nei secoli.

Naturalmente queste leggende non riguardano solo la cotoletta, ma molti altri piatti della tradizione. Si tratta di storie raccontate a turisti e visitatori per spiegare l’origine di una specialità locale e hanno la funzione di riempire un vuoto conoscitivo. D’altronde siamo circondati da piatti considerati preziosi come opere d’arte – e forse ancora più famosi – e non sapere chi sia il loro autore, l’inventore, il creatore ci appare semplicemente insopportabile. È un po’ come essere davanti alla Cappella Sistina e non avere idea di chi abbia dipinto un tale capolavoro.

Foto: press

Sembra che il collegamento a radici antiche – possibilmente nobili – sia per i contemporanei un requisito fondamentale perché una specialità culinaria venga presa sul serio all’interno di un panorama gastronomico quanto mai affollato. Queste leggende esistono in primis proprio perché servono a raccontare l’antichità di una tradizione.

Non è però sufficiente che un’eccellenza gastronomica sia antica: deve essere anche strettamente collegata a un territorio preciso. La narrazione delle origini diventa così uno strumento delle comunità per raccontare loro stesse e dimostrare l’origine secolare delle fondamenta collettive. In questo modo i piatti diventano l’espressione identitaria di un territorio, collante ideale per rafforzare la coesione sociale.

Sono racconti con una precisa funzione pedagogica, utili a dare un senso più profondo alle relazioni interne a una comunità. Il loro valore sarebbe encomiabile, se non fosse per l’altro lato della medaglia: essere ritenute vere.. Certo, questa sensazione di veridicità è proprio il loro scopo principale, altrimenti perderebbero il senso di esistere, e pertanto non circolano mai come semplici «miti delle origini», bensì quali verità storiche assolute e inattaccabili, anche quando mantengono caratteri favolistici.

Eppure, se c’è un racconto, c’è anche un autore, anche quando rimane nell’ombra. Anzi, proprio per fornire i caratteri di veridicità storica di questo tipo di narrazione, l’autore deve scomparire, mentre la leggenda continua a diffondersi.

Questo capitolo ha due propositi: il primo è scovare gli autori delle leggende sulla cotoletta e il secondo è quello di smontarle pezzo per pezzo. Non si tratta di un esercizio fine a sé stesso, ma propedeutico alla ricostruzione della vera storia della nascita e dell’evoluzione della cotoletta attraverso i secoli. Purtroppo, in accordo con la legge di Brandolini l’energia necessaria a confutare una bufala è molto superiore a quella necessaria a produrla, pertanto smantellare queste leggende richiederà diverse pagine.

Un pranzo a processo
Tutto ha inizio con una lite.

Dobbiamo premettere che a Milano, a partire dall’età longobarda, convivevano due cleri: il primo, il cosiddetto ordo maior, era costituito dagli ecclesiastici addetti alla cattedrale, mentre il secondo, l’ordo minor, era dai preti addetti alla cura delle anime, in città e nella campagna circostante. I membri dell’ordo maior provenivano dalla nobiltà cittadina e quelli dell’ordo minor dal ceto popolare. Sebbene gli ordini svolgessero funzioni separate con fondi, beni e distribuzioni distinte, la rivalità era perenne, tanto che le fonti ci tramandano storie di liti e processi.

Nel 1149 esistevano due figure legate all’istituzione della chiesa di sant’Ambrogio: il prevosto e l’abate. Quest’ultimo, appena insediato, mette in discussione una vecchia tradizione che lo obbliga a offrire un pranzo ai canonici in occasione della festa di san Satiro, oltre a 24 denari e 12 candele. L’abate era disposto a offrire il consueto pranzo, ma si rifiutava di seguire le prescrizioni alla lettera che arrivavano a dettagliare cosa dovesse essere servito in tavola.

Il prevosto porta quindi la disputa all’attenzione del tribunale arcivescovile, che incarica l’arciprete Tedaldo da Landriano di risolvere la questione. Il pranzo è minuziosamente descritto e consiste in nove piatti, divisi in tre diverse portate:

In prima pullos frigidos, gambas de vino, & carnem porcinam frigidam; in secunda pullos plenos, carnem vaccinams cum piperata & turtellam de lavezolo; in tertia pullos rostidos, lombolos cum panitio, & porcellos plenos.

Nella prima portata erano previsti pollo freddo, una gambas de vino (forse un prosciutto cotto nel vino) seguita da carne di maiale fredda; nella seconda polli ripieni, carne vacca con salsa al pepe e una turtellam de lavezolo (forse una torta ripiena di formaggio). La parte più interessante arriva però con la terza portata dove, tra i polli arrosto e i maiali ripieni, si trova un piatto misterioso chiamato «lombolos cum panitio».

Dopo avere esaminato le carte e sentito i testimoni, il tribunale decreta che le pretese dei canonici erano fondate e l’abate avrebbe dovuto preparare il pranzo come richiesto, sollevandolo però da ulteriori incombenze. La sentenza conferma quindi l’antica consuetudine, inclusa la lista dei piatti chiesta dai canonici di sant’Ambrogio. In generale questo tipo di documenti apre uno spiraglio su un mondo di cui abbiamo scarse informazioni, ma è necessario fare attenzione nell’interpretazione delle fonti.

L’apparizione nel «menu» del bizzarro e misterioso lombolos cum panitio ha colpito nei secoli successivi diversi commentatori di area milanese. Il primo che si avventura in un’analisi dei piatti della cena è Giorgio Giulini nel 1760, ma purtroppo si arrende ancor prima di iniziare: «Quantunque in queste parole si scoprano voci Italiane e Lombarde; ciò non ostante non è sperabile il poter indovinare cosa fossero alcune di quelle vivande: ma senza saperlo possiam comprendere, che le tavole di que’ tempi anche fra gli Ecclesiastici erano decentemente imbandite». In seguito anche Pietro Verri, il celebre filosofo illuminista, analizza il documento nella sua Storia di Milano del 1783, ma senza tentare una spiegazione, anzi affermando prudentemente che erano «sorta di vivande, che non ha saputo indicare cosa fossero l’erudito nostro Conte Giulini, e che molto meno potrei io spiegare», ma senza aggiungere altro. La questione non sfugge invece al successivo curatore della sua opera, il barone Pietro Custodi che, nell’edizione del 1837, inserisce una nota a piè di pagina dove descrive il piatto come «lombetti col panico, (o con pane gratuggiato)».

Per la prima volta viene data una possibile spiegazione di cosa dovesse essere questa enigmatica vivanda, pur lasciando aperta una duplice possibilità: «Col panico», oppure «con il pangrattato». Ma se nel primo caso siamo ancora nell’indeterminatezza più assoluta, la seconda ipotesi apre scenari inediti. Come vedremo più avanti, ai tempi del Giulini e del Verri la cotoletta non era diffusa, mentre Pietro Custodi doveva conoscerla bene, cedendo così alla tentazione di associarla al piatto descritto nel documento medievale. Inutile dire che questa interpretazione riscosse un enorme successo e fu ripresa in seguito da decine di pubblicazioni, al punto di diventare una «versione ufficiale» della nascita della cotoletta panata e fritta ancora oggi enormemente diffusa su libri, articoli a stampa e in rete.

Un clamoroso caso di abbaglio collettivo: l’errore, perché di questo si tratta, è stato indotto da una sorta di pareidolia, ovvero la tendenza a ricondurre a forme conosciute e familiari immagini disordinate o naturali. Il fenomeno che succede quando riconosciamo un animale in una nuvola, oppure il volto nella corteccia di un albero e che in gastronomia ci porta a dare un senso attuale a una ricetta antica.

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