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Che cos’è il “femminismo glitch”?

Un'intervista con l'artista e scrittrice americana Legacy Russell, autrice di "Glitch Feminism", un manifesto per far incontrare il mondo di internet e quello del femminismo "lontano dalla tastiera"

Foto via Giulio Perrone Editore e Wikimedia Commons

I primi anni Dieci erano tempi più semplici per stare online. Facebook era arrivato in Italia soltanto da un paio d’anni, parlavamo ancora tutti nella terza persona singolare per raccontare qualsiasi cosa stessimo facendo e scrivevamo compulsivamente cose triviali sulle bacheche degli amici. Instagram non esisteva e i meme sembravano una cosa da intenditori. L’anonimato andava ancora alla grande e i movimenti di estrema destra non avevano ancora capito benissimo come radicalizzare massicciamente i ragazzini online. Scandali come Cambridge Analytica o i recenti leak di Frances Haugen non ci ricordavano quotidianamente che le piattaforme su cui passiamo quantitativi assurdi del nostro tempo sono disegnate per capitalizzare sui nostri istinti peggiori.

È in questo Internet che si muove l’artista, curatrice e scrittrice newyorchese Legacy Russell quando, nel 2012, elabora per la prima volta il concetto di glitch feminism – un femminismo profondamente digitale, che vede il cyberspazio come “una stanza tutta per sé” in cui esplorare ed espandere la propria identità e liberarsi da un binarismo di genere spesso opprimente. Superando il significato tendenzialmente negativo di glitch – che normalmente indica un errore, un’anomalia, una disfunzione tecnologica – Russell si riappropria del termine, interpretandolo come “un moto di liberazione,, un movimento in cui immergersi per demolire i limiti che definiscono il genere, la razza e l’identità sessuale”.

Nel 2013, da queste riflessioni nasce un manifesto che spazia dalla teoria femminista alla critica artistica contemporanea: Glitch Feminism, ora tradotto in italiano da Giulio Perrone Editore per la collana Le Nuove OndeAbbiamo intervistato l’autrice in occasione dell’uscita dell’edizione italiana. 

Il femminismo glitch che difendi nel tuo libro è fortemente non binario. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla rinascita (soprattutto online) di una sorta di movimento radicale trans-esclusivo che vede le battaglie femministe come profondamente radicate nel corpo femminile. Cosa ne pensi?
La mia argomentazione sull’allontanamento dal binarismo parte dal chiedere a tutti noi di lavorare per esplorare cosa significano maschile/femminile e maschio/femmina, termini che sono assegnati su base di genere e razza ma che hanno invece radici storiche complesse, con cui dobbiamo fare attivamente i conti. 

Il binarismo di genere e il modo in cui è stato usato come arma all’interno del femminismo è qualcosa che deve essere rifiutato, ridefinito, decolonizzato. Questo è un atto d’amore per le nostre sorelle trans che sono parti fondamentali della nostra storia e comunità, sia all’interno che al di là della cultura informatica. Per me, si tratta anche di interrogare la lente binaria attraverso cui guardiamo all’intimità e alla cura, ai ruoli che ci si aspetta che ci atteniamo quando amiamo noi stessi e gli altri.

L’idea che in qualche modo, per definizione, gli uomini e le persone identificate come maschili non dovrebbero entrare in contatto con una tenerezza radicale, o che le donne e le persone identificate come femminili dovrebbero rinunciare a determinati tipi di potere e controllo per poter rivendicare la propria “femminilità”, è una cazzata.

Alcune delle più belle relazioni queer esistono all’interno di ciò che potrebbe essere letto superficialmente o esteticamente come binarismo, ma ciò che accade negli atti di cura o nei codici di intimità è molto più complesso. Queste sono cose difficili di cui parlare, ma la mia speranza è che possiamo trovare un modo per fare questo lavoro insieme. Sto scrivendo dall’alto, dal basso e tutto il resto. Il femminismo glitch è per chiunque stia cercando di fare quel lavoro, indipendentemente dal pronome che sceglie di usare. Siamo qui per costruire un sé espansivo, il che è un diritto sia mio che tuo, mentre demoliamo tutto e poi ricostruiamo il mondo.

In risposta all’economia dell’attenzione e, ora, a tutti i discorsi intorno al cosiddetto metaverso,  artiste come Jenny Odell suggeriscono di rifiutarsi di trascorrere tutto questo tempo online e di tornare ad interagire, piuttosto, con la natura e con i nostri dintorni fisici. Tu vedi qualche tipo di valore nell’allontanarsi più spesso dalla tastiera?
Il metaverso non è un concetto nuovo. È un termine coniato dallo scrittore di fantascienza Neal Stephenson, apparso per la prima volta nel suo libro del 1992 Snow Crash. Le persone che hanno esplorato la relazione tra i diversi modelli di coinvolgimento del cyberspazio, della virtualità, della digitalità e dello spazio tecnologico osservano l’applicazione del termine “metaverso” cambiare e trasformarsi da quasi trent’anni.

Penso che il lavoro di Odell sia meditato e di grande impatto. Tuttavia il binarismo proposto all’interno del lavoro di Odell – che distingue tra “tempo passato allo schermo” e “tempo passato nel mondo” semplifica troppo la relazione tra il mondo online e quello “away from keyboard”. Preferisco il termine “distante dalla tastiera” rispetto a IRL [acronimo di In Real Life, “nella vita reale”] perché quest’ultimo suggerisce che la vita online non è vita reale, cosa su cui non sono d’accordo, dato che l’impatto che abbiamo online e le sue ramificazioni all’interno di uno spazio offline sono molto reali e non dovrebbero essere feticizzati come se fossero una fantasia.

Non sono però convinta che addentrarsi nella natura sia l’antidoto ai problemi del cyberspazio. Si potrebbe sostenere che Odell (che è un artista di Internet) si sta ispirando ad un modo di pensare e di essere naturalista o trascendentalista, un’eco di un momento precedente nella storia in cui le persone hanno abbracciato il paesaggio come un modo per respingere l’accelerazione del modernità e industrializzazione. Se ora stabiliamo che, strutturalmente, per capire meglio il mondo e situarci al suo interno è necessario distanziarci dalla tecnologia, stiamo girando in tondo.

Il problema con lo spazio online e lo spazio offline sono le persone e i sistemi: queste cose non scompaiono solo perché scegliamo di trascorrere del tempo nella natura. Infine, l’intero modello del flaneur, una sorta di vagabondo baudelariano, rimanda direttamente a una comprensione del pensiero moderno e del capitale intellettuale e della produzione immensamente privilegiati. 

Pensiero e movimento sono ovviamente inestricabilmente intrecciati – questo è stato dimostrato – tuttavia, dobbiamo anche riconoscere che la possibilità di movimento è una questione di classe, è una questione geopolitica, è una questione di genere, è una questione di razza, è una questione abilista. Essere in grado di muoversi, e più in particolare di muoversi nella natura, nel modo proposto da Odell, immagina un tipo specifico di corpo che ha quella libertà. Voglio per il mondo intero e per tutti coloro che ne fanno parte la libertà che Odell immagina nel suo bellissimo testo. 

Il punto in cui il lavoro di Odell e il mio occupano uno spazio condiviso è che sono molto d’accordo sul far nulla come parte critica di un rifiuto attivo della logica del capitalismo. In Glitch Feminism sostengo “l’inutilità come strumento strategico”. Sono molto d’accordo sul fatto che l’ossessione con l’essere utili e produttivi sia modellata attorno a un’applicazione binaria: parte del lavoro decoloniale richiesto per slegare tra di loro questi temi sta nel trovare modi per coinvolgere uso, funzione, produzione e attenzione in un modo diverso.

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