Cambiare tutto per non cambiare il Del Cambio | Rolling Stone Italia
sabaudi fino al piccione

Cambiare tutto per non cambiare il Del Cambio

"Il" ristorante di Torino ha compiuto 268 anni, e ha annunciato un nuovo corso di cucina. Con al comando Diego Giglio, un nuovo sabaudissimo menu, e quella strana abilità di farci ricordare epoche che non abbiamo incontrato

Del Cambio Torino

Il Ristorante Del Cambio a Torino

Foto: Instagram

Non è nemmeno una questione che le cose evolvono e chissà che forma prendono; alcune non hanno proprio un piano B. Nessuna alternativa, niente B-side. Possono rimanere solo tali e quali, concedendosi il lusso di ripensarsi. È chiaramente il caso del Ristorante Del Cambio, a Torino. Che dopo il chiacchierato addio dello chef Matteo Baronetto, il quale aveva condotto la storica insegna piemontese alla Stella Michelin e che si era distinto per la sferzata in avanti impressa in un menu altrimenti sabaudo, sabaudissimo, ha accolto la direzione del suo fu sous, Diego Giglio. Tornando indietro per procedere innanzi. O forse probabilmente il contrario: variando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia.

Poche d’altronde sono le cose che potrebbero intaccare la facciata, serenissima (anche se dirimpetto a Palazzo Carignano è facile passare per “piatti”), del ristorante di cui fu patron Camillo Benso Conte di Cavour. Il suo tavolo è ancora segnato con una targa commemorativa, nel salone principale del ristorante. La visuale dà sul Palazzo, precisamente l’interazione è con una bocchetta nel muro attraverso la quale, a un certo punto, sarebbe sventolato un tovagliolo bianco. Per Cavour, era la convocazione alla rientrata. Qualcuno lo stava aspettando, e avrebbe dovuto lasciare il suo vero ufficio, il ristorante, per dedicarsi agli affari.

Il Conte è impossibile biasimarlo. Il restauro conservativo avviato nel 2013 sotto la guida dell’imprenditore Michele Denegri e della nuova proprietà Del Cambio ha riportato molti dei fasti originari, divertendosi poi a spacchettare il ristorante, ad allargarlo con un bar (provvisto di fumoir di sigari), dedicato proprio a Cavour, e con la Farmacia Del Cambio, conosciuta dagli influencer, dalla Gen Z e insomma da chiunque possegga un telefono cellulare con accesso a internet come una delle destinazioni colazionare – e merendare – in città. Gli spazi ospitano diverse opere d’arte, dagli occhi incrociati di Michelangelo Pistoletto all’incisione di Pablo Bronstein, e ancora gli occhi schizofrenici e sanguinanti di Carol Rama.

 

 
 
 
 
 
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Quindi Del Cambio è in primis: un sito storico che ha saputo inventarsi una veste per rimanere nella conversazione. Uno che rischiava, proprio al passaggio di proprietà di cui abbiamo parlato, di perdersi, facendo affondare un pezzo di storia del gusto con sé. Parte del merito andava propio alla cucina di Baronetto, sia per la stella (naturalmente) sia per la frase chiara con cui veniva comunicata la mano dietro la cucina: io sono. Assertiva, predicativa. Aveva una certa regalità.

Ora, tutto è cambiato e niente lo è. Oltre a Giglio in cucina troviamo il sous Francesco Rovaio, in sala Fabio Furci, sparring partner con Mirko Galasso per la selezione vini, e infine, la sezione pastry & bakery è seguita da Giorgia Mazzuferi, che cura anche la Farmacia. Il 5 ottobre del 1757, a Torino, inaugurava il Ristorante Del Cambio, 268 autunni quest’anno. Per motivi molto diversi e sempre uguali, avrebbe cominciato e continuato a far parlare di sé. Ora, quelle stesse ragioni vanno aggiornate.

Se vi dicessi 1766 e “manuale di cucina professionale di ambito sabaudo”, che cosa vi verrebbe in mentre? A me, nulla. La brigata Del Cambio, per fortuna, ci vede più lungo. Ed è da Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi, anonimo manuale di codifica appunto alla francese della tradizione sabauda per come conosciuta allora, che prende ispirazione il lavoro svolto nella nuova carta del ristorante. Il cuoco piemontese o magari illuminista, sarebbe meglio, cosmopolita e convinto che i confini siano sempre uno sfavore. Ok, la cucina non fa la politica o almeno non stringentemente in questo caso, ma in casa Savoia quando si parla di Italia si sottende Francia. Ciò che rimane, oggi, di un fatto storico è una tavola con la R che si piega un po’. E che proprio dalle ricette di quel Cuoco piemontese, nel caso Del Cambio, riparte.

Allora troviamo un menu con Ostrica gratinata con pane alle erbe e scorza di limone, servita nel suo guscio con fondo di pollo; Lingua alla Persillade, ovvero lingua di vitello a fettine, con salsa verde a base di prezzemolo, finita con concassé di lardo in carpione. Si passa al Piccione alla Marengo (direttamente ispirato alla ricetta Piccioni con intingolo di gambari, parte della raccolta del volume): carne di piccione e una salsa composta del fondo del volatile e bisque di crostacei. In accompagnamento, coscia di piccione con foie gras e tartufo nero con panatura croccante.

Ma non di sola Francia (nemmeno se fosse Champagne) vive l’uomo. Alle ali della cucina troviamo il Gran Antipasto Piemontese, con Gofri, Paté di vitello in gelatina, Acciughe al verde, Vitello tonnato; la Minestra di riso, cioè un risotto che seguirà il ritmo delle stagioni (a ottobre lo si assaggia con tartufo nero ed emulsione a base di champignon; se siete fortunati ed è tempo, potreste ricevere in dono lamelle di ovulo crudo); e il Bonet Del Cambio a chiudere, rivisitazione in coppa bassa della “mattonella”, cotto al calore con aggiunta di olio di nocciola estratto a freddo. A deglassare, una cantina con 4.000 etichette e più di 16.000 bottiglie.

«Guardate bene lì, in tutte le nicchie», raccomanda Furci una volta scesi nel sancta sanctorum, che conta soprattutto referenze regionali e grandi rossi. «Questa per esempio è l’infernott, ci tenevano bottiglie di diversi proprietari, quasi fosse un frigorifero condiviso. Invece che tenere ognuno in casa propria, le si affidava al ristorante, dato che era aperto tutti i giorni dell’anno». E poi sezioni nascoste da tende, tavoli privati, «si vede così poco fuori e c’è così tanto dentro», che poi è il vero senhal della nobiltà autentica. «Come faccio ad andarmene da qui?», chiosa Furci.

Non ha tutti i torti: il tavolo imperiale allestito nella sala “di Cavour” fa rimpiangere un passato che non si è mai avuto. E il punto Del Cambio è anche solo tutto qui: essere qualcosa che nessuno, a oggi, può aver visto. Presentata, da dieci anni a questa parte, già spacchettata e di nuovo impacchettata in una veste che approntata al mondo che è, con uno sguardo su quello che era.

E quello che era Del Cambio è il posto in cui si transitava, quando si era a Torino. Mozart, Puccini, Carlo Goldoni, Honoré De Balzac, Friedrich Nietzsche, Maria Callas, Audrey Hepburn. Ma poi, cambiare cosa? Una vita forse, non è complesso immaginarsi statisti accomodati in sala, anche se più probabilmente sul retro si trovava una stalla-cortile, cambio come stazione di posta per cavalli, carrozze, vetturini… I menu non sono più redatti in francese, la Guida comunque d’Oltralpe è, basta questo; sul resto, meglio preferire la sostanza all’apparenza. E non v’è dubbio che quella di Giglio sia, in effetti, una cucina di sostanza e caratteriale, come poi è vero per ogni cuoco. Nel senso che si sente, che Matteo Baronetto non è più parte della squadra. Ma come potrebbe non essere? Come potrebbe, se caso contrario fosse, far presagire bene?

Insomma: Del Cambio potrà aver abbassato di un tono la voce, ma per farsi regolare, profondo, radicato, prima seconda gestione della nuova era. Cambiare tutto per non cambiare niente, cambiare tutto tranne Del Cambio. E quelli che si modificano, al massimo, lì attorno siamo noi. Pure in barba alla Michelin, stella o non stella che sarà. Alcune cose, be’, possono solo rimanere uguali a se stesse. Procedendo a sapere sempre di buono.

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