Usciamo da ricorrenze importanti: il 25 aprile giorno della Liberazione, il 1 maggio, Festa dei lavoratori. Abbiamo goduto di ferie e giorni liberati, perché divenuti tali attraverso lotte e resistenze che hanno poi fondato i valori su cui si son costituiti Stato e diritti.
Alcune assonanze con tutto questo, nella mostra di Ugo Rondinone alla GAM di Milano, riecheggiano forti e chiare. Come il rispetto del lavoro, attuale più che mai, e la memoria della terra, che qui viene raccontata attraverso oggetti e sculture.
Quello di Rondinone è un progetto pubblico per la città di Milano, sostenuto anche dalla forza della galleria Cardi. Terrone, così si intitola la mostra curata da Caroline Corbetta. Con quel termine che per lungo, lunghissimo tempo ha accomunato il popolo italiano all’estero, indistintamente tra Nord e Sud, nella grande onda di immigrazione che abbiamo avuto nel Novecento verso terre che davano più speranza lavorativa a noi italiani. Terrone, quello stesso termine che gli italiani usano ancora per denigrare il Mezzogiorno e i suoi abitanti. Ed è proprio da lì, Matera, che arrivano i genitori di questo artista.
Lui, Ugo Rondinone, è cresciuto in quella Svizzera tedesca che interdiceva ingresso ai cani e agli italiani nei locali; quella Svizzera che prelevava i passaporti dei lavoratori, come fossero una loro proprietà, in un sequestro morale sulla possibilità di emancipazione e liberazione. In questo contesto sociale, Rondinone aveva genitori che han ben saldato in lui la dignità dell’origine. Lo hanno fatto anche con due immagini, due riproduzioni affisse in casa. Una quella di Papa Giovanni XXIII, e l’altra quella del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Rispetto a quest’ultima non si son mai stancati di ricordargli che quelle erano le sue origini, che quei lavoratori raffigurati erano loro stessi. Che da lì arrivavano.
Da qui inizia la magia che è stata la costruzione di questa (bella) mostra.
L’epifania si è manifestata quando Caroline Corbetta lo ha accompagnato alla scoperta della GAM per trovare il giusto dialogo con la preparazione della mostra. A un tratto, in quello che era il salone delle feste ha ritrovato il quadro che da sempre lo aveva accompagnato, però in grande, imponente nelle sue fattezze reali. Non se lo immaginava, non se lo aspettava. Da li il desiderio di creare un profondo dialogo con il luogo e le opere già presenti.
Dai mercatini di Long Island aveva iniziato a collezionare oggetti da lavoro degli anni Venti, taluni arrivanti dall’Italia – da quei flussi migratori che il nostro Paese si dovrebbe ricordare bene – e con questi ha creato Alphabet of my mothers and fathers. Per la mostra ha confezionato una versione master: The large alphabet of my mothers and my fathers, mettendola in dialogo con il Quarto Stato. Gli oggetti da lavoro mancanti nel quadro di Pellizza da Volpedo riemergono sul pannello installato dirimpetto, patinati d’oro come a nobilitarne l’uso e la storia, facendo riemergere anche tutte le impronte di usura di chi li ha utilizzati. La Sala da ballo, che ospitava l’élite della società di un altro tempo, accoglie oggi un dialogo che arriva dal basso, dalla potenza della terra.
When the sun goes down the moon come happy fa scattare un cambio nell’atmosfera, creando un tempo sospeso. Un eterno crepuscolo, dato da un filtro applicato a tutte le finestre delle sale che ospitano la mostra.. Le quali, finalmente liberate dalle persiane eternamente chiuse, creano una comunicazione tra esterno e interno. Un dialogo felice con il giardino e la natura esterna nel parco della Villa.
Ma le prime opere che ci accolgono sono quelle nella corte del Palazzo, fruibili anche da chi lì si trova di passaggio. Calchi di ulivi, perfettamente realizzati nel rispetto più totale per le piante. Ulivi secolari della terra madre, la Basilicata. Ognuno ha il nome di una luna piena.
Immaginati, gli ulivi, come dispositivi di registrazione e condensazione del tempo, una rappresentazione tra passato, presente e futuro. Monumenti alla memoria realizzati da mani sapienti (Fonderia Nolana, alla quarta generazione di fusioni d’arte) per lasciare incolume la vita dell’albero e restituirci la loro essenza. I rami invece, realizzati dall’artista sull’ordine di una memoria nordica che appartiene alla sua adolescenza. Le origini del radicamento dialogano perfettamente con gli ulivi di Matera, dove con John Giorno (anche lui originario di quelle parti) per più di vent’anni sono tornati a scoprire la terra degli avi.
Questo è il punto focale della mostra: la terra, la stessa raccolta intorno al mondo e con la quale ha creato i manichini “terroni” con cui ha attivato le assonanze tra le sale. Sculture di danzatori in posa di defaticamento, come il respiro distensivo dopo la fatica di un lavoratore. Quella posa in cui si coglie l’umanità e quel soffio che ci libera dalle tensioni. Dove la fragilità diviene fluttuante bellezza.
I colori terrosi ci dimostrano le mille diversità di Madre Terra, tante nuances, quante le nostre diversità. La nobilitazione della parola terrone avviene. Non più denigrazione, bensì valore.
In questa mostra le assonanze emergono da sole. Si è creata un’armonia che va al di là dell’opera stessa. Le sale della GAM fanno riscoprire un fine Ottocento ricco e carico di luce, dove il lavoro e la ricerca di Rondinone si rispecchiano e dialogano.
Sono sicura che tutto è accaduto per risolvere tanti piccoli enigmi, e dissipare la foschia che aleggiava su alcuni legami, sensi o significati. Perché a volte non si tratta solo di un ricordo, ma di una agnizione. Un portale verso immagini che ci hanno a lungo accompagnati e verso le quali, fino a quell’esatto momento, non tutti i riferimenti erano evidenti. Credo sia esattamente questo ciò che è successo a Ugo Rondinone.
Una legittimazione per questo artista che, con la sapienza del tempo, ha saputo ritrovare le sue radici, e che vorrebbe essere riconosciuto e considerato anche come italiano. Tutto questo, mi viene da dire, gli andrebbe concesso.
Soprattutto in tempi in cui il divario tra potenti e fragili, tra distinzioni sociali e politiche risulta più evidente e allarmante che mai. Qualcuno che, come lui, naviga elegantemente controcorrente, dando forza a ciò che arriva dal basso, andrebbe maggiormente avvalorato.