Un mesetto fa uscivano i punteggi che il Ministero della Cultura ha assegnato al macrocosmo del settore spettacolo dal vivo per usufruire dei contributi statali (cominciavamo a raccontarvelo qui): 35 il massimo, 10 il minimo, da 9 in giù sei fuori. Una brutta sorpresa per tante realtà fra compagnie, centri di produzione e festival attivi nei settori del teatro, della danza e del multidisciplinare, che, visto il drastico abbassamento dei punteggi sulla direzione artistica attuato dalle commissioni, si troveranno con molta meno disponibilità economica rispetto agli anni scorsi.
Posto che non sta scritto da nessuna parte che il contributo ministeriale una volta ottenuto per la prima volta sia da considerarsi per sempre, vero è che così è stato da una trentina di anni a oggi, e che, comprensibilmente, le realtà che hanno continuato nel tempo a lavorare sodo, incrementando la proposta artistica, il radicamento sul territorio, il richiamo internazionale e il coinvolgimento del pubblico si aspettassero di conseguire dei risultati simili al passato. Per molti invece non è stato così e, fra scelte giustificate e cose che non tornano, abbiamo cercato di fare chiarezza con questa intervista multipla, parlando con alcune fra le realtà colpite, di cui riportiamo in seguito le considerazioni, ma anche con i commissari che hanno valutato i progetti e deciso i risultati.

Steven Cohen, ‘Put Your Heart Under Your Feet And Walk’, Danae Festival. Foto: Pierre Planchenault
Le accuse provenienti dalla comunità di lavoratori dello spettacolo, oggi più che mai riunita per cercare di stendere un piano sul futuro alla luce del nuovo scenario, parlano di «decisioni prese sulla base di gusto personale, con poca cognizione delle tantissime sfaccettature del panorama dello spettacolo dal vivo», arrivando a considerare un disegno dall’alto dettato da «un governo fascista che si sta lentamente insidiando nella cultura»: accuse parzialmente confermate da chiacchiere fatte con alcune fonti (che però hanno voluto mantenere l’anonimato), che, fra un parere su quanto è bello vedere compagnie numerose che danzano partiture coreografiche difficili e un altro su come il contemporaneo abbia in fondo allontanato il pubblico dalla danza, ci permettono effettivamente di affermare che molte scelte siano state fatte alla luce di un gusto personale e assolutamente non imparziale.
Sulle accuse di fascismo, parola usata sempre a sproposito, sospendiamo il giudizio: da un lato perché questo grido ha più le sembianze di uno slogan, che, come tale, abbassa il livello della conversazione, dall’altro perché lo scenario che emerge non è quello di una dittatura pericolosa e intelligente che si sta lentamente insidiando nei meandri della cultura del nostro Paese, ma piuttosto dell’ennesima italianata, di un intervento fatto senza cura, che vuole genericamente in scena artisti belli, bravi e virtuosistici. Più divertimento e meno rotture di palle: una direzione protesa verso un modo di fare spettacolo più rassicurante, tradizionale e bello nel senso più povero del termine, perché non c’è la sensibilità sufficiente per considerare “danza” o “teatro vero” una performance che mischia i linguaggi e che, soprattutto, li utilizza per dire qualcosa di urgente.
C’è di certo puzza di messa a tacere di una certa ala di artisti e di realtà che fondano la loro produzione sulla ricerca intorno a temi che parlano alla contemporaneità, ma anche di chi è in qualche modo diverso, fuori da un canone che vuole la danza estetica e la prosa divertente: chi per esempio porta in scena un corpo affetto da disabilità, chi si interroga su come elaborare un trauma, chi propone modi diversi di vivere il presente, le relazioni, il sesso, il corpo. Che sia l’occasione di ricostruire una scena culturale che non dipenda totalmente da gusti, idee e umori di un governo incapace di deliberare come organo istituzionale, ma più come mia zia giudica le vite altrui nel suo piccolo paesello della bassa padana?

Eli Mathieu-Bustos, ‘Have a safe travel’, Santarcangelo 2025. Foto: Pietro Bertora
Giulia Muroni, co-direttrice artistica insieme a Momi Falchi di Fuorimargine (Cagliari/Nuoro), declassato da Centro di Produzione a Festival.
Quello che è successo in Sardegna è chiarissimo: si vuole creare uno spazio per chi condivide le politiche estetiche del governo, che vorrebbe che la danza avesse un unico canone fatto di corpi percepiti come normali, apollinei e rassicuranti, e per farlo hanno ritenuto necessario far fuori tutto il resto. Di fatto si tratta in Sardegna di sei realtà su otto – oltre a noi Carovana SMI, Tersicorea, Oltrenotte, S’Ala e la rassegna danza di Sardegna Teatro – declassate o estromesse dai contributi ministeriali, causando dunque un danno ingente sulla pluralità del panorama sardo in termini economici e di ricaduta professionale sul territorio, anzi, per i bocciati potrebbe determinare la fine. Quello che ci stanno dicendo è che la nostra non è davvero danza, dunque Fuorimargine è indirizzato a trasformarsi in un festival internazionale. Invece io difendo il lavoro fatto fin qui, abbiamo decisamente tenuto fede al nostro nome raccontando il margine. Trattiamo la danza come materia eterogenea dando spazio a artisti con disabilità o con retroterra migratorio, offrendo tante possibilità di lavoro a chi vive qui in Sardegna, che è già di per sé un luogo di margine.
Se dovessi fare autocritica, cosa diresti?
Siamo state ottimiste a non leggere i segni di una tempesta politica in arrivo, di cui le manifestazioni erano presenti già nel contesto della NID (New Italian Dance Platform, ndr) di Cagliari, che ha ricevuto ingenti somme dalla politica nazionale e locale, senza riconoscere il lavoro dei professionisti della danza in Sardegna. Nello specifico di Fuorimargine poi non abbiamo punti in cui sentiamo di essere stati latenti, né sul lato prettamente artistico/curatoriale, né su quello dei numeri, visto che avere 300 persone in sala a Cagliari non è come farlo a Roma, Milano o Torino, è un investimento culturale sul lungo termine.
Come affronterà il futuro Fuorimargine?
Stiamo creando alleanze e reti, nel futuro prossimo diventeremo un festival ma non rinunciando al lavoro di produzione e sostegno a realtà e artisti eterogenei. Non moriremo ma diciamo a voce alta che è stato un attacco forte e verticale al contemporaneo. Attacco ribadito dalla perplessità manifestata e testimoniata di alcuni componenti della commissione, reso pubblico nei verbali.
Continuiamo con Alberto Cassani, membro della Commissione Teatro, dimessosi.
Alberto, perché hai deciso di dimetterti?
Quando una commissione di carattere istituzionale si ritrova a dover lavorare sotto la pressione del voto a maggioranza ha fallito il suo scopo: dovrebbe essere un organismo capace di dare una valutazione non individuale e non basata su gusti personali od orientamenti politici, dovrebbe tenere conto della complessità e della varietà di sfaccettature dei progetti sui quali è chiamata a dare valutazioni di carattere artistico. Tra l’altro, spesso, da parte di qualcuno la valutazione non era fatta tanto sugli aspetti artistici (come da mandato) quanto piuttosto su quelli quantitativi, per esempio sul rapporto fra incassi e numero di spettatori. Anche se questi sarebbero, in teoria, materia di esame algoritmico da parte degli uffici amministrativi che fanno capo alla Direzione Generale dello spettacolo. Ho deciso di lasciare l’incarico quando ho capito che la maggioranza della Commissione, compatta e in accordo su un certo tipo di orientamenti, avrebbe ovviamente avuto la meglio su ogni singola valutazione, per cui mi è sembrato inutile rimanere.
Come è nata questa “maggioranza”?
Riporto dei fatti per essere più chiaro: quando l’attuale governo ha iniziato effettivamente a lavorare, si è occupato anche delle commissioni dello spettacolo dal vivo (il governo nomina quattro membri su sette di ciascuna commissione chiamata a valutare teatro, musica, danza, circo e multidisciplinare, Cassani sta parlando della commissione teatro, ndr), che forse non rientrava fra le questioni più urgenti su cui un governo dovrebbe agire, eppure. La commissione precedente sarebbe dovuta scadere a fine 2024, in quanto nominata nel 2022 con mandato triennale, come è sempre stato: invece, cosa mai successa prima, con la legge Mille Proroghe il governo decise nel 2023 che le commissioni in carica sarebbero durate due anni invece di tre, per cui la precedente andava a scadere un anno prima del previsto. Ciascun membro può essere riconfermato fino a due mandati, ed è il mio caso, invece i quattro commissari indicati dal Ministro sono cambiati in toto. Evidentemente c’era la necessità di formare maggioranze più coese…
Secondo te quale disegno cerca di attuare questa “maggioranza” di commissari?
Mi sembra chiaro che l’intenzione sia quella di favorire il teatro commerciale, premiando soprattutto gli
“incassi del botteghino” e lasciando indietro tutto ciò che rientra nel rischio culturale e nella sperimentazione in quanto ritenuto meramente intellettualistico e artisticamente inutile, perché socialmente e politicamente segnato.
Però non proprio tutte le realtà fautrici di ricerca e sperimentazione hanno subito tagli, penso per esempio ai festival Bolzano Danza o Gender Bender…
Grazie al cielo qualcosa si è riusciti a salvare! Tuttavia è del tutto evidente che si volevano colpire alcuni obiettivi simbolici: emblematici, per esempio, gli attacchi al Teatro della Toscana e al Festival di Santarcangelo. Diciamo che è solo l’inizio di un percorso triennale alla fine del quale temo che si conteranno danni ingenti per la cultura nazionale.
Parliamo anche con Tomasz Kireńczuk, direttore artistico di Santarcangelo Festival, passato in valutazione da 28 a 14 punti.
Dalla dichiarazione che hai rilasciato qualche settimana fa in seguito alla pubblicazione di questi risultati, emerge che ciò che pensi è che il giudizio sia stato fatto sulla base di gusto personale e non di criteri obiettivi. Come lo giustifichi?
Penso che il sistema di valutazione sia poco trasparente. Fra i parametri analizzati ci sono la qualità artistica della proposta e la rilevanza internazionale del festival, e Santarcangelo si contraddistinguere su entrambi i fronti: per esempio, nel programma dell’edizione appena conclusa abbiamo portato vari artisti internazionali che hanno ricevuto premi importantissimi, cosa che non può essere ignorata da una commissione chiamata a valutare anche il calibro di un lavoro proposto, al di là del gusto personale. Sulla rilevanza internazionale del festival posso dire che quest’anno sono passati 460 professionisti del settore, fra italiani e internazionali, quindi programmatori, curatori e direttori di festival che sono venuti per il richiamo che Santarcangelo ha, per scoprire nuove proposte o artisti già affermati che convogliano prima di tutto qui e che grazie a questa vetrina verranno programmati in altre realtà, sia in Italia che fuori. I risultati dello scorso anno, sul quale è stato espresso il giudizio, sono simili, eppure il punteggio è stato fortemente abbassato, qualcosa non torna! Per questo mi viene da pensare che la cosa sia avvenuta a fronte di preferenze personali e non oggettive, oltre a un altro fatto rilevante, cioè che dai parametri sono sparite voci fondamentali come “rischio culturale”, condizione necessaria per portare avanti un teatro che sia di ricerca e sperimentazione.
Un festival può esistere indipendentemente dai fondi del Ministero?
No, così non può funzionare. Io credo che il lavoro che facciamo sia di interesse pubblico, e come tale deve essere trattato, perché è grazie al sostegno dello stato che ci possiamo permettere grandi nomi, un lavoro importante sulla comunità e sulla comunicazione, a fronte di biglietti che costano al massimo 13 euro. Senza il mecenatismo dello stato la proposta cambierebbe, i prezzi si moltiplicherebbero diventando inaccessibili ai più, si andrebbe verso una cultura del puro divertimento, più facilona, non intesa come spazio di confronto sul contemporaneo e sulle tematiche urgenti dei nostri giorni.
Parli di «attacco alla pluralità dei linguaggi e alla sperimentazione verso confini più sicuri del teatro»: quali pensi che siano, nel disegno del governo, le ricerche e le pluralità che si vuole mettere a tacere e quali i confini sicuri ai quali ambire?
Mi sembra evidente, anche da dichiarazioni fatte da parlamentari di Fratelli d’Italia, che l’andazzo sia quello di dare meno spazio a spettacoli che affrontano tematiche grigie del nostro tempo, quindi politica, movimento queer, razzismo, colonialismo, a favore di un teatro estetizzante, scisso dal contemporaneo e cristallizzato in una sorta di repertorio perpetuo.
E sul futuro?
Sicuramente faremo un ragionamento interno con il Comune, con la Regione e con i vari partner per far fronte al discorso economico, ma se anche trovassimo più soldi comunque non cambierebbe il fatto che lo Stato ci abbia fatto un attacco frontale. A rimetterci alla fine sono le persone singole, perché se l’anno prossimo facessimo un festival di tre giorni invece che dieci ci sarebbe molto meno lavoro per chi va in scena e per tutte le persone che danno il massimo affinché questo festival abbia luogo.
Concludiamo con Attilio Nicoli Cristiani di Danae Festival, festival multidisciplinare di Milano con 27 anni di storia, sceso a una valutazione di 11 punti.
Che cosa ci sta dicendo il governo fra le righe?
C’è un’evidente difficoltà a mettere a fuoco l’operato di realtà che si occupano di danza e di multidisciplinarietà nell’ambito della scena contemporanea. Rispetto a settori come la lirica, la musica o il cinema, queste discipline usufruiscono dal Fondo Nazionale dello Spettacolo di risorse minime. Nonostante ciò si è ben pensato di demolirle definitivamente a favore di chi è invece molto più solido e sostenuto da finanziamenti più ampi, grazie alla decisione di una commissione formata in maggioranza da persone poco competenti: la commissione che ha valutato i progetti multidisciplinari – come il nostro – è formata da sette membri di cui quattro, quindi la maggioranza, scelti più per adesione politica che per competenza. Queste persone non hanno carriere nel settore dello spettacolo degne dell’incarico ricevuto, hanno tagliato fondi a realtà che non potranno più continuare a esistere ma che rappresentavano, in alcuni casi, l’unico polo culturale di una determinata provincia. Spesso, più la località è piccola, più il lavoro sulla comunità è efficace, per cui lasciar morire queste realtà è gravissimo.
Cosa è successo di diverso dagli anni scorsi?
Negli anni scorsi le assegnazioni sono sempre state gestite da persone preparate in materia e di larghe vedute, infatti era possibile la coesistenza del balletto e del teatro di tradizione con un’area più sperimentale. Oggi invece si vuole definire un modello unico di disciplina, più rassicurante, cercando pian piano di fare piazza pulita di tutto il resto.
Come si muoverà Danae da qui in avanti?
Il dialogo con le istituzioni va fatto, per forza, tenteremo questa strada. Parallelamente cercheremo sostegno cercando finanziamenti da privati ma, diciamocelo, è difficilissimo avere sponsorizzazioni se non sei una grande realtà e se non puoi garantire un ritorno di immagine di un certo tipo. La cosa migliore è fare rete con le altre realtà per proteggerci e unirci, senza lasciare indietro nessuno e andando oltre le inutili antipatie interne, che ovviamente esistono.
E tu, personalmente, come stai?
Come prima cosa ho provato un forte avvilimento: il lavoro che c’è dietro la presentazione della domanda ministeriale richiede tanto impegno, scouting, azioni sul territorio. Si tratta di progettare il festival per un triennio, entrare nei dettagli, fare un calcolo previsionale su tantissimi parametri, non è uno scherzo! Sapere che tutto questo non viene valorizzato, immaginando che le cose siano già decise a priori, affatica molto e toglie tanta energia. Però non voglio mollare, anzi. Se devo vedere il lato positivo, questa vicenda ha acceso in me uno spirito battagliero e attivista che prima era sopito e che mi spinge a fare rete con le altre realtà. Insieme siamo più forti e possiamo far sentire la nostra voce.








