Mentre i suoi contemporanei immortalavano la New York della potenza e del progresso, lui ne registrava i silenzi. Non grattacieli, ma ombre. Niente corse, ma soste. Niente caos urbano, ma la sospensione tra due respiri.
Dall’1 maggio al 27 luglio 2025, il Belvedere della Reggia di Monza ospita la prima grande retrospettiva italiana dedicata a Saul Leiter, uno dei grandi solitari della fotografia americana, con un titolo che sembra un haiku giapponese: Una finestra punteggiata di gocce di pioggia. Curata da Anne Morin, la mostra presenta 126 istantanee in bianco e nero, 40 a colori, 42 dipinti e materiali d’archivio rari: riviste originali, un documento filmico, stampe vintage e moderne. Ma soprattutto, offre una chiave per comprendere ciò che rende Saul così unico e ancora così influente, in un’epoca in cui la fotografia spesso urla dove lui invece sussurrava.

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«Le immagini di Leiter durano quanto il battito di un ciglia», spiega Anne Morin. «Sono frammenti brevi. Il suo gesto è quello di un calligrafo: veloce, preciso, senza scuse».
Leiter non amava le definizioni. Non cercava lo scatto perfetto, il colpo d’occhio, il clamore. I suoi soggetti — una donna che attende, un taxi sfocato, la neve che cade lenta su una strada vuota — sembrano scelti più per sottrazione che per intenzione. Quello che ci mostra è una città filtrata da vetri appannati, riflessa nelle pozzanghere, nascosta dietro un tendone rosso o nel parabrezza bagnato di un autobus. C’è sempre una distanza, nei suoi lavori. Una distanza che non allontana, ma protegge. Come se la realtà fosse troppo fragile per essere affrontata di petto. E invece di cercare la nitidezza, questo gigante della fotografia del Novecento ci invita a restare nel margine, nell’attimo prima che qualcosa accada. Uno scatto che non racconta, ma suggerisce. La mostra di Monza restituisce questa delicatezza con pudore. Quello di Leiter è un realismo fiabesco fatto di vapore, riflessi, ombre e veli — più osservato attraverso che guardato in faccia.
Se William Klein scattava immagini rumorose, sfocate, grandangolari, a tratti quasi violente, lui cercava il silenzio e la poesia. Se Diane Arbus inseguiva l’eccentrico, il disturbante, l’invisibile che turba, lui optava per il banale che incanta. Ritraeva attraverso tende, vetri sporchi, controluce, nebbie urbane. Questi elementi, anziché ostacoli, diventavano parte integrante della sua grammatica visiva. Le sue immagini — stratificate, sospese — come quadri astratti.

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«Per me, la fotografia è un modo per dimenticare», diceva. «Un modo per fuggire dal mondo e allo stesso tempo entrarci dentro». E forse è proprio questo il dono più segreto di Saul Leiter: aver fatto della fotografia una forma di raccoglimento, di ascesi.
Classe 1923, è stato uno dei primi a usare il colore in modo libero e pittorico, quando ancora era considerato solo un linguaggio commerciale. Le sue opere, realizzate fin dagli anni Quaranta con pellicola Kodachrome, anticipano la fotografia cromatica come espressione d’autore. In mano sua, il rosso di un cappotto o il giallo slavato di un taxi non sono mai semplice decorazione, ma condizione emotiva.
Eppure Leiter non si è mai considerato un fotografo puro. Figlio di un illustre rabbino di Pittsburgh, rifiuta la carriera teologica e si trasferisce a New York nel 1946 per dedicarsi alla pittura. Frequentando l’ambiente artistico del Village, incontra Richard Pousette-Dart e W. Eugene Smith, iniziando con loro una serie di esperimenti fotografici che non abbandonerà più. La pittura è però la lente attraverso cui vede il mondo.

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Negli anni ’50 si avvicina al mondo della moda, pubblicando su Esquire, Harper’s Bazaar, poi Elle, British Vogue, Nova, Queen. Le sue modelle però rimangono muse, intime. In parallelo, ritrae amici, amori e passanti nel suo East Village, costruendo un archivio che resterà a lungo nascosto. Antidivo per natura, poco incline alla fama (sarà solo nel 2006, con la pubblicazione della monografia Early Color, che il mondo si accorgerà davvero della portata del suo lavoro), Leiter stampa e pubblica solo una parte della sua produzione. Il resto resta in negativo, a custodire l’aspetto più intimo della sua ricerca.

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«A volte penso che la mia vita sia stata tutta un incidente felice», diceva con ironia. Soltanto dopo la sua morte, avvenuta nel 2013 nella sua casa nell’East Village di New York, emergeranno centinaia di immagini inedite, tra cui una serie di delicatissimi nudi in bianco e nero, realizzati tra gli anni Quaranta e Sessanta, che per grazia addirittura superano i suoi “classici” a colori.
Nel necrologio del New York Times, Margalit Fox scrisse: «Delle decine di migliaia di immagini che ha scattato — molte considerate tra i migliori esempi di fotografia di strada — la maggior parte rimane non stampata». Una frase che, più che una mancanza, sembra una dichiarazione poetica: l’arte vera è quella che resta invisibile, che parla nei silenzi.