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Rebecca Horn non ha ancora smesso di dissezionarci

Al Castello di Rivoli, dal 23 maggio al 21 settembre, arriva 'Cutting Through the Past', prima grande retrospettiva che un museo pubblico italiano dedica alla grande artista, scomparsa nel 2024

Rebecca Horn

'Cutting Through the Past (1992-1993)', 1996

Foto: Paolo Pellion di Persano

In una delle sue ultime interviste, Rebecca Horn raccontava: «A volte vado a dormire pensando: “Non mi piace questo disegno”. Ma poi mi sveglio, lo guardo di nuovo e penso: “In realtà, non è poi così male”». C’è qualcosa di teneramente ostinato in questa dichiarazione, una specie di resistenza poetica che oggi, dopo la sua scomparsa, risuona come una nota finale sospesa nell’aria. Al Castello di Rivoli, nella Manica Lunga, quella nota si trasforma in una mostra in carne e ossa. Rebecca Horn – Cutting Through the Past, dal 23 maggio al 21 settembre, è la prima grande retrospettiva italiana a lei dedicata in un museo pubblico, e ci restituisce l’opera di un’artista che ha saputo trasformare il corpo, il desiderio e la macchina in un teatro instabile e perturbante.

L’esposizione, curata da Marcella Beccaria, nasce in collaborazione con la Haus der Kunst di Monaco, dove era stata presentata per la prima volta nel 2024. A Rivoli, lo spazio si popola di sculture, film, disegni, installazioni e video, in un percorso che va dagli esordi negli anni Sessanta ai lavori più recenti. Un arco creativo in cui Rebecca La Grande, artista nata a Michelstadt nel 1944 e scomparsa a Bad König nel 2024, ha saputo costruire un linguaggio visivo che attraversa tempo, memoria e (soprattutto) relazioni di potere.

Rebecca Horn

Rebecca Horn. Foto: Gunter Lepkowski

Come in Cutting Through the Past (1992-1993), opera emblematica che dà il titolo alla mostra: cinque porte, segnate dal tempo, sono disposte su una pedana. Un’asta metallica ruota, lentamente, fino a toccarne i bordi. Il gesto è lieve ma violento, un tocco che incide. È l’erotismo e la distruzione, la casa e la violazione, il passato che torna e incide ancora. Horn era maestra in questo: trasformare lo spazio domestico in scena teatrale, il corpo in paesaggio di tensioni.

Rebecca Horn

‘Piccoli spiriti blu’, 1999. Foto: Paolo Pellion di Persano

«Ho sempre disegnato. Poi, qualche anno fa, ho iniziato a lavorare con fogli di grande formato. È un’estensione della performance, perché i pezzi sono grandi quanto il mio corpo», raccontava. Ed è proprio questo corpo che ritorna nei suoi Bodylandscapes: grandi disegni nati da gesti performativi, in cui cerchi e forme arrotondate alludono al tempo che scorre, alla trasformazione. Una selezione importante di questi lavori, alcuni provenienti dalla Fondazione Moontower, è presentata per la prima volta in un museo italiano. Ampi, vibranti, questi fogli sembrano pagine di un diario privato, qualcosa che pulsa di una memoria vissuta sulla pelle.

Rebecca Horn

‘Lippenmaschine’, 1964. Foto: Heinz Hefele

Un altro dei temi più gettonati dall’artista teutonica è il dialogo con la macchina. Le sue celebri “macchine performative” sono corpi estesi, protesi desideranti e inquietanti. Come Pfauenmaschine (1982), la Macchina Pavone di documenta, o Concert for Anarchy (2006), pianoforte rovesciato che esplode e si richiude, in una coreografia meccanica che suggerisce caos e controllo, musica e follia pura. O ancora Hauchkörper (2017), macchina che respira, quasi un organismo vivo. In queste opere, Horn mette in scena una tensione tra l’umano e ciò che umano non è: la tecnologia.

Rebecca Horn

‘Der Eintänzer’, 1978. Copyright Rebecca Horn

Nel cuore della mostra, le proiezioni in grande scala delle prime performance: Performances I (1970-72), Performances II (1972) e Berlin (1974-75). Digitalizzate di recente, ci restituiscono un’artista giovane, radicale, seducente che fa del proprio corpo un’antenna capace di captare le tensioni del tempo. La sua è una corporeità che non cerca il compiacimento, ma la verità. È da qui che parte la sua esplorazione: dal corpo ferito, ingabbiato, armato. Un corpo che attraversa barriere e si trasforma in gesto politico e spirituale.

Rebecca Horn

‘Concert for Anarchy’, 2006. Foto: Gunter Lepkowski

E poi ci sono anche i lavori più mistici e cosmici, come Miroir du Lac (2004), installazione di specchi che crea un pozzo visivo e simbolico tra cielo e terra. Uno spazio sospeso, vertiginoso, dove l’immagine si perde in un riflesso che pare infinito. O Das Rad der Zeit (2016), la ruota del tempo, che incarna l’afflato spirituale di un’opera mai dimentica della sua dimensione rituale. La percezione del tempo, qui, non è lineare bensì ciclica.

Rebecca Horn

‘Calvari Peacock’s Sperm – 19.3.2012’, 2012. Foto: Heinz Hefele

Completano il progetto una selezione di opere allestite nella meravigliosa Collezione Cerruti, a soli cinque minuti a piedi dal castello. Tra queste Cello (1999), scultura musicale autonoma pensata per il progetto Konzert für Buchenwald. In un certo senso, è proprio qui che si chiude il cerchio: nella melodia di un violoncello che suona evocando i fantasmi della storia. A proposito di passato. Rebecca Horn ha spesso detto di sentirsi in conversazione con il pittore spagnolo Francisco Goya. «Lavoravo di notte, in quel monastero in cima alla montagna. Mi piace pensare di parlare con lui. Lui è morto da tanto, ma il suo fantasma è sempre con me».

Rebecca Horn

‘Miroir du Lac’, 2004. Foto: Paolo Pellion di Persano

Ecco: Cutting Through the Past è proprio questo. Una lunga, intensa conversazione tra spiriti inquieti. Una partitura per corpi e meccanismi, per ferite e rinascite. Una mostra che non solo celebra Rebecca Horn, ma ci invita a entrare nel suo mondo per uscirne diversi. Forse più fragili, sicuramente più vivi. In modo da poterci risvegliare domani mattina pensando che quel disegno, in fondo, non era poi così male.

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