C’è una Roma che non smette mai di reinventarsi, neppure quando resta immobile. E poi c’è Pietro Ruffo, artista visionario cresciuto tra le tavole da disegno del padre architetto e i bozzetti di scena della madre costumista, che di questa Roma ha fatto la sua musa inquieta e stratificata. Dopo aver incantato il Palazzo delle Esposizioni con la mostra L’ultimo meraviglioso minuto, Ruffo torna nella sua città con un progetto che fonde arte, design e ospitalità: è il Signature Artist del nuovo art’otel Rome Piazza Sallustio, il primo in Italia del brand internazionale dedicato all’arte contemporanea. Non una semplice decorazione d’autore, ma una collezione permanente site-specific, dove l’immaginario celeste, le mappe, la storia e la memoria si intrecciano sui muri, nei corridoi, nelle suites e persino sulla moquette.
A impreziosire lo spazio anche la mostra Mappare l’Invisibile, primo capitolo del programma culturale art’beat, visitabile gratuitamente fino ad agosto nella nuova Art Gallery dell’hotel. Un viaggio tra opere e videoarte che invita a vedere ciò che non si vede, ad ascoltare la voce sottile del cambiamento, e a riconoscere, in ogni frammento, la possibilità di meraviglia. Abbiamo incontrato l’artista per parlare di questo laboratorio permanente di creatività urbana, del modello che lo ha ispirato e del sottile equilibrio tra accoglienza e visione artistica.
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Come ha accolto la proposta di diventare signature artist del primo art’otel italiano?
La proposta è arrivata tre anni fa e mi ha subito appassionato. L’idea di poter costruire una visione su Roma – che è anche la mia città – attraverso una serie di opere pensate per questo hotel, mi ha toccato nel profondo. In città abbiamo esempi interessanti di questo tipo, anche se non proprio legati agli hotel. Uno su tutti è Casa Balla, dove l’artista ha lasciato una sorta di testamento visivo: non solo quadri, ma anche stoffe, posate, ogni dettaglio domestico è stato pensato e progettato da lui. Quello spirito mi ha ispirato: non si trattava di mettere solo delle opere in un hotel, ma di creare una visione personale, immersiva, che dialogasse con ogni aspetto dello spazio.
Ha definito l’art’otel un progetto immersivo. In che modo si è confrontato con il concetto di arte totale durante la progettazione?
C’è stato un dialogo continuo con lo studio di architettura che ha curato l’hotel, ma anche con il cantiere. Essendo a Roma, potevo seguire da vicino tutte le fasi, ero spesso lì, tra impalcature e materiali. Molte delle opere sono nate proprio lì, non sono state portate a posteriori: sono fuse con l’architettura stessa dell’edificio.
Roma è sempre al centro della sua ricerca, ma spesso sembra che lei la osserva da lontano, quasi come un cartografo o un archeologo. Com’è stato invece lavorare dentro il cuore vivo del suo tessuto urbano e culturale?
Nella mia pratica cerco uno sguardo distaccato. In questo caso, però, ho cercato di fornire strumenti per leggere Roma in modo diverso. È una città che, anche prima di visitarla, ci si è già formati un’immagine mentale. E allora mi sono chiesto: come posso offrire un punto di vista inedito? Roma è immersa nella natura, ma è una natura particolare, a tratti selvaggia. Diversissima da quella di Parigi, dove tutto è ordinato. Qui ci sono angoli che sembrano foreste primordiali. Questa dimensione mi affascina molto: l’idea che non tutto sia controllabile. Così, per esempio, ho realizzato per il ristorante una sorta di biblioteca con la natura che prende il sopravvento: una natura invadente, viva. Un altro filo conduttore è stato il rapporto con le stelle. Gli antichi romani avevano un legame fortissimo con gli astri. Nel progetto dell’hotel, questo tema ritorna spesso.
Ha sempre alternato spazi istituzionali e interventi pubblici. I luoghi deputati all’ospitalità possono essere una sorta di terza via dove l’arte incontra la vita quotidiana?
Sì. Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di lavorare non solo in musei pubblici, ma anche in spazi urbani, come nel caso di Piazza Venezia, dove ho realizzato una copertura per i silos del cantiere della metro C. Ogni intervento si rivolge a un pubblico diverso. Se fai una mostra a Palazzo delle Esposizioni, chi entra è già predisposto, anche se non conosce l’artista. In piazza, invece, non decidi tu: l’opera ti arriva addosso, che tu lo voglia o no. È un’altra modalità. Nel caso dell’hotel, c’è ancora un’altra sfumatura. È uno spazio pubblico, ma è anche un luogo in cui puoi entrare per mille motivi: sei un turista che cerca un’esperienza diversa, oppure sei romano e ti incuriosisce il bar. E poi c’è una dimensione intima, che in un museo o in strada non c’è: qui ci sono persone che dormono con le opere. Nelle camere, infatti, ho inserito dei lavori più personali, legati alle persone che hanno abitato Roma nel tempo. Perché questa città, oltre a essere stratificata nella pietra, è stata uno dei primi esempi di melting pot. Le persone cambiano, si trasformano. E a volte, in camera, ti guardano.
Le sue opere abitano ogni piano dell’hotel: moquette intessute di costellazioni, piastrelle sui balconi, suite affacciate sulle stelle. Sempre in equilibrio tra analisi scientifica e allucinazione visiva. Come bilancia rigore e immaginazione?
Io sono un artista, certo, ma sono anche un appassionato di scrittura, di carte geografiche, di cambiamenti climatici. Incontro paleontologi, leggo molto, studio. Tutte queste passioni diventano appunti visivi e poi opere. Il mio obiettivo è offrire spunti di riflessione, non dare risposte. Nessuna opera è uno statement: non ho gli strumenti per mettere punti esclamativi, ma ho quelli per porre domande. Il rigore scientifico è un punto di partenza, ma poi si mescola con l’intuizione, all’alchimia. Un testo scientifico diventa opera d’arte, ma va oltre il contenuto di partenza, si trasforma in un grande punto interrogativo. Stimola zone del cervello diverse rispetto alla lettura di un libro. Guardare un’opera è un modo alternativo per interrogarsi sul mondo.
Disegno, incisione, installazione: la sua poetica è legata alla manualità, anche quando affronta temi vastissimi. Come tiene insieme questo gesto intimo con l’ambizione cosmica del suo immaginario?
Tutto nasce da un certo rapporto con il tempo. Sono romano, sono italiano, e quindi il mio lavoro riflette questa tradizione artigianale: gli strumenti che uso – la carta, l’intaglio – sono gli stessi di cent’anni fa. Sono tecniche lente, quasi anacronistiche, ma in grado di parlare al presente. Per me dedicare tempo alla realizzazione di un’opera è un atto necessario. Lo so, può sembrare una banalità, ma oggi difendere la lentezza è una forma di resistenza. Tre mesi di lavoro mio e dei miei assistenti in studio per produrre un’immagine che possa toccare strati più profondi della coscienza – il subconscio, l’inconscio – e non solo l’occhio o la superficie. Nella pratica lenta c’è una ripetizione che ti porta in uno stato quasi meditativo, come quando lavori all’uncinetto o reciti il rosario. A un certo punto, il gesto diventa automatico e proprio lì arrivano le idee migliori, i pensieri che ti aiutano a immaginare l’opera successiva.
Programmi futuri?
A settembre inauguro un’installazione al Museo Etrusco di Villa Giulia, a Roma. Sempre a settembre, ci sarà anche l’inaugurazione di un’opera che ho realizzato per il Quirinale. E poi, a novembre, ho in programma una mostra a Parigi. Mentre per quanto riguarda il 2026, ci sono diverse mostre in via di definizione, in particolare un progetto che mette in dialogo la Finlandia con altri Paesi. Ma, come dico sempre, nel mondo dell’arte finché non c’è un invito ufficiale è tutto molto relativo. Ci sono tante parole, ma poi i fatti si contano sulle dita di una mano.
Posti prediletti a Roma da cui trae ispirazione per dar vita ai suoi progetti?
Ce ne sono molti. Uno è senz’altro la Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Da studente ci andavo spesso. C’erano questi grandi divani, sembrava di stare nel salotto di casa, ma circondati da opere di Boetti, Pascali, Osvaldo Licini… capolavori che conoscevo benissimo. E proprio perché li conoscevo, potevo stare lì, studiare, pensare – senza quella frenesia da “prima volta” che ti travolge. Era una relazione più intima, più profonda: come con una persona cara, ogni volta coglievi una sfumatura diversa. Un altro è Villa Borghese. Da piccolo ci andavo con i miei, poi da grande ci porto mio figlio. È un posto pieno di stranezze architettoniche: sfingi egizie, frammenti etruschi, citazioni romane. Il neoclassicismo, con la sua logica del collage, mi ha sempre affascinato: puoi pescare nel passato e costruire qualcosa di nuovo, stratificato, ibrido. E poi c’è questa natura che, in certi angoli, sfugge al controllo: una natura libera, che cresce senza regole, indomabile. È una Roma che mi somiglia moltissimo.








