Mario Giacomelli, come ti costruisco il Novecento | Rolling Stone Italia
la grazia di goderne

Mario Giacomelli, come ti costruisco il Novecento

Una coppia di mostre, a Roma e a Milano, rimette sotto gli occhi l'attualità del pensiero (per immagini) di uno dei grandi del secolo scorso. E che, tra l'arte e le amicizie, ha contribuito a plasmare l'immaginario collettivo

Mario Giacomelli

Mario Giacomelli, 'Io non ho mani che mi accarezzino il volto', 1961-63 ©️ Archivio Mario Giacomelli

Foto: Instagram

Mario Giacomelli, celebrato in questi giorni in ben due importanti mostre – l’una connessa all’altra – a Roma e a Milano, Mario Giacomelli. Il fotografo e l’artista e Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta, negli ultimi anni appariva lontano se non scomparso dai discorsi e dalle analisi che hanno segnato la conversazione sulla fotografia contemporanea degli ultimi anni. È dunque una fortuna e un’importante occasione quella che le mostre di Roma e Milano offrono ai loro visitatori per i cento anni dalla sua nascita, perché Giacomelli fu, prima ancora che un grande fotografo, un grande interprete tout court della cultura del Novecento. Un protagonista che seppe innovare il discorso visivo fin dalle radici.

Nato a Senigallia dove visse per tutta la vita, Giacomelli formulò una poetica capace di trasformare quella cittadina di provincia in una personale stanza d’indagine intellettuale dalle dimensioni infinite. Un luogo ideale che seppe esplorare con acutezza e precisione. I suoi scatti infatti esulano dai riferimenti toponomastici per offrire oggetti visivi poetici, frutto di un’indagine continua e ossessiva.

La teoria di Giacomelli si basa a partire da un sentimento pratico che ha le origini nel suo primo lavoro da tipografo, iniziò infatti come apprendista presso la Tipografia Giunchedi a soli tredici anni. Un ruolo e una competenza che non rimuovevano però l’originaria condizione contadina da cui proveniva la famiglia.

Quello di Giacomelli è infatti un percorso che parte dal mondo ancestrale contadino e arriva nel cuore della modernità del Novecento, elaborando però al tempo stesso strategie autonome e un originale pensiero poetico che si palesa in una rielaborazione degli scatti fino a suscitarne un significato simbolico potentissimo.

Il suo è un istinto che ricorda i fotoreporter della sua epoca: rapidità di scatto e un grande intuito visivo. Ma Giacomelli non si ferma mai al soggetto in sé, ne ricerca infatti ogni possibile sfaccettatura, immaginando così la fotografia come parte di un discorso che che si possa completare all’interno di un gruppo di scatti quasi a dare l’impressione di una performance in fieri in cui ogni fotografia appare nella sua singolarità intrecciata all’altra.

Uno sguardo dunque estremamente contemporaneo, che lotta nel realismo per arrivare a un astrattismo capace di convogliare a sé il significato più atavico di un tempo: quello del vissuto quotidiano e quello della visione onirica. Scrive Mauro Zanchi sul bel catalogo delle due mostre (pubblicato da Silvana editoriale): «Nella serie dei paesaggi riemergono tipologie provenienti dalle viscere della coscienza, dalla mitologia arcaica, dalla memoria dell’umanità. Vengono evocati il volo di Icaro, di Dedalo, il mito del labirinto, il viaggio nel cielo per comprendere il mistero della terra, del pensiero, della psiche, delle origini primordiali».

Il lavoro di Giacomelli diviene così fortemente materico, capace di farsi ispirare all’immaterialità poetica, come nel caso delle poesie di Cesare Pavese e di Giuseppe Ungaretti, ma al tempo stesso diventa ispiratore di alcuni tra i più grandi artisti contemporanei come Burri, Afro e in particolare Janis Kounellis.

Il fotografo di Senigallia infatti è tra i primi a cogliere l’urgenza ambientale che inizia a palesarsi in tutta la sua drammatica evidenza, ma che ancora è poco avvertita dal mondo intellettuale se non in forma di denuncia o critica come nel caso del movimento di Italia Nostra, promosso tra gli altri da Giorgio Bassani e Antonio Cederna. Un movimento che, per quanto encomiabile, ha tutta la struttura e la pesantezza di una forma critica militante e pienamente inserita negli anni in cui il dibattito viveva ancora tra riviste e giornali.

Il passaggio che compie invece Mario Giacomelli è ulteriore, arrivando a cogliere artisticamente il rapporto tra uomo e natura interpretandolo in una forma evidente che va a incidere sui corpi del paesaggio come sul corpo umano. È come se Giacomelli esplorasse così sempre e solo il medesimo paesaggio o il medesimo corpo, non esiste alcuna discotinuità tra i due elementi. Un processo che in parte anticipa anche molte delle intuizioni sulla teoria ecologica poi esposte nei testi di Timothy Morton nei primi anni 2000. Ma chiaramente è nel rapporto con Burri – per esempio – che si palesa una stretta contiguità a partire dal lavoro sul cretto che è una esplicita messa in forma fisica delle foto di Giacomelli e che arriverà alla sua esplosione massima con il Cretto di Ghibellina, in cui si palesa la presenza dell’uomo solo nella sua assenza. La natura si rivolta e del paese antico di Gibellina non restano che rovine che verrano essenzializzate dal lavoro di Burri, il quale le copre di cemento restituendo la forma originaria del paese, ma anche la sua consistenza astratta, come quella di un graffio nella natura.

Seguendo le due esposizioni il movimento più coerente sarebbe quello che porta da Milano a Roma, dalla forza icastica della poesia alla consistenza multipla fatta di ruvidità e di attraversamenti dell’arte degli anni Settanta, ma che arriva fino ai nostri giorni con le opere dell’artista e fotografo americano Roger Ballen. In questo caso, più ancora che nelle opere è il discorso artistico sottostante ad accumunare Ballen a Giacomelli. Un percorso anche esistenziale assimilabile, seppur dettato da un profilo più prettamente teorico per Ballen mentre per Giacomelli è sempre il frutto di un lavoro pratico precedente. Lontano da un’idea commerciale di fotografia Ballen lega infatti la propria poetica a una ricerca che vada a perlustrare i conflitti e le contraddizioni all’interno delle società come nel caso dei reportage dalle zone rurali del Sudafrica. Un lavoro compiuto insieme a Dennis da Silva, suo tipografo. Altro elemento che restituisce un’idea del fare artistico del tutto affine a quella di Mario Giacomelli.

Rivedere dunque il lavoro di Giacomelli a partire dai famosi pretini, seminaristi che giocano immersi in un bianco latteo assoluto, fino agli scatti nell’ospizio, significa recuperare uno sguardo capace d’indagare i corpi non solo nel loro contesto specifico e nel loro tempo passato, ma cogliendoli quali elementi visivi simbolici capaci di raccontare ancora oggi un sentimento diffuso tra felicità e dolore, tra paura e inquietudine. Sentimenti che si ritrovano esattamente allo stesso modo sulle superfici di quei corpi letti e interpretati dal fotografo come i paesaggi collinari della serie Primi paesaggi: elementi puramente grafici che nella loro resa astratta raccontano di una realtà esistente portando su di sé il carico di una verità sempre primigenia.

Quella di Giacomelli è un’estetica capace di contenere nel presente un tempo lungo, mostrando il debito che la contemporaneità ha con il primitivo inteso come quell’istante originario che detta la traiettoria dell’esistenza e del fare artistico. Elemento di forte seduzione è la ricostruzione in mostra del laboratorio fotografico di Giacomelli, anche più delle assonanze artistiche e poetiche perché è nel laboratorio che si palesa la pratica artistica del fotografo e in cui la sua stessa esistenza si concentra in una sintesi che diviene linguaggio universale: «Le sue foto erano i momenti e i frammenti della sua vita», scrive la figlia sul catalogo della mostra nel ricordare il padre. Foto che sono anche momenti e frammenti della vita di chiunque si prenda il tempo e la grazia di goderne.

Altre notizie su:  Mario Giacomelli