All’ombra dell’immancabile Borsalino, il grande corpo di Michelangelo Pistoletto si muove come una consumata rockstar tra mostre, installazioni negli spazi urbani, trasferte internazionali, conferenze su quanto l’arte possa fare per la società, vernissage a braccetto con Leonardo DiCaprio.
Instancabile, con la moglie Maria al suo fianco, trascina con sé uffici stampa (s)travolti dalla sua agenda. Mi accodo solerte allo sciame di persone che gli devono parlare, compresa l’addetta alla chiusura del Palazzo Reale di Milano, che, dopo la prima domanda sulla panchina, ci invita a spostarci.
Nel tragitto tra l’ascensore, un’altra panchina su cui non si può sostare e il bar letterario chiuso per un evento privato, seguo il Maestro nel ventre del Palazzo milanese, snocciolando infine le domande seduti nell’auto che l’aspetta per riportarlo a Biella, a casa.
Lì nasceva 93 anni fa Michelangelo Pistoletto, da padre pittore che non capiva l’arte moderna. Il suo unico figlio, oggi considerato il maestro italiano del panorama artistico contemporaneo, la spiega così, mentre cala la sera sulle guglie del Duomo: «L’arte moderna è un cubo. Tutto è dentro a un cubo, il cosiddetto White Cube. È stato Picasso a capire che, dopo la fotografia, che aveva fatto sbiadire il miracolo della prospettiva, nell’arte fosse necessario scomporre, ridurre tutto a piccoli cubetti, destrutturare. E se la fotografia si era appropriata della realtà circostante, l’arte doveva cambiare direzione, rivolgendosi alla soggettività dell’artista». Così m’illumina il Maestro.
«L’arte quindi non muore, anzi resuscita perché non è solo la rappresentazione dell’esistenza, ma la capacità individuale di assumere un’espressione libera, autonoma. Il cubismo ha generato un concetto di cubo vero e proprio nel quale tutta l’arte moderna viene chiusa e rappresentata. In questo senso Picasso è stato l’emblema della modernità».
Lei ci stava stretto, nel White Cube?
E certo! Nel cubo la prospettiva muore. Tutto restava chiuso nelle pareti bianche, nella massima libertà intimistica dell’arte, e quindi immune ai cambiamenti e alla realtà circostante.
Ed è qui che scocca la scintilla che ha infiammato la mostra Picasso/Pistoletto, adesso in corso a Londra?
Sono io che apro la nuova prospettiva, che trovo una via d’uscita. E la mostra, aperta fino al 12 dicembre 2025 alla Nahmad Projects di Londra, aiuta a capire il percorso dell’arte moderna nel Novecento. Prima di me, ci fu un tentativo di Lucio Fontana di bucare la tela come bucare il muro per uscire dal White Cube. Questo buco rappresentò il bisogno di trovare una nuova prospettiva, che lui chiamò spazialità.
E Pistoletto cosa buca, in cerca della prospettiva?
Io non faccio quelle cose, non buco. Io rifletto, in vari sensi. Con i Quadri specchianti (1962-1963) ho ribaltato quella che era la vecchia prospettiva rinascimentale in una prospettiva nuova, che non guardava più soltanto in una direzione, che è quella del progresso rinascimentale, ma nello specchio noi scopriamo un capovolgimento della prospettiva. Perché la prospettiva in cui mi trovo con il quadro specchiante è rivolta verso una fisicità che io posso percorrere, progredendo, e quindi vedo dentro questa progressione fisica la proiezione di quello che sto facendo.
… Maestro?
Grazie al Quadro specchiante, andando a guardare nella realtà io vedo quello che va al di là della realtà, posso vedere anche tutta l’immaginazione… Così la prospettiva diventa circolare, ed è necessario perché lo specchio non può avere significato artistico senza un punto di riferimento che è l’immagine che io fisso.
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L’immagine che lei fissa nello specchio è reale, oggettiva? Penso alla Ragazza che scappa, al Museo del Novecento di Milano, che sembra entrare e uscire dal proprio riflesso.
Certo, la natura oggettiva dello specchio è la rivoluzione. Picasso inventava, le sue rappresentazioni non erano oggettive, ma riflettevano il suo sentire, la soggettività dell’artista. Con i Quadri specchianti l’immagine fissata doveva essere così come la natura è. In questo senso la fotografia, che sembrava aver indebolito la capacità rappresentativa dell’artista, ritorna necessaria, diventa parte dell’opera. La mia opera dei Quadri specchianti è da considerarsi un’opera sola, unica, che lascia continuamente tracce di me, di come io colgo la realtà. Lo specchio è uno solo, non ha limite.
Il figlio prediletto, la superficie in acciaio lucidata a specchio in cui l’artista ritrovò se stesso e una nuova apertura prospettica, segnò la svolta per Michelangelo Pistoletto. Erano gli anni Sessanta, Pistoletto frequentava gli ambienti artistici torinesi, continuando a interrogarsi sull’identità. Fu appoggiandosi a un quadro su cui aveva utilizzato una vernice specchiante che capì di essersi riconosciuto.
«Dopo il primo che ho fatto utilizzando un acciaio inossidabile lucidato a specchio, ho fissato subito immagini di altre persone. Io non ero più il protagonista, ma lo era il mondo intero. Volevo che la gente si riconoscesse non solo individualmente, ma come comunità intelligente che forma l’umanità».
E ancora oggi le sue opere fatte di acciaio, velina e fotografie si adattano allo spazio che occupano, restituendo la realtà circostante, tempo e spazio, inclusi nella creazione.
In Italia, alla galleria Galatea che allora lo rappresentava, la rivoluzione dei Quadri specchianti non fu capita subito, ma nel panorama internazionale, dove esplodevano la Pop Art e il Nouveau Réalisme, Pistoletto divenne l’unico artista italiano invitato e riconosciuto, accanto alle serigrafie di Andy Warhol e ai Masterpiece di Roy Lichtenstein.
«In realtà fu un malinteso, io non c’entravo niente con la mercificazione dell’arte, focus della Pop Art, infatti pochi anni dopo creai Oggetti di meno (1965) e inaugurai l’Arte povera».
Era la metà degli anni Sessanta, Pistoletto indossava già il Borsalino, il boom economico cominciava a cozzare con le proteste degli studenti, e l’artista appassionato di sociale sentì il bisogno di uscire dal turbine capitalistico, per diventare l’antesignano di un movimento tutto italiano, teorizzato poi da Germano Celant nel 1967.
Pistoletto si aggiusta la sciarpa e dice di non ricordare il suo stile negli anni Settanta, «erano anni intensi, prima il ’68, poi gli anni di piombo, ci sentivamo tutti coinvolti». Di sicuro il pantalone era quasi a zampa, la giacca precursora del radical chic e barba e capello piuttosto fricchettoni.
«Facevo tante conferenze, allora, anzi allora erano assemblee, happening… Io ero interessato soltanto all’arte, e al suo potere per cambiare la società. Ricordo che mettevano sempre come musica di accompagnamento i Rolling Stones, ma non mi chieda quale sia la mia canzone preferita, scriva quello che vuole…».
Immaginando Michelangelo vestire la sua famosa Vergine degli stracci («l’ho comprata da un tizio che vendeva statue da giardino, in studio reggeva gli stracci per pulire i quadri, era di schiena, mi venne l’idea di rivestirla, nacque la Venere degli stracci come risposta al degrado del consumismo») sulle note di Sympathy for the Devil (1968), gli chiedo se Mick Jagger, di poco più giovane di lui, abbia comprato un’opera alla mostra di Londra.
«Jagger? Non so, m’informerò con il gallerista. Sembrava molto interessato… Mi ha fatto piacere vederlo, purtroppo nella mia vita non sono mai riuscito ad andare a un concerto degli Stones, però l’ho trovato in forma, chissà come fa…».
Pongo a Pistoletto la stessa domanda, dice che non sa cosa significhi “pusher”, mi spiega che la sua unica droga per mantenersi giovane è «il lavoro, anzi pensare, anzi creare, anzi l’arte, o forse la prospettiva…».
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Proprio di prospettiva artistica ha infatti conversato con Leonardo DiCaprio, in un angolino della galleria londinese, in occasione del vernissage di un paio di settimane fa.
«Mi ha chiesto di parlargli di Piero della Francesca, perché suo padre aveva un incarico in un Museo di arte antica e quindi gli aveva parlato della Monna Lisa, per questo motivo lo chiamò Leonardo! Sa, tra lui che si chiama Leonardo e io che mi chiamo Michelangelo ci è venuto naturale appartarci per parlare di prospettiva».
Ovvio, replico io.
«A DiCaprio spiegavo che la Monna Lisa sullo sfondo ha il paesaggio, ma la prospettiva che ha reso celebre il ritratto viene dalla struttura architettonica, non dal paesaggio. È l’architettura che porta la prospettiva, questo gli ho spiegato. Gli ho ricordato anche che la Gioconda viene molti anni dopo la prospettiva di Piero della Francesca, mi sembrava soddisfatto della mia lezioncina, ancora più contento di chiamarsi Leonardo».
Michelangelo Pistoletto confessa di non aver avuto ancora l’occasione di andare al cinema a godersi Una battaglia dopo l’altra, il film adesso nelle sale in cui DiCaprio è il protagonista. Ma a proposito di Louvre, ricordando la sua personale nel 2013, l’artista commenta così il furto dei gioielli napoleonici: «Penso che sia molto grave il fatto che la burocrazia prenda la mano anche nei grandi sistemi culturali, e quindi ci sia un abbandono burocratico in cui nessuno si prende una responsabilità oltre il proprio naso. È il sintomo di un’incapacità gestionale che troviamo anche nei grandi imperi, che poi sviluppano delle situazioni disastrose. Ma la cosa più interessante che avevo scoperto io quando ho fatto la mostra al Louvre è che le uniche opere assicurate erano le mie! Perché tutte le opere di proprietà del Louvre non sono assicurate, e comunque non basterebbero i soldi dell’intero pianeta per farlo».
Oggi Pistoletto ha creato una realtà artistica, culturale, sociale ed educativa a Biella, nella sua Città dell’arte, dove vive, lavora, opera, e co-produce mostre, come quella adesso in corso al Palazzo Reale di Monza (UR-RA).
Appena nomini la Città dell’arte, il “sindaco” di questa artistica realtà si accende per ricordare quanto la creatività artistica debba diventare responsabile del cambiamento sociale, e quanto negli spazi che rispecchiano la sua etica un posto d’onore sia dedicato al Terzo Paradiso, utopia e formula d’incontro tra due paradisi (quello naturale e quello artificiale) che ne creano un terzo.

Il ‘Terzo Paradiso’ alla mostra ‘UR-RA’ al Palazzo Reale di Monza. Foto: press
«Ho aggiunto un cerchio al simbolo dell’infinito, lì c’è il grembo generativo della nuova umanità», afferma Pistoletto, ricordandomi come quel progetto, lanciato nel 2003, abbia coinvolto comunità, persone e progetti di inclusione sociale in tutto il mondo. Anche la pace è un tema che lo coinvolge, da anni.
«A Gaza i potenti l’hanno chiamata pace, bisogna poi vedere se questa pace porta a conflitti limitati e provvisori, come per la Seconda guerra mondiale in Italia, o se tornerà l’orrore». Pistoletto ricorda che proprio a Palazzo Reale, nel 2013, presentò per la prima volta la sua installazione Pace preventiva, colpito dall’idea della guerra preventiva scatenata in Iraq.
Ancora oggi, nel 2025, quell’opera resta purtroppo attuale. Per raggiungerla è necessario percorrere un labirinto, un passaggio tortuoso che ci porta a un bivio. «Bisogna scegliere da che parte stare, sconfiggere il Minotauro e arrivare all’idea di pace», ricorda l’artista.
L’installazione è stata visitabile nel 2023 alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano, proprio nella stessa collocazione in cui, quando Pistoletto aveva vent’anni, fu esposta Guernica, il capolavoro di Pablo Picasso. «Picasso ha lavorato esprimendo le immagini che venivano dal suo sentire, era rivolto al mondo che in quel momento era tragicamente in guerra, così come lo siamo oggi. In Guernica lui racconta la storia del mostro Minotauro, che rappresenta l’orrore, e poi raffigura tutte le vittime di questa guerra, sconvolte. Però non dimentichiamo», continua, «che nel quadro c’è anche una lampada, segno di luce e di speranza. La continuità con il maestro del cubismo, per quanto mi riguarda, è rappresentata proprio dal Terzo Paradiso», conclude il Maestro.
Nel becco della famosa Colomba di Picasso, simbolo mondiale di pace, Pistoletto ha infatti sostituito il ramoscello d’ulivo con il simbolo del Terzo Paradiso. Che forse è quello che accoglie, con infinito affetto, soprattutto gli artisti.








