Il teatro è trasformazione, parola di Altofest | Rolling Stone Italia
rimescolare le carte

Il teatro è trasformazione, parola di Altofest

A Napoli (ma per l'ultimo anno), è andato in scena il festival che parte, letteralmente, dalle case dei cittadini. E che apre un dialogo inedito tra lo spazio, i corpi e la rappresentazione

Altofest Napoli

Foto: Vincenza Solli

Peter Brook, maestro della scena del Novecento, vedeva il teatro come il luogo in cui una comunità si ritrova per condividere emozioni e riflessioni. Ma cosa accade quando quel luogo non è più il palcoscenico, ma una casa, con la sua intimità fragile, le sue dinamiche familiari, le sue crepe e i suoi profumi? Cosa succede quando l’artista non arriva solo a “fare” arte, ma a vivere – a cucinare, dormire, lavare i piatti – nello spazio di un altro? A Napoli, ogni estate case che fino al giorno prima custodivano il silenzio delle abitudini si spalancano, accolgono e si lasciano trasformare da Altofest, un festival di arti performative che sovverte il confine tra pubblico e privato, tra spettatore e attore, tra quotidiano e straordinario.

Lanciato nel 2011 dal collettivo TeatrInGestAzione, fondato da Anna Gesualdi, regista, e Giovanni Trono, attore, Altofest nasce come un atto politico e poetico. L’idea è: per due settimane, artisti da tutto il mondo vengono ospitati in case private, dove vivono, creano e infine mettono in scena il proprio lavoro. Ma la parola “scena” qui perde ogni significato canonico. La scena è il salotto, il corridoio, la cucina. È la casa vissuta, reale, con i suoi odori, i suoi ritmi, le sue memorie. È proprio qui che prende vita il cuore pulsante di Altofest: la relazione tra l’artista e il donatore di spazio (il proprietario di casa), e la comunità di cittadini/spettatori che si muove, come in una danza corale, per i vicoli della città per correre da una abitazione all’altra e assistere a una performance. Non è una semplice ospitalità logistica. È un’apertura intima, reciproca, profonda. Un esperimento di fiducia e contaminazione che ridefinisce la natura stessa dell’arte e dell’abitare, dove l’atto del prendersi cura della persona e dello spazio diventa una dichiarazione non verbale di resistenza.

Altofest Napoli

‘Atlas of Sound’. Foto: Vincenza Solli

«Altofest crea volutamente un disequilibrio», spiegano Pippo Pirozzi e Marina Galzignato, che da sei anni circa donano la loro casa alla Sanità. «Ma è un disequilibrio positivo. Ti costringe a uscire dal controllo, a rivedere le regole della convivenza, anche con te stesso. Non ospiti solo uno spettacolo, ma ospiti una persona. E quella persona, inevitabilmente, lascia un segno. Ti cambia. E tu cambi lei». In questa dimensione, in questo tempo limitato, il concetto di abitare muta delineando un sottile confine fra pubblico e privato. Ludomir Franczak, artista sonoro polacco ospite della famiglia Pirozzi Galzignato, lo conferma. Il suo lavoro – Atlas of Sounds – è un sistema modulare di suoni, che si adatta di volta in volta al luogo che lo ospita. «In teatro, dormi in hotel. Qui, vivi in famiglia. Condividi pasti, spazi, rumori, impari abitudini nuove. Per esempio ho scoperto che la mozzarella non va mai messa nel frigorifero. La casa, insomma, diventa parte integrante dell’opera».

Nella sua performance, i suoni di Porta Nolana si mescolano a quelli raccolti in Romania, e i confini tra dentro e fuori, tra Napoli e il resto del mondo si fondono. Harmelss (innocuo, inoffensivo) è il tema scelto per questa quindicesima edizione, che viene spiegato nel manifesto dagli organizzatori: «Per noi harmelss non è solo uno stato o una qualità, ma una prospettiva a partire dalla quale interrogarci assieme sul nostro modo di essere corpo, di conoscere e di agire. Le opere che compongono AltoFest mostrano un corpo spogliato, disarmato, non predisposto alla conquista. Un corpo che non domina, ma che accoglie, che non forgia, ma che si lascia formare nell’incontro. «È molto interessante per un’artista avere la possibilità di creare qualcosa insieme con i cittadini, in uno spazio che per sua natura è già pieno», racconta Paolina Fenko, artista originaria di San Pietroburgo, ora a Berlino. «All’inizio non sapevo come muovermi, ma dopo aver passato qualche giorno con Giovanna (Franzese, la sua donatrice di spazio, ndr), ho cominciato a includere nella performance anche alcuni oggetti presenti nella casa, come il suo tapis roulant».

Altofest Napoli

‘Atlas of Sound’. Foto: Vincenza Solli

«Altofest è un rito di fiducia» – spiega Giovanna Franzese, che dopo due anni ritorna come donatrice di spazio – «Per me era fondamentale che Paolina si sentisse padrona dello spazio, proprio come mi sento io. Mettere limiti “questo non lo puoi toccare”, “questo resta qui”, avrebbe frenato la sua immaginazione. È una vera messa in gioco reciproca. Non è facile: i tempi sono stretti, magari hai solo mezz’ora per dormire, ma nel tempo impari a convivere con questa “invasione”. Ti accorgi che ne vale la pena, perché quella fiducia diventa qualcosa di più grande, che non si instaura solo fra artista e donatore di spazio, ma abbraccia un’intera comunità». Una comunità fluida, temporanea, intensa, dove la pratiche di vita quotidiane vengono destrutturate per accogliere un nuovo modo dello stare, dell’essere. Si costruisce un modo diverso, a volta anche più consapevole e attento, di comunicare, un dialogo che va al di là delle parole.

«Con Yoonhwan Joen», ci racconta Peppe Cutolo, «essendo lui coreano, abbiamo parlato principalmente in inglese, anche se qualche volta ci siamo aiutati e capiti con gesti e Google Translate. Le conversazioni più profonde le abbiamo avute quando c’erano momenti di tranquillità, come il sabato sera. Abbiamo anche parlato del suo lavoro, ma ho preferito non intromettermi troppo e non sapere troppo per lasciarmi sorprendere dalla performance». Lo spazio intimo e privato in qualche modo si impone esercitando un forte impatto sulla performance dell’artista. Yoonhwan Jeon ha trasformato la sua performance. «In origine, il progetto era di presentare l’opera così com’era. Ma dopo aver parlato con Anna e Giovanni e aver compreso meglio la filosofia di AltfFest, mi sono reso conto che la connessione con lo spazio e le persone era più importante della semplice presentazione di un’opera finita. Così ha iniziato a ripensare al mio lavoro, trasformandolo in qualcosa di più specifico per il luogo. Ha riflettuto sul tempo trascorso in isolamento durante la pandemia e ho iniziato a creare un’installazione che attraversa diverse stanze della casa, riecheggiando la sensazione di solitudine della mia piccola stanza a Gangwhado Island (un isola a Sud della Corea, ndr). La mia opera si concludeva con una lettera indirizzata alle generazioni future, colma di disperazione e di assenza di speranza. Tuttavia, condividendo il tempo con Peppe e Sabrina, con i loro amici, i pasti, le risate, ho riscritto il finale, che parla di un cammino verso la luce, di speranza e di una rinnovata energia. Questo è ciò che mi ha dato Altofest e questo è ciò che mi porto a casa di Napoli e di questa intera esperienza, una maggiore fiducia nell’umanità».

Altofest Napoli

‘Couris a sa ruine’. Foto: Vincenza Solli

Altofest Napoli

Foto: Vincenza Solli

Simona Rossi, danzatrice romana, la cui performance ha invaso Vico Tronari, nascosto nella Sanità, ha portato il suo lavoro all’aperto, in una cava abbandonata poi donata spontaneamente da un abitante. Non c’erano più muri tra arte e realtà. «Tutto – i passanti, i rumori, le presenze – entrava nella performance. L’imprevisto diventava significato. Era un gioco con l’incidente, un abbraccio al caos della vita». E Tina, la sua donatrice da 15 anni al servizio di Altofest, è diventata una guida. «Ha un’intelligenza relazionale rara. La sua presenza è stata fondamentale. Ha scelto di stare lì, di farne casa. La sua accoglienza è diventata parte del mio processo creativo».

«Altofest ha cambiato la mia vita», racconta Tina, 75 anni, «ma non solo la mia, anche quella del quartiere. Prima del festival qui non ci veniva nessuno, ora sono in molti sia cittadini sia turisti che passano di qui per vedere la cava. Con gli artisti negli anni si è instaurato un rapporto molto stretto e ancora oggi mi chiamano per sapere come sto. Questo succede quando dai, e ti prendi cura in modo autentico e genuino. Ed è questo dare che mi rende felice».

Altofest Napoli

‘Sans Ordre’. Foto: Vincenza Solli

Altofest Napoli

‘Sans Ordre’. Foto: Vincenza Solli

Il 2025 ha segnato l’ultima edizione di AltoFest a Napoli. Dopo 15 anni di intenso lavoro e dopo aver cambiato le regole non solo dell’abitare, dello stare nello spazio, del vivere la città e del fluire dell’opera artistica, i due fondatori hanno deciso si prendere una pausa, per portare il progetto a Trečin, in Slovacchia, capitale della cultura europea per il 2026. Tutto questo lavoro, tuttavia, ha lasciato un forte impatto sui cittadini. «È come se ci fosse stato un piccolo terremoto», dice ridendo un residente. «Ma non ha distrutto nulla. Ha solo spostato le cose, rimesso in discussione ciò che davo per scontato».

E forse è proprio questa la missione profonda di Altofest: spostare, decentrarsi, rimescolare le carte. In un mondo che ci spinge sempre più verso la chiusura, l’isolamento, l’identità rigida, Altofest apre le porte. E ci ricorda che l’arte è innanzitutto un atto di fiducia. Di esposizione. Di intimità. Nella casa che accoglie, nella cena condivisa, nella parete diventata scenografia, si compie qualcosa di raro: la possibilità di essere umani insieme. E in quel breve, prezioso disequilibrio, nasce un’altra idea di comunità. Un’altra idea di teatro. E forse, un’altra idea di futuro.

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