Sebastião Salgado è tra i più grandi fotografi del nostro tempo, e tra coloro che sono stati in grado di trasformare la propria arte in un megafono a favore spesso degli ultimi della Terra. Un circolo ristretto che vede tra gli altri Steve McCurry, William Eggleston, Paul Nicklen ed Evandro Teixeira, scomparso a 88 anni il 4 novembre scorso, unico brasiliano insieme a Salgado a partecipare alla mostra alla Leica Gallery di New York che nel 2008 riunì i più grandi fotografi internazionali.
Negli ultimi anni Salgado ha messo la sua fotografia al servizio del cambiamento climatico, funzione di denuncia e visibilità. A partire dai grandi reportage in Amazzonia, Salgado va dunque ben oltre il ruolo di fotoreporter, arrivando già nel 1994 ad abbandonare l’agenzia Magnum scegliendo così di dare corpo – con l’istituzione di Amazonas Images, creata insieme alla moglie Lélia Wanick Salgado -, a una realtà organizzata capace di produrre una comunicazione strutturata e rivolta principalmente ai temi sociali e ambientali ormai al cuore della sua produzione artistica.

‘Un’antica morena glaciale, Disappointment River, Parco nazionale e riserva di Kluane, Canada, 2011’. © Sebastião Salgado
Dall’anno di fondazione di Amazonas Images, Sebastião Salgado ricompone così una frattura tra la sua formazione di economista, maturata all’interno di uno sguardo sociale sempre vivido e politicamente attivo, e la sua professione di fotografo. Ora Salgado produce infatti in maniera autonoma e strutturata i propri reportage con l’obiettivo di sviluppare veri e propri percorsi di diffusione e disseminazione del proprio lavoro che vadano ad agire in favore delle cause che di volta in volta decide di sposare e sostenere.
Una modalità dalla forza comunicativa straordinaria, che permette al suo lavoro di ottenere più luoghi espositivi contemporaneamente nel mondo. La riproducibilità fotografica diviene così anche espositiva, senza però mai far mancare ai visitatori delle sue mostre il senso di un’occasione unica di visione e di rivelazione dal forte impatto.
Una forma di evento con tutte le caratteristiche di pathos fondamentali e necessarie, e allo stesso tempo una sorta di produzione in serie molto organizzata e strutturata. Che in parte tende, però, a irrigidirsi in un modello fin troppo prevedibile, dentro al quale l’arte fotografica di Sebastião Salgado patisce un eccesso di messaggio e di denuncia. Il che tende a inscatolarla eccessivamente, con il risultato di ridurne la portata espressiva.

‘Un ghiacciaio ai piedi del Cerro Torre, della Torre Egger e della Punta Herron, cime situate in Patagonia al confine tra Cile e Argentina, 2007’. © Sebastião Salgado
È così un’ottima occasione la visita all’esposizione ora presente al Mart di Rovereto, Ghiacciai, realizzata anche in occasione dell’Anno Internazionale dei Ghiacciai. Curata da Lélia Wanick Salgado, la mostra è prodotta in collaborazione con Contrasto (che pubblica il bel catalogo dell’esposizione) e Studio Salgado con il coordinamento di Gabriele Lorenzoni, e coinvolge anche gli spazi del MUSE di Trento dando corpo a un’esposizione diffusa che include anche aspetti più tecnici e scientifici.
Il risultato è una visione globale sulla crisi dei ghiacciai, che stiamo in verità vivendo spesso con sopita distrazione. Alla fine arriva il coinvolgimento attivo del pubblico, che può cogliere al meglio una situazione ambientale realmente critica e pericolosa, che non rappresenta solo la spia di un disagio climatico ma chiarisce i termini di un potenziale disastro realmente incombente. In cui il pianeta si rende giorno dopo giorno (minuto dopo minuto) sempre meno vivibile per l’umanità e per le sue dispendiose (e pretenziose) condizioni di vita.

‘Un ghiacciaio che si stacca, accanto gli effetti della progressiva erosione. Ghiacciaio Grey, Campo de Hielo, Parco Nazionale Torres del Paine, Patagonia,
Cile, 2007′. © Sebastião Salgado
I cinquanta scatti presenti negli spazi del Mart rappresentano così icasticamente una doppia sfida per Salgado: presentare il drammatico conto di uno stato dei ghiacciai in drammatica riduzione, e farlo con un linguaggio originale e fortemente riconoscibile. Entrambe chiaramente vinte. Tuttavia resta negli occhi del visitatore uno stupore che spesso rischia di fermarsi all’incanto: è innegabile la bellezza struggente dei paesaggi esposti, così come appariva allo stesso modo quella dei lavoratori nelle produzioni di base, masse perfettamente coordinate negli scatti che compongono La mano dell’uomo.
La cifra di Salgado dunque non può e non è mai messa in discussione. Ma in qualche modo il fotografo di Aimorés sembra toccare con la sua perfezione compositiva i limiti stessi di una fotografia che rischia di non riuscire per davvero mai a bucare le coscienze dei suoi spettatori. Un limite che è contestuale agli stessi spazi espositivi, che nel loro minimalismo elegante tendono a sterilizzare temi la cui drammaticità non può in qualche modo essere contemplabile.
Si cammina tra le sale con la sensazione di guardare l’oceano da dentro il Titanic con una forma di curiosità sospesa, come se il tracollo in corso non ci coinvolgesse. Le immagini quasi inglobano il visitatore lasciandolo stupefatto ma anche lietamente atterrito: l’affondamento è in corso, tutto si scioglie e noi non ci possiamo fare nulla. La profondità dei grigi testimoniano una perdita di bianco che si riflette nella perdita di una lucidità capace di affrontare la nostra stessa esistenza.

‘Penisola Antartica, 2005’. © Sebastião Salgado
Salgado riesce ad andare ben oltre la denuncia ambientale, colpendo direttamente le pupille degli spettatori e rivelandone una fragilità che è sì sentimentalmente coinvolta, ma anche inevitabilmente impotente. Quei ghiacciai e quei paesaggi denunciano infatti direttamente le nostre più intime fragilità e la nostra perenne incapacità di dare un senso diverso al nostro comune dolore, alla nostra tragica fatica quotidiana.
Il mondo e in particolare i ghiacciai non subiscono semplicemente il nostro agire, ma partecipano – come compagni fedeli – alla nostra stupidità così come alla nostra estrema immaturità. Un’estinzione comune che porta a un cambiamento di forma e di stato, che per l’umanità inevitabilmente assume i toni di un mistero che lascia attoniti nell’ormai evidente incapacità di vedere il mondo e di comprenderlo.
Un legame che va quindi riletto in una forma di adesione che sia prima che utilitaristica, anche affettiva. La bellezza di questi luoghi così evidente anche nel momento della loro distruzione in corso dovrebbe essere sufficiente non solo per pensare di salvaguardarli, ma per provare a riallacciare una relazione amorosa con una parte di mondo. Un elemento del paesaggio e della natura che dovrebbe essere necessario e fondamentale anche solo per la nostra possibilità di immaginarci migliori di quanto non stiamo dimostrando di essere.