Grazie, Martin Parr, per averci costretto a guardare quello che siamo | Rolling Stone Italia
Grande antropologo del ridicolo umano

Grazie, Martin Parr, per averci costretto a guardare quello che siamo

Il grande fotografo inglese non aveva bisogno di essere politicamente scorretto: davanti a questo mondo, bastava essere sincero. Ed è una lezione che non ritorna facilmente

Martin Parr

Martin Parr

Foto: Jeff Spicer/Getty Images per Photo London

Con Martin Parr non se ne va solo un fotografo, ma l’ultima coscienza visiva di un’epoca che ha smesso di guardarsi allo specchio perché teme quello che vede. Settantatré anni, cancer survivor fino all’ultimo fotogramma utile, se n’è andato a casa sua a Bristol, lasciandoci in eredità un archivio che somiglia a un’autopsia del mondo occidentale: colorata, grottesca, spietatamente sincera.

Se oggi scrolliamo Instagram con la faccia di chi guarda un acquario di sardine depresse, è perché Parr ci ha insegnato — anzi, costretto — a vedere quello che eravamo. Ma non abbiamo saputo ascoltarlo. Volevamo glamour, ci ha dato sunburn. Volevamo “organic lifestyle”, ci ha immortalati mentre addentavamo un cheeseburger di plastica su una spiaggia di plastica. Volevamo la rivoluzione digitale, ci ha scattati mentre facevamo la fila da McDonald’s nel giorno della nostra presunta emancipazione.

Parr era il grande antropologo del ridicolo umano: un uomo che sembrava uscito da un catalogo Marks & Spencer — calzini in vista, jumper prudente, la silhouette del vicino di casa che ti chiede il trapano — e che invece operava come un chirurgo estetico alla rovescia. Lui non abbelliva: scorticava. Non era elegante: era pertinente. Politicamente scorretto senza mai dirlo, perché l’onestà, oggi, è di per sé un atto sovversivo.

In Small World, Common Sense, Bad Weather, ha trasformato gli inglesi in un’installazione permanente sullo stato dell’Occidente. Nessuna pietà, moltissima ironia, zero indulgenza. La sua opera più feroce però resta The Last Resort (1986): tre estati a New Brighton per dimostrarci che la working class brit non era un cliché punk da maglietta H&M, ma un mondo di pruriti solari, bambini che piangono, zucchero filato fuso, rifiuti appiccicati alle caviglie, famiglie che resistono alla Thatcher come possono — con un fish and chips mangiato sotto un cielo che sembra piangere per loro.

Fu accusato di essere snob, elitista, brutale. Forse lo era. Ma almeno era lucido. E quando lo criticarono per aver ritratto i poveri “da ricco”, rispose senza dire nulla — perché in realtà lo aveva già fatto con le foto della middle class nella spettacolare serie The Cost of Living: sorrisi stirati, brunch di cartone, open day scolastici dove tutti cercano di sembrare migliori di quanto siano. Martin Parr non aveva pietà per nessuno, neppure per sé. E forse per questo nessuno ci ha fotografato così bene.

Gli americani avevano Diane Arbus per i freak. Noi avevamo Martin Parr per i “normali”. E i normali, oggi, sono la vera specie in via d’estinzione.

Cartier-Bresson lo odiò, o meglio: lo trovava alieno. “Viene da un altro pianeta”, disse. E aveva ragione: Parr proveniva dal futuro, da quel pianeta chiamato 2025 dove tutto è saturo, tutto è consumo, tutto è selfie. Contro il nostro narcisismo, Parr rispondeva con un contro-selfie: una foto che ti guarda mentre guardi la tua stessa stupidità.

E non gli è servito diventare presidente di Magnum, fondare la sua Martin Parr Foundation, collezionare photobook, cartoline kitsch e orologi di Saddam Hussein. Era un raccoglitore del mondo, certo, ma con la rabbia morbida del moralista riluttante. Un uomo che amava il passato inglese — i village fair, i tè annacquati, le regine centenarie — e detestava tutto ciò che quell’Inghilterra è diventata: un parco a tema Brexit dove la nostalgia è una valuta più stabile della sterlina.

Se oggi qualcuno estrae uno smartphone, punta la fotocamera e immortala un tramonto finto su una città che non vede più niente, è perché Parr ha fallito nel suo compito impossibile: svegliarci. Ma almeno ci ha lasciato l’atlante completo del nostro naufragio.

E ora? Ora che Martin Parr non c’è più, chi ci fotograferà mentre affoghiamo nel nostro plasticoso declino? Chi avrà il coraggio di mostrarci ciò che siamo davvero: un popolo che prende troppo sul serio il superfluo e troppo poco sul serio il necessario?

Forse nessuno. Forse è questo, il suo vero testamento: senza Martin Parr siamo di nuovo liberi di mentirci addosso. Ma ogni volta che rideremo di una sua foto, ogni volta che ci infastidirà, ogni volta che ci riconosceremo in quel turista sudato o in quella signora in sandali da ortopedico, capiremo che no: non siamo affatto liberi.

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