Douglas Gordon al MAXXI, la verità è un video che gira in loop | Rolling Stone Italia
visioni falsate, frammenti, tentativi

Douglas Gordon al MAXXI, la verità è un video che gira in loop

Un tempo sghembo molto attuale: questo è 'Pretty much every film and video work from about 1992 until now’ish…', nella capitale fino al 26 ottobre. Che ci parla anche dello stato, e del percorso, della videoarte

Douglas Gordon

La mostra di Douglas Gordon al MAXXI di Roma

Foto: Luis Do Rosario

Al MAXXI di Roma, Douglas Gordon presenta Pretty much every film and video work from about 1992 until now’ish…. Un titolo che è insieme un archivio e un ammiccamento: il senso del tempo, per Gordon, è sempre un po’ incerto, mai del tutto lineare. Più che una retrospettiva, quella in mostra fino al 26 ottobre è un ecosistema visivo in cui si condensano trent’anni di produzione video, disseminata su schermi, proiezioni, pareti, come un diario visivo sparso, frammentato, ossessivo. Il tempo – quello della visione, della memoria, del corpo – è il vero protagonista. I 114 film e video in mostra non raccontano, non dimostrano, non seducono: fluttuano all’interno della scenografica galleria 5, sospesa nel vuoto e incorniciata da ampie vetrate che abbracciano la Città eterna. Rallentano, si ripetono, si sdoppiano. Più che installazioni, sono loop mentali. Gordon non chiede di guardare, ma di ricordare guardando.

In un certo senso, tutto questo l’aveva previsto Nam June Paik quando, nel 1974, scriveva sul New York Times che il XXI secolo sarebbe stato l’epoca del video. Non del cinema, non della televisione: proprio del video. Un mezzo ibrido, tattile, instabile, capace di espandere l’arte oltre i suoi confini tradizionali, moltiplicandone i supporti, i formati, i pubblici. È passato mezzo secolo e quella profezia suona ancora attuale, sebbene il contesto sia mutato radicalmente. La videoarte non è più sperimentale, non è più giovane, eppure continua a essere uno dei linguaggi più affilati – e stratificati – per raccontare il presente.

A partire dagli anni Sessanta, la videocamera è diventata per molti artisti uno strumento di liberazione: estetica, politica, concettuale. Il gesto è stato tanto rivoluzionario quanto silenzioso. Vito Acconci, nel suo Centers, punta un dito verso l’obiettivo per minuti interi, ossessivamente: un modo per interrogare lo sguardo e la presenza. Bruce Nauman cammina in cerchio nel proprio studio, trasformando il corpo in metronomo, la videocamera in testimone. Sono gesti minimi che ridisegnano lo spazio dell’arte: via la tela, via la narrazione, via lo spettatore passivo. Resta il corpo, resta il tempo.

Poi è arrivato Paik, con la sua ironia zen e le sue installazioni a tubo catodico. Nato a Seul nel 1932, formatosi con Cage e Stockhausen, ha trasformato l’elettronica in poesia visiva. In TV Buddha, un monitor mostra in tempo reale la statua di un Buddha assorto nella propria immagine video: circuito chiuso, loop spirituale. Con Electronic Superhighway, un mosaico di monitor compone la mappa degli Stati Uniti, anticipando l’ubiquità digitale. Paik è stato il primo a intuire che il video non doveva solo registrare: poteva riflettere, commentare, alterare. Accanto a lui, sono gli anni Settanta, si sono posizionati poi altri maestri: come Vito Acconci, Bruce Nauman, Laurie Anderson o Bas Jan Ader, artista olandese tragicamente scomparso nel 1975. Jan Ader ha firmato opere spesso basate sull’idea di caduta o sparizione, potenti metafore dell’incertezza e del rischio dell’esistenza umana. La sua ultima opera, una performance in cui tentò di attraversare l’Atlantico in barca a vela, finì in un mistero che ancora oggi alimenta fascino e riflessioni. Nei suoi video e fotografie, il gesto semplice ma carico di tensione diventa una poesia visiva sulla fragilità e la perdita.

Negli anni Novanta, mentre la televisione si faceva sempre più bulimica e Internet iniziava a esplodere, Bill Viola ha scelto la strada opposta: rallentare tutto. Le sue opere – The Reflecting Pool, Martyrs, The Crossing – sono liturgie visive. La videocamera cattura il tempo come fosse materia liquida, vischiosa. Le immagini diventano icone mobili, capaci di evocare una spiritualità laica e profonda. Il riferimento alla pittura rinascimentale non è un vezzo: è un modo per collocare la videoarte dentro una lunga tradizione visiva, al tempo stesso rinnovandola.

Pipilotti Rist, invece, ha preso il video e lo ha trasformato in un sogno fluorescente. I suoi ambienti sono immersivi, ipersaturi, giocosi. In Ever is Over All, una ragazza sfila sorridendo lungo un marciapiede e con un fiore gigante frantuma i vetri delle auto parcheggiate. Una performance dolcemente sovversiva, una forma di anarchia lirica. Con Rist, la videoarte si fa esperienza sensoriale, spazio emotivo, fantasia incarnata.

La videoarte non è mai stata un movimento coeso. È piuttosto un arcipelago in perenne trasformazione. Dan Graham ha esplorato il rapporto tra architettura, spettatore e controllo: i suoi padiglioni specchianti, spesso accompagnati da video, sono esperimenti percettivi sul tempo reale. Isaac Julien ha raccontato la diaspora e l’identità queer attraverso un montaggio cinematografico e installativo. Shirin Neshat ha usato il video per indagare la cultura islamica, il corpo femminile, lo sguardo come atto politico. Nel panorama ancor più contemporaneo, Pierre Huyghe si distingue per la sua capacità di fondere video, installazione, natura e Intelligenza Artificiale, creando ambienti che sfumano i confini tra realtà e finzione. Le sue opere spesso coinvolgono organismi viventi, animazioni digitali e suoni ambientali, in un gioco continuo di mutazioni e trasformazioni.

In The Host and the Cloud, per esempio, Huyghe mette in scena un ecosistema in continua evoluzione, dove video, scultura e vita si intrecciano in modo indissolubile. Con lui la videoarte si fa esperienza totale, multisensoriale e sempre aperta all’imprevisto, come un organismo vivo che respira. Tra i nomi contemporanei più interessanti nella videoarte oggi non si può non citare Laure Prouvost, artista francese che ha saputo innovare il linguaggio video unendo narrazione surreale, ironia e una spiccata capacità di mescolare realtà e finzione. Le sue opere sono spesso ambientate in spazi sospesi, dove la parola diventa materia plastica e la storia si intreccia con il sogno, creando un’esperienza audiovisiva unica, che sfida lo spettatore a perdersi e ritrovarsi in un flusso narrativo inedito.

A proposito, uno dei lasciti più duraturi della videoarte è la dimensione immersiva. Il passaggio dallo schermo all’ambiente – da visione a esperienza – ha ridefinito il modo stesso di abitare le opere. Lo spettatore non è più un semplice occhio, ma un corpo in movimento. Le grandi biennali hanno ormai interiorizzato questo linguaggio: si pensi al Leone d’Oro del 2019 a Sun & Sea, l’opera-performance lituana ambientata su una spiaggia artificiale, dove il cambiamento climatico si insinua in canzoni leggere, tra asciugamani e creme solari.

Oggi, la videoarte si muove tra cinema, performance, installazione, gaming, musica elettronica, AI. Alcuni artisti lavorano con l’archivio e il found footage (Hito Steyerl, Kahlil Joseph), altri con il 3D, la CGI, le piattaforme virtuali (LuYang, Lawrence Lek). Altri ancora con il documentario espanso (Amar Kanwar, Forensic Architecture), in cui l’immagine è prova, atto, contro-narrazione. È un panorama multiforme, in cui la videoarte non ha più un centro, ma infinite possibilità di deviazione.

Ecco perché la mostra di Gordon al MAXXI – con il suo titolo volutamente vago, il suo archivio aperto, il suo tempo sghembo – appare quanto mai attuale. È il ritratto di un artista che ha scelto di non offrire sintesi, ma visioni sfalsate, frammenti, tentativi. Il video, in fondo, non promette verità: offre montaggi. È un’arte per menti inquiete, per occhi che vogliono perdersi. Il futuro, come diceva Paik, è adesso. Ma forse è anche un loop che si ripete, ogni volta con un piccolo scarto.

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