Wangechi Mutu, con la Galleria Borghese, ha deciso di intrecciare un dialogo audace. Non solo per la collisione – sfacciata e necessaria – tra una sensibilità artistica nera, femminile, diasporica e il tempio romano del barocco e della classicità, ma anche per il modo in cui l’artista sceglie di abitare il museo: non come ospite temporanea bensì da forza pulsante, che scava e plasma, sospende e reinventa.
In questo modo Poemi della terra nera, a cura di Cloé Perrone, sfugge alla classificazione. È mostra, installazione, rito e controcanto. È una costellazione di opere pensate come presenze, visioni, corpi fluidi che si insinuano tra busti, colonne e soffitti affrescati, senza mai chiedere il permesso. Non si sovrappongono: si incuneano tra i vuoti e i silenzi del museo. Anzi, a ben pensare, li risvegliano.
Come già nella recente mostra dedicata a Giovan Battista Marino, la Galleria Borghese insiste su un asse dichiarato: la poesia. Ma se il barocco del poeta napoletano era virtuosismo di parola, ornamento estremo, la poesia di Wangechi è materica, ruvida, radicale. La sua “terra nera” è fertile, ribollente, umida come l’argilla appena lavorata: una materia viva che accoglie il seme della metamorfosi. E da lì genera.
Bronzo, piume, legno, cera, carta, acqua, terra: sono questi i materiali-chiave del suo vocabolario plastico. In un contesto impregnato di marmo e stucchi dorati, la loro presenza ha l’aria del gesto politico. «Le cose belle accadono quando agisci in modo intuitivo e radicale in un momento di ansia», dice l’artista cinquantatreenne che ha alle spalle una laurea in scultura a Yale. Ed è proprio questa la tensione che anima le sue opere: un’inquietudine creativa, che prende corpo in forme sospese tra umano e mitologico, tra ancestrale e post-umano.
Nelle sale interne, le creature aeree di Mutu – come Ndege, Suspended Playtime, First Weeping Head e Second Weeping Head – fluttuano leggere, penzolano dai soffitti come apparizioni. Sfidano la gravità e, con essa, la logica verticale delle gerarchie museali. Il museo non è più il contenitore ordinato del canone occidentale ma un organismo permeabile, attraversato da narrazioni mobili. Il vuoto acquista spessore. L’aria diventa scultura.

‘Suspended Playtime’, Wangechi Mutu, 2008. Foto: press
«Uso la femminilità come una lente, ma non penso che tutte le mie creature siano donne. Penso che facciano emergere la femminilità che c’è in loro», ha detto l’artista, nata a Nairobi ma che da oltre vent’anni vive e lavora a Brooklyn. In queste opere non c’è un’identità definita, ma un continuo slittamento. Si percepisce una costante tensione verso l’altro, il mutante, il molteplice. Le forme non sono chiuse, ma aperte a risonanze simboliche: un occhio piangente può essere un vaso, un capo reclinato, una divinità dimenticata.
La mostra, allestita dal 10 giugno al 14 settembre, si estende anche all’esterno, sulla facciata e nei Giardini Segreti. E qui la “terra nera” prende davvero corpo. Le due cariatidi bronzee The Seated I e The Seated IV, realizzate nel 2019 per il Metropolitan Museum di New York, si installano sulla facciata della Galleria come sentinelle silenziose. Sono imponenti ma vulnerabili, ieratiche e al tempo stesso informali. La loro postura non sostiene, ma interroga: cosa significa sorreggere un’istituzione? E cosa significa farlo con un corpo nero?

‘The Seated I’, Wangechi Mutu, 2019. Foto: press
Le sculture all’aperto – Nyoka, Musa, Heads in a Basket, Water Woman – emergono dalla terra come presenze antiche, spiriti evocati. Sono contenitori di memoria, di storie dislocate. Rielaborano la forma del vaso, ne ribaltano la funzione: non contengono, ma espandono. La fluidità non è solo un tema: è una strategia. Come il suono, che attraversa l’intera mostra come un’eco, un battito, un mormorio.
Ne è un esempio Poems for my Great Grandmother I, dove il ritmo si fa trance ipnotica. Oppure Grains of War, testo tratto dalla canzone War di Bob Marley, che a sua volta rielabora il celebre discorso di Haile Selassie del 1963 alle Nazioni Unite: «Finché il colore della pelle sarà più importante del colore degli occhi, ci sarà guerra». Il linguaggio si fa scultura. La scultura, memoria sonora.
A pochi passi, all’American Academy in Rome, è poi esposta Shavasana I: una figura femminile in bronzo, sdraiata, coperta da una stuoia intrecciata. È un corpo in riposo o un corpo morto? L’opera evoca la posa yoga del “cadavere”, ma anche la cronaca contemporanea. Il suo silenzio pesa. La sua vulnerabilità vibra. In quell’atrio punteggiato da epigrafi romane, il gesto diventa rito funebre, ma anche atto di resistenza. Un grido muto, eppure potentissimo.
Poemi della terra nera è una soglia. Un modo di abitare la Galleria Borghese come fosse una ferita da cui far germogliare altre storie. Quelle escluse, negate, rese invisibili. Wangechi Mutu non entra nel museo: lo rifonda. E ci chiede di attraversarlo con occhi nuovi, ascoltando non solo ciò che è presente, ma anche ciò che è stato cancellato. D’altronde a che cosa serve un museo, se non a immaginare mondi nuovi?