C’era una volta un mondo senza stories, senza beauty filter, senza algoritmi che decidessero se eri abbastanza virale per esistere. Eppure, le celebrità brillavano lo stesso. Anzi, brillavano meglio. O quantomeno con una luce diversa, più fissa, più costruita, più falsa forse — ma in modo più onesto. A ricordarcelo oggi è Face Value: Celebrity Press Photography, mostra a dir poco rivelatrice che il MoMA dedica, dal 28 giugno 2025 al 21 giugno 2026, alla lunga e appassionata storia dell’immagine pubblica prima che diventasse digitale, liquida, e — diciamolo — un po’ isterica.
Non è solo una retrospettiva sulla golden age di Hollywood. È piuttosto un’autopsia elegante del culto della personalità analogica, ricostruita attraverso oltre 200 ritratti d’archivio provenienti dalla collezione fotografica del Department of Film, dalla pioniera Clara Bow fino a Oprah Winfrey, passando per nomi come Louise Brooks, Bela Lugosi, Mia Farrow, Elvis Presley e Diana Ross. Il tutto curato da Ron Magliozzi con Katie Trainor e Cara Shatzman, una squadra che qui sembra più da detective dell’immagine che da curatori istituzionali. E meno male.

‘Jackie Robinson’, c. 1950. Gelatin silver print, 10 × 8″ (25.4 × 20.3 cm). Foto: press
Il titolo è già una dichiarazione di poetica: Face Value, il “valore facciale” della celebrità. Ovvero: quanto vale una faccia quando è stata lavorata, sagomata, incorniciata e restituita al pubblico con lo stesso grado di manipolazione di un set cinematografico? Prima che arrivasse Photoshop, c’era il pennello a olio. Prima del ritaglio digitale, le forbici vere. E prima della viralità, c’era un concetto oggi pressoché sconosciuto: il controllo.
Chi pensava che i filtri fossero una distorsione recente, dovrà ricredersi davanti all’ossessivo lavoro di editing che emerge dalle immagini in mostra. Prendiamo per esempio il ritratto di Joan Crawford per Letty Lynton (1932) firmato da James Manatt: sezionato, ricalcato, sovrapposto e infine perfezionato con una grazia chirurgica che oggi farebbe impallidire qualsiasi app. O, per contrasto, la Carole Lombard non ritoccata di Otto Dyar (1933): uno sguardo quasi scandaloso nella sua imperfezione, un’anomalia tanto più preziosa in un contesto dove ogni poro era un potenziale problema da cancellare.

Otto Dyar. ‘Carole Lombard’, c. 1933. Gelatin silver print, 13 7/8
× 10 1/2″ (35.2 × 26.7 cm). Foto: press
Face Value non si limita alla nostalgia del bel tempo che fu. È una mostra profondamente contemporanea, perché ci mette davanti allo specchio (opaco) dell’oggi. In un’epoca in cui la celebrità è diventata orizzontale, replicabile e istantanea — dove ogni adolescente con uno smartphone può coltivare il proprio culto personale — il MoMA ci ricorda che la fabbrica dei sogni non è mai stata trasparente. Solo, una volta, ci voleva più tempo e più mestiere.
Le immagini in mostra sono state selezionate tra milioni di fotografie e negativi, molte delle quali mai esposte prima. Vengono da archivi editoriali come Photoplay (1911–80) e Dell (1921–76), due delle pubblicazioni che hanno inventato la nozione moderna di celebrità. Accanto ai ritratti costruiti degli attori di punta della MGM e della Paramount trovano spazio immagini di atleti, politici, eroine dell’aria e della carta stampata: Jackie Robinson, Eleanor Roosevelt, Jacqueline Kennedy Onassis, Amelia Earhart. Tutti trasformati in volti pubblici grazie all’intervento sapiente del fotografo e del redattore.

Ray Jones, ‘Anna May Wong portrait for the film Limehouse Blues, Soul of a Dragon’, 1934.
Gelatin silver print, 12 7/8 × 10″ (32.7 × 25.4 cm). Foto: press
Tra collage, in-painting, mascherature e altre tecniche da artigianato dell’inganno, quello che emerge è un’estetica della costruzione che non aveva ancora bisogno di dichiararsi. Non c’era bisogno del “#nofilter”, perché il filtro era lo standard. E dietro ogni posa studiata, dietro ogni raggio di luce perfettamente proiettato c’era un sistema preciso, gerarchico, a tratti feroce: quello degli Studios, dei giornali, e dei fotografi “di corte” che trasformavano gli attori in santi laici dell’immaginario.
La mostra è divisa in suite tematiche che attraversano le architetture visive della fama. Una sezione è dedicata ai “ritratti ritoccati”, un’altra al “prima e dopo” dei processi redazionali, un’altra ancora al ruolo di genere nell’estetica della celebrità. Le dive sono spesso eteree, immobili, scolpite nella luce come madonne laiche. Gli uomini invece appaiono più mobili, più scattanti, meno idealizzati. La fotografia di press kit non si limitava a vendere un volto: vendeva un’intera costruzione culturale. E lo faceva con una precisione chirurgica che oggi, stretti tra un selfie e uno slideshow, pare quasi commovente.

James Manatt, ‘Joan Crawford portrait for the film Letty Lynton’, 1932. Gelatin silver print, 13 × 10″ (33 × 25.4 cm). Foto: press
Un altro pezzo forte? L’immagine di Hattie McDaniel accanto a Ruby Berkley, la prima corrispondente nera accreditata a Hollywood: una micro-storia di resistenza iconografica in un panorama altrimenti bianchissimo. O la foto di Amelia Earhart su un set hollywoodiano, che conferma quanto anche il mito dell’avventuriera americana fosse, in fondo, questione di messa in scena.
E poi ci sono le meteore e i fantasmi, come l’ultima sessione fotografica con Marilyn Monroe — il volto già stanco, la pelle ancora luminosa, la finzione che ormai non regge più. È un’immagine che dice tutto, anche senza le parole: su quanto costi essere sempre “on”, prima ancora che i social lo rendessero un carcere quotidiano.

‘Harry Belafonte and Joan
Fontaine in Island in the Sun’, 1957. Gelatin silver print, 6 15/16 × 9 1/16″ (17.6 × 23 cm). Foto: press

Bob Beerman, ‘Rock Hudson’, с. 1953. Gelatin silver print, 9 15/16 × 8″ (25.2 × 20.3 cm). Foto: press
Il sottotesto della mostra è evidente: prima del digitale, c’era il glamour come sistema. Non come spontaneità, ma come disciplina visiva, sociale e culturale. Una forma di sorveglianza e di costruzione identitaria che, pur senza l’Intelligenza Artificiale, sapeva già essere spietata. La vera differenza? Oggi il controllo è nelle mani del pubblico (e dell’algoritmo). Allora era tutto nelle mani del produttore — e del fotografo.
Ironico, no? Nell’era in cui si predica l’autenticità a ogni piè sospinto, forse ci mancano proprio quei bugiardi professionisti del passato. Almeno, sapevano mentire con stile.