C’è un modo per raccontare la guerra che non passa dal rumore delle armi ma dalla profondità delle cicatrici. In de bello: notes on war and peace – mostra-manifesto con oltre 30 artisti, curata da Francesca Acquati e 2050+ (Ippolito Pestellini Laparelli ed Erica Petrillo) e allestita a gres art 671 a Bergamo fino al 12 ottobre – Gabriele Micalizzi mette in scena un atlante visivo che sfida la retorica del reportage. Niente didascalie urlate, niente eroi. Solo immagini che guardano dritto negli occhi il trauma, la violenza, la spiritualità del conflitto. È un lavoro sul corpo e sulla coscienza, dove l’arte smette di essere strumento e diventa testimonianza. Milanese, classe 1984, cresciuto nella cronaca, Micalizzi ha attraversato le zone più calde del mondo – dalla Siria alla Libia, da Mosul a Gaza – con una vocazione quasi mistica alla verità. Fondatore del collettivo Cesura Lab sotto la direzione artistica di Alex Majoli, collabora con numerose testate internazionali (compresa la nostra) ma non ha mai smesso di pensarsi autore. In questa intervista, ci parla di guerra, futuro, giornalismo, e di quella forza che tiene insieme sguardo e sopravvivenza.
Partiamo dalla mostra de bello. Quanto è stato difficile per te, che documenti le guerre da vicino, mantenere uno sguardo neutrale?
Guarda, per me non è stato così complesso. Il giornalismo che ho imparato e che cerco di praticare è fondato proprio su uno sguardo neutrale. Da reporter, io documento. Riporto ciò che vedo, e nel mio caso lo fotografo. Certo, cerco le storie, ma sempre con un occhio distaccato: se prendi posizione, diventi un attivista. E quello è un altro mestiere. La mostra, però, non è stata semplice da pensare. Parlare oggi di guerra, con mille conflitti attivi, senza focalizzarsi su uno solo – e quindi senza togliere peso a nessuno – è una sfida. Abbiamo deciso di essere trasversali: non raccontare le guerre, ma raccontare l’essere umano in guerra.
In mostra c’è un equilibrio raro tra emozione e compostezza. Come avete lavorato con i curatori per evitare il rischio di spettacolarizzare l’orrore?
Questo è stato uno dei grandi temi. Non volevamo cadere nella pornografia del dolore. Io ho insistito molto su questo punto: è giusto mostrare anche la morte, certo, ma senza cercare lo shock fine a sé stesso. Viviamo in un’epoca anestetizzata, dove siamo assuefatti alla violenza mediatica. Abbiamo scelto di costruire un climax, un crescendo emotivo che avesse un picco: quello è rappresentato dalla sala dei miei arazzi. È lì che il visitatore si ritrova letteralmente “dentro” la guerra. Volevamo portare il pubblico a riflettere, senza usare l’atrocità come leva emotiva. Anche perché oggi la guerra è vicina. Per questo volevamo restituire al pubblico tempo e profondità. Una foto vista su un muro non è la stessa che scorri su un feed tra un gattino e una pubblicità. In mostra, ogni immagine ha il tempo di essere guardata. E quell’estetica forte serve proprio a questo: a far pensare.

Gabriele Micalizzi. Foto: gres art 671
In che modo la tua esperienza personale ha influenzato la narrazione curatoriale della mostra? Hai portato memorie tue?
Sì, assolutamente. Ci sono immagini che ho proposto, anche se non tutte sono entrate. E poi c’è stato un confronto bellissimo. Io faccio parte di Cesura, un collettivo di fotografi, e lì il confronto è la base di tutto. In mostra ci sono opere che vanno molto oltre la fotografia giornalistica. Io non sono un curatore, sono un fotoreporter. Ma questa esperienza mi ha insegnato tanto. Ho difeso la necessità di mantenere una prospettiva giornalistica dentro al racconto, ma allo stesso tempo ho imparato a guardare la guerra da angolazioni nuove.
Qual è secondo te oggi il gesto più potente per opporsi alla logica del conflitto?
Disertare. Boicottare. Sono i gesti più forti che abbiamo. Quando ti dicono di odiare qualcuno e invece tu lo aiuti, quello è un atto rivoluzionario. Prendiamo un esempio: se tra ucraini e russi, o tra israeliani e palestinesi, accadesse oggi qualcosa di simile alla “Tregua di Natale” del 1914, quando i soldati nemici nelle trincee delle Fiandre smisero di spararsi e festeggiarono il Natale insieme… ecco, se oggi accadesse una cosa del genere, sarebbe sconvolgente. Una tregua spontanea. Immagina l’effetto. Perché la guerra ti disumanizza. Ti abitui alla violenza, alla morte. Ma un gesto umano, anche minimo, può spezzare questa spirale. È lì che si gioca tutto.
de bello sembra essere anche una presa di posizione. Qual è il messaggio che vorresti arrivasse ai visitatori?
Che la guerra non è inevitabile. È una scelta. E ogni scelta ha delle conseguenze. Vorrei che chi viene a vedere questa mostra uscisse pensando: “Io posso fare qualcosa. Non è vero che non contiamo niente”.
E il ruolo del fotoreporter? Cosa resta oggi di quel mestiere?
I giornali affondano. Il fotogiornalismo, quello vero, è in crisi nera. Anche voi giornalisti – permettimi – dovreste smettere di fare i coglioni e tornare per strada. Fare domande vere alle persone giuste. Il problema è che non c’è più relazione tra i freelance e le redazioni. Chi sta in redazione ha 70 anni e non sa aprire un PDF, e chi è giovane fa video su TikTok da milioni di views. Il mondo è cambiato, ma nessuno ha insegnato ai vecchi come restare credibili nel nuovo sistema. Serve una nuova direzione. Serve una nuova voce autorevole. E quella voce oggi manca.
È un problema solo italiano?
No, ma in Italia è particolarmente evidente. Una volta c’erano i Montanelli, i giornalisti che andavano dritti al punto, anche se dava fastidio ai padroni. Oggi invece, anche nei grandi giornali internazionali come il New York Times, non si legge mezza parola che metta in discussione il racconto ufficiale sulla guerra in Ucraina. Nemmeno lì hanno avuto il coraggio di raccontare il lato oscuro.
Hai notato differenze nel modo in cui la comunità internazionale – e i media occidentali – trattano visivamente e narrativamente i fronti di guerra di Gaza e Ucraina?
Certo. Fai una prova: cerca su Google “bambini morti Gaza”. Non ti esce nulla. Nessuna foto. È folle. È come se qualcuno decidesse cosa puoi e non puoi vedere. La guerra in Ucraina poi è la più grande operazione di disinformazione mai vista. Ci hanno detto che c’è un pazzo al comando della Russia e dei poveri ucraini vittime. Ma tutto quello che c’è in mezzo? Sparito. La realtà è piena di sfumature, e il giornalismo dovrebbe raccontarle.
Ma non lo fa. Perché secondo te?
Perché tutto è dominato dai soldi. Un giorno le multinazionali avranno le galassie, capito? Il sistema è basato sull’eredità. Se tu pensi al fatto che noi non potremo mai diventare ricchi, è come una riffa truccata. Noi freelance possiamo guadagnare fino a un tot, se no le tasse ti mangiano vivo. Devi stare sotto una soglia: campa, ma non rompere le palle. Parlavo con i miei amici fotografi – gente di livello altissimo – e dicevamo: “Abbiamo 45 anni…”. Io ne ho 40, gli altri anche di più. “Abbiamo avuto soddisfazioni, sì, ma economicamente? Non ci possiamo comprare una casa, non possiamo fare un investimento vero, non possiamo costruire un futuro”. In un sistema capitalistico, se hai i soldi diventi un problema. Chi comanda non vuole che tu li abbia. L’unica via è ricevere una grossa eredità, oppure la guerra…
Perché la guerra?
I conflitti sono una sorta di ascensore sociale. Ti faccio un esempio: a Donetsk ho conosciuto un tipo incredibile. Un filorusso. I russi cercavano di eliminare gli ucraini dall’aeroporto. Li chiamavano i cyborg: non dormivano, combattevano al freddo, di notte, non si fermavano mai. Questo qua nella vita normale lavorava in un mollificio. In guerra è diventato un animale da battaglia. Lui e i suoi ragazzi combattevano a viso aperto, sparavano contro tutto. Il loro battaglione lo chiamavano “il battaglione Somalia”, perché quando hanno finito l’operazione l’aeroporto era ridotto a un colabrodo. Non c’era un palo in piedi, tutto era crivellato. Aerei distrutti. Tutto. Ricordo un’intervista a lui: gli esplode un razzo vicino, tutti scappano, lui no. Prende una scheggia ancora calda e la lancia via. Poi è stato ammazzato con un’autobomba. Però vedi… quello è il potere che ti dà la guerra: da operaio in una fabbrica di molle a eroe nazionale.

‘de bello: notes on war and peace’ a gres art 671, Bergamo. Foto: Diego De Pol
Che epoca è quella in cui stiamo vivendo?
Schizofrenica. Una volta se facevi un commento un po’ sopra le righe ti cacciavano dalle Tv, dai social, da tutto. Ora Trump può dire quello che vuole. Prima avevi paura della gogna mediatica, oggi puoi essere l’opposto di tutto e nessuno se ne frega. È un momento interessantissimo da raccontare, ma è anche di immensa incertezza storica. Nessuno sa dove stiamo andando. E questa cosa ci fa paura.
C’è stato un momento dove con una tua foto hai sentito di aver cambiato qualcosa?
Sì. Stavo lavorando a Rogoredo. Ho fotografato un carabiniere che aiutava una ragazza: era stata picchiata, le avevano rubato una dose, era incinta, minorenne, era scappata da un istituto. Lui si era seduto per terra con lei, senza cappello, la faceva parlare, l’ha calmata, ha fatto chiamare la madre. Poi è arrivata questa madre piena di soldi, tutta vestita Gucci e Prada. Ma non sapeva che farsene di una figlia tossica. Era una scena devastante. Proprio la società che fallisce. Dopo quell’articolo e quello scatto, tutti hanno cominciato a parlare di Rogoredo. Nel giro di due mesi lo spaccio è finito. Mi ha fatto piacere. Nessuno mi ha detto bravo, ma chi se ne frega. Dicono che il fotografo è mosso dall’ego, ma non è il mio caso.
Qual è il tuo caso invece?
Facendo guerra ho perso tanti amici. Ho due figlie di 13 e 14 anni. Mi hanno ferito pesantemente, mi hanno sparato addosso un’infinità di volte. Ho visto morire bambini, ragazzi. Tutta quella sofferenza ha un prezzo altissimo. Assorbi tutto. L’ego non ti basta per reggere tutto questo. Quindi sì, mi fa piacere vedere i miei arazzi a Bergamo, ma non perché sono miei. Perché qualcuno coglie il concetto, si ferma a riflettere.
E poi c’è sempre il momento in cui si torna a casa e si affronta la normalità di tutti i giorni. Quanto è complicato per te?
Molto. In guerra le persone sono come sono davvero. Tornato qui, mi scontro con le sovrastrutture, i problemi inutili. Anche i miei amici più cari non sanno davvero cosa faccio. Sanno che vado in giro, scatto foto. Ma non ci sono stati con me. Ma a me serve proprio questo tipo di umanità innocente, quella loro, quella vera.
Chiudiamo con una domanda evergreen: c’è per te un segreto per diventare un buon fotoreporter?
Vivere d’istinto. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina ho chiamato dieci giornalisti. Tutti mi dicevano: “Ma no, non succederà niente. Ma figurati se Putin invade…”. Sono partito lo stesso. Una settimana dopo è iniziata la guerra. Quindi sì: intuito, visione, ma anche studio. Io ho imparato la geopolitica ascoltando i giornalisti sul campo. Leggevo quello che scrivevano, stavo zitto e imparavo. E ancora: bisogna che i giornalisti bravi insegnino ai giovani ma poi si tolgano dalle palle. Perché questo è un lavoro da fare quando si è giovani. Io mi sento già vecchio per fotografare la guerra. Ci devi andare quando sei incosciente e senza famiglia. Porco Giuda…