Nessuno l’ha mai vista davvero, eppure è dappertutto. Eleonora Duse, la Divina, torna a Venezia – ma non calca i palchi, entra dallo schermo, filtrata da Pietro Marcello e dal corpo nervoso di Valeria Bruni Tedeschi. Il film Duse, in anteprima all’82ª Mostra del Cinema, non è un biopic, non è un santino, non è nemmeno una riesumazione nostalgica. È un’invocazione. Perché la Duse, oggi più che mai, sembra parlarci come una voce fuori campo che non accetta repliche: «Essere, non apparire». In tempi di avatar, filtri e stories da quindici secondi, suona come un insulto, o peggio, come una profezia.
Nata in una stanza d’albergo (la camera d’hotel come luogo di nascita e di morte: inizio e fine di una carriera che resta più punk che ottocentesca), la Duse, quella storica, ha trasformato la precarietà in un’estetica. Viaggiava con genitori squattrinati, recitava a quattro anni, si prendeva i ruoli della madre malata a dodici. Non ha mai avuto tempo di imparare a stare ferma. Oggi la definiremmo “nomade digitale”, se non fosse che il suo Wi-Fi erano le diligenze, i treni, le arene all’aperto. Marcello ce la restituisce come una creatura irregolare, più vicina a una rockstar indie che a un’icona polverosa da libro di scuola.
Perché Duse rompeva regole come si spaccano chitarre sul palco: niente trucco, niente pose fisse, niente manierismi. Solo il volto, il respiro, la voce che diventava materia viva. Un teatro detox, minimale, come una versione proto-slow theatre che oggi farebbe impazzire le piattaforme di streaming, sempre alla ricerca di “autenticità” prêt-à-porter. E invece la sua era scomoda, irripetibile, non replicabile. Non a caso, Sarah Bernhardt – l’influencer teatrale parigina dell’epoca – la prese come rivale. Due dive che si rubavano Shakespeare come oggi ci si ruba il trending topic su X (ex Twitter).
E poi c’è Ibsen. Duse porta in Italia Casa di bambola nel 1891, senza cambiare una virgola. Una donna che lascia il marito, il focolare, il ruolo di angelo del focolare: roba da censura a quei tempi, e da flame sui social oggi. Ogni sua scelta sembrava un atto politico, anche quando lei si ostinava a dire “io non esisto”. È questo il suo vero paradosso: più negava se stessa, più diventava leggenda.
È in questo clima che incontra Gabriele D’Annunzio. Prima amici, poi amanti, i due trasformano la relazione in un laboratorio teatrale: fu lei a pungolarlo, chiedendogli perché mai non avesse scritto per il palco. Nasce così un patto artistico: lui avrebbe fornito i copioni, lei avrebbe dato loro vita. Per Duse scrive La città morta, che in Francia vende però a Sarah Bernhardt, trasformando il triangolo artistico in un dramma parallelo di competizione e tradimento. Per circa cinque anni i due vivono un sodalizio intenso e burrascoso, tanto che D’Annunzio prende casa proprio di fronte alla sua, a Settignano, dove lei abitava nella Porziuncola. Ma infedeltà e fratture profonde logorano il rapporto, fino al colpo di grazia: la pubblicazione de Il fuoco, romanzo che racconta la relazione di un giovane poeta con un’attrice matura, in cui lei si riconosce suo malgrado.
Il film di Marcello gioca proprio su questa assenza-presenza: Bruni Tedeschi non interpreta la Duse, la evoca. Come se la sua figura fosse una password dimenticata, un codice che apre ancora oggi le questioni rimaste insolute: che cos’è recitare, che cos’è vivere, dove finisce la persona e inizia il personaggio? E qui la Duse diventa più contemporanea di qualunque star system: non ha mai voluto un brand, eppure è un marchio registrato nell’immaginario collettivo.
Le sue ammiratrici postume? Marilyn Monroe, Anna Magnani. Donne che, come lei, hanno vissuto tra pubblico e privato, tra performance e verità. Con una differenza: mentre le altre sono finite intrappolate nell’iconografia (il rossetto, la sigaretta, lo sguardo), la Duse rimane sfuggente. C’è una sola prova su pellicola, Cenere (1916), e anche lì lei si sottrae all’obiettivo, recita di spalle, si nasconde dietro la nuca. Una diva che non voleva mai mostrarsi. Immaginate un’influencer che rifiuta di farsi fotografare: impossibile. Eppure, lei ci è riuscita.
La sua eredità ci appare non tanto come un archivio di performance, ma come un gesto sottrattivo: un teatro senza effetti speciali, un cinema senza glamour, una vita senza spettacolarizzazione.
Eleonora muore in un hotel di Pittsburgh nel 1924, come se la sua esistenza dovesse restare incorniciata da quella precarietà nomade con cui era iniziata. È per questo che Marcello e Bruni Tedeschi la riportano in sala a Venezia non come reliquia, ma come detonatore: per ricordarci che la scena non è mai stata un posto per chi vuole “apparire”.
Oggi che tutto è performance, la Duse resta l’eccezione. Una star che ha costruito il suo mito rifiutando il mito. Un’attrice che ha ridefinito il divismo facendolo esplodere dall’interno. In altre parole: la più contemporanea tra gli antichi.








