Carolina Bianchi: «C’è un sentimento di rabbia che mi accompagna quando creo» | Rolling Stone Italia
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Carolina Bianchi: «C’è un sentimento di rabbia che mi accompagna quando creo»

La regista Leone d'Argento è tornata in Italia con il secondo capitolo della sua trilogia 'Cadela Força'. Ne abbiamo approfittato per chiacchierare con lei, parlando del potere maschile a teatro e della performatività della violenza, fuori e dentro la scena

Cadela Força

Cadela Força Trilogy, Capitolo II, "The Brotherhood"

Foto: Mayra Azzi

Un anno fa, a Triennale Milano Teatro, ho conosciuto Carolina Bianchi e il suo Boa Noite Cinderela, primo capitolo della trilogia Cadela Força.

Con quello spettacolo Bianchi ha fatto rumore in tutta Europa, diventando un nome di punta delle programmazioni: il suo lavoro pregno e complesso non ha lasciato indifferenti nemmeno i circuiti più istituzionali, tanto che lo scorso luglio il direttore artistico di Biennale Danza Wayne McGregor ha conferito alla regista brasiliana il Leone d’Argento alla Carriera. Riconoscimento che implica un atto di coraggio da parte del festival, che ha deciso di scommettere su un’artista che fino a poco prima faceva parte di circuiti indipendenti e poco conosciuti a livello internazionale.

La ricerca di Bianchi, incentrata sul tema della violenza intrinseca nell’essere umano e sui sentimenti contraddittori che essa genera, dalla devastazione all’eccitazione, fa confluire storia dell’arte, letteratura e storia del teatro in spettacoli distintivi, che mescolano in maniera sorprendente tutti i linguaggi della scena e che hanno una forza comunicativa innegabile data dal suo punto di vista: quello di una vittima che non è morta ma che combatte ogni giorno per – letteralmente – sopravvivere dopo uno stupro.

Nel primo capitolo il tema principale è la violenza sessuale nel momento dell’atto, con una messa in scena che non risparmia nulla, tanto che a ogni replica Carolina (che è sempre in scena nelle sue produzioni) assume una dose di droga dello stupro, sviene sopra un materasso e lascia che siano i suoi performer a portare avanti lo spettacolo mentre lei, inerte, viene agita dagli altri – aprendo così anche una serie di questioni parallele sul tema del consenso, che vanno a sovrapporsi alla trama principale già spinosa – , proprio come è successo la notte in cui è stata stuprata in una casa privata durante una festa di persone di spettacolo.

Nel secondo atto invece, intitolato “The Brotherhood” e visto proprio a Venezia in apertura al festival Biennale Danza 2025, i temi principali sono la fratellanza maschile e il rapporto con l’artista genio. Qui la questione è ancora più sottile. Carolina ricerca nella storia, nello specifico del teatro, le origini delle strutture di potere maschili e dei legami solidali fra uomini, che nel corso del tempo hanno portato il “male-cis” in una posizione di potere anche grazie a questo sistema di fratellanza solidale all’interno del quale esercitare abusi attraverso violenze fisiche o verbali è spesso una abitudine normale, una strada ammissibile qualora necessario.

Nella pièce vengono attraversate diverse possibili reazioni a questo atteggiamento, che può risultare disarmante ma anche irresistibile, addirittura eccitante per chi subisce senza riserve, oppure può spingere a creare alleanze, a coprire, a perdonare in virtù di una qualche convenienza. Carolina giostra magistralmente la scena per far traballare sistemi secolari e mette sul palco la sua continua ricerca di risposte, su se stessa e sul mondo, con una sincerità disarmante e senza filtri. Della catarsi non le interessa niente, mentre indagare a fondo l’animo umano delle vittime e dei carnefici attraverso l’arte le dà la forza di andare avanti, nonostante la sua condizione di morta in terra. Senza conoscerla la si potrebbe immaginare una persona cupa e che mantiene le distanze, invece la incontriamo in video call una mattina di agosto poco prima di iniziare le prove per la replica a Kampnagel Hamburg. Luminosa, sorridente e con una voce dolcissima pronta a raccontarci quanto segue.

Da donna, dopo aver visto Boa Noite Cinderela, mi sono chiesta come hai deciso di raccontare la violenza che hai subito con una trilogia di spettacoli che sarebbe durata anni, tenendoti incollata al ricordo sia in scena che non: dove hai trovato la forza per fare questa scelta?
Ho optato per la trilogia perché credo che in qualche modo sia connessa al tema della creazione artistica. Sia nell’arte che nella letteratura ci sono svariati esempi di opere pensate in tre fasi, anche io ho sentito subito questa necessità legata allo sviluppo del progetto. Tutto parte dal mio trauma, ma il trauma è anche nel processo creativo. Creare è di per sé traumatico, doloroso, faticoso. C’è un sentimento di rabbia che mi accompagna quando creo, quando scrivo – la scrittura è per me sempre l’origine. A ogni modo il fatto specifico dello stupro non è il fulcro del lavoro, non sto facendo autofiction, è piuttosto il punto di partenza dal quale approccio la storia dell’arte o la letteratura, e questo continua a generarmi domande e farmi capire cose nuove su me stessa e su ciò che ho intorno. Ed è qui che trovo la vera spinta per continuare. Mi sento ancora in un processo di ricerca e di comprensione più che a un punto in cui devo insegnare o dimostrare qualcosa.

Come gestisci il lavoro in sala prove?
Io mi definisco prima di tutto scrittrice, infatti il testo è sempre il mio punto di partenza. In sala prove arrivo quando ho la prima stesura del testo, che considero aperta ma a cui effettivamente apporto piccolissime modifiche nel corso delle prove, anzi diciamo che rimane praticamente la stessa fino a fine creazione. Quando scrivo penso già per cosa sto scrivendo, per chi lo sto facendo, penso che quel testo è fatto per essere messo in scena e di conseguenza mi immagino già una determinata estetica ma senza decidere nulla prima di iniziare le prove, prima di vedere cosa nasce dall’incontro con i miei performer. Che è sempre una sorpresa anche se con molti lavoro da dieci anni, ormai. Loro hanno una totale dedizione al lavoro, si donano tanto e con sincerità: quando bisogna dare corpo a una scena non esiste nessuna mimica, nessuna bella danza o bella parola, si entra davvero in una determinata situazione – per esempio la scena della festa in Boa Noite, quella per me è una sorta di portale verso la malvagità, è un momento estremamente vero in cui i performer raggiungono una qualche dimensione ulteriore mentre io continuo a dormire. In sala ci divertiamo tantissimo, ridiamo molto e questo è un elemento fondamentale. Credo di essere una regista piuttosto tradizionale, arrivo con il mio testo, do indicazioni molto precise per non lasciare i miei performer nel buio, non credo nella pratica del “vediamo un po’ come va, dove ci porta questo o quello”: so esattamente dove voglio arrivare, con loro costruisco la strada.

In “The Brotherhood” ci sono due temi principali, il rapporto con l’artista genio, al quale il mondo perdona tutto perché inerme davanti al suo carisma, e la fratellanza maschile nell’ambiente artistico. Mi sono chiesta se siano effettivamente delle peculiarità maschili o se riguardino tutte le persone, al di là di genere, orientamento, ambiente, classe…
Il potere maschile è qualcosa di storico, è una struttura sociale consolidata nel corso dei secoli che indubbiamente ha portato anche l’ambiente teatrale in una determinata direzione, creando una specifica scena: il grande regista, il grande attore, il grande direttore d’orchestra, il grande danzatore, quello che mi interessa è indagare come queste strutture si siano normalizzate nel tempo. È un fatto che se un uomo abusa del potere conferitogli dalla propria posizione sia in fin dei conti accettabile, o meglio sia accettato – e nel permettere che questa condizione si perpetui abbiamo tutti e tutte una responsabilità condivisa – ma non credo assolutamente che una donna sia esclusa dalla possibilità di cadere nella stessa dinamica, me stessa compresa. La mia non è da intendersi in nessun modo come una accusa di genere, si tratta piuttosto di interrogarmi e mettere in discussione una dinamica sociale che di fatto esiste.

Qui però ci troviamo davanti a un caso di “big female director”! Come si sta dopo un Leone d’Argento?
Devo ancora realizzarlo! Mi ha colto totalmente di sorpresa, io vengo da una storia completamente indipendente, ho iniziato nel sud del Brasile e solo da qualche anno mi sono spostata in Europa. Non mi sarei mai sognata di poter vincere un premio del genere. Sulla carta è qualcosa di inaccessibile per una realtà come la mia. Quindi si, è una gioia immensa e un riconoscimento importantissimo di questi anni di lavoro in cui, lo ammetto, non è stato sempre facile trovare i mezzi per portare avanti le produzioni – e stiamo comunque parlando di condizioni decisamente basic. Mc Gregor è stato molto coraggioso a consegnarlo a me.

A un certo punto di “The Brotherhood” ti vediamo con il cuore incendiato in un monologo dedicato a uno dei principali artisti-genio viventi, Jan Fabre, da sempre ritenuto un rivoluzionario per il suo teatro estremo, carnale, sessuale e oltre i limiti, poi cancellato da tutte le programmazioni in seguito alla condanna per violenze sessuali proprio all’interno della sua compagnia. Come ti posizioni nei confronti della sua figura, distingui l’artista dalla persona?
La questione di “separare l’artista dal lavoro”, mi verrebbe da dire, è uno dei punti chiave di questo spettacolo, non solo sul piano del giudizio o delle opinioni personali su come gestire l’ammirazione all’interno del mondo dell’arte, ma anche nei termini di come la questione sia trattata in maniera diversa in base al genere. Continuiamo a ripeterci di separare l’essere umano dall’artista soprattutto quando si tratta di un genio (maschio) adorato, ed è chiaro, perché non si sa cosa fare con le sensazioni e con la vibrazione che le sue opere continuano a far provare a chi ama il suo lavoro. Quando invece si parla di artiste donne, la biografia determina sempre come il lavoro viene interpretato, per cui alla fine sento che le nostre vite, i nostri traumi, verranno visti come qualcosa che orienta la percezione di ciò che facciamo. E non vedo via di uscita da questo. Quando si arriva a Fabre nella seconda parte dello spettacolo il tema che propongo non riguarda solamente lui e i suoi trascorsi, ma in generale come ci si comporta di fronte a questo tipo di complessità dell’ambiente artistico: parto dai suoi recenti trascorsi per aprire una riflessione ben più ampia e come donna sento una sorta di fatalità, sento che la mia vita eclisserà sempre il mio lavoro e che, come una maledizione, sarà proprio la mia storia interna al lavoro a ingurgitarmi facendomi scomparire.

Un’ultima domanda. Che rapporto hai con il tuo corpo? L’ultima volta che ci siamo incontrate a Venezia avevi 40 gradi di febbre prima di andare in scena per quattro ore, quando sei in tour con Boa Noite assumi la “rape drug” a ogni replica, verrebbe da pensare che ti piace spingerti al limite.
Oh no, il mio corpo sta benissimo! Non sto facendo questo perché devo dimostrarmi qualcosa o raggiungere qualche tipo di limite, ma solo perché lo ritengo il modo più giusto di raccontare questa storia. Sono tantissimi anni che lavoro come performer e che mantengo il mio corpo allenato per la scena. Se un giorno dovessi accorgermi che è troppo, allora semplicemente mi fermerei.

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